Psichiatria

Follia nel secolo breve

 

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Il termine schizofrenia è scomparso dai manuali degli organicisti. Ma la malattia no. E nel Novecento è tracimata nella cultura
di Domenico Fargnoli

Il neologismo “schizofrenia”, coniato da Bleuler nel 1911, è stato utilizzato per designare un gruppo di psicosi accomunate da specifiche alterazioni del pensiero e dell’affettività. Il termine ha segnato la rottura con la precedente tradizione e ha dato vita a controversie fra scuole, oltre a prestare il fianco alla critica di essere solo un’etichetta da parte degli antipsichiatri e dei maggiori esponenti dell’organicismo in Italia. Cosa c’è di vero nell’accusa di “nominalismo”?

La nosografia bleuleriana è una pietra miliare perché corrisponde al tentativo di definire la malattia mentale, ancor prima di Jaspers, non solo partendo dall’osservazione oggettiva dei segni clinici, secondo il metodo induttivo delle scienze naturali adottato da Kraepelin, ma anche dalla comprensione dei fenomeni psicopatologici, come la scissione e l’autismo, non percepibili direttamente ma deducibili nella relazione medico paziente. Eugène Minkowski, negli anni Venti, sosteneva che la diagnosi di schizofrenia non può essere fatta in base a una semplice analisi dei sintomi ma rimanda a  un elemento irrazionale che deve entrare in gioco nella relazione fra la personalità globale del medico e quella del paziente quando manca fra loro l’empatia.

Mentre per Bleuler l’autismo è autoerotismo, per Minkowski esso è perdita del contatto vitale con la realtà, fondamento istintivo dell’azione. Per il russo, la nozione di schizofrenia di Bleuler  nasce da un’esigenza terapeutica: essa libera l’alienato e l’alienista dall’idea di demenza come deterioramento irreparabile delle facoltà psichiche. La schizofrenia è invece reversibile, anche se nei casi più gravi può approdare a una pseudodemenza. Quella di Minkowski però è un’occasione mancata: che efficacia terapeutica poteva avere la genericità dello “slancio vitale” presente in tutta la materia e l’irrazionalismo astratto dell’agire “istintivo” derivato da Bergson? La nosografia di Bleuler, attendibile come descrizione clinica, aveva lasciato aperta la questione della modificazione basilare dell’essere che conduce alla “alienazione” schizofrenica. Sull’alterazione “fondamentale” si sono interrogati  con esito incerto studiosi, solo per dire di alcuni più noti, come Jaspers, Binswanger, Barison, Conrad, Gabel, Blankenburg, Arieti, Benedetti. In particolare Jaspers, Binswanger e Barison hanno approfondito il tema del rapporto fra arte e schizofrenia. A partire dagli studi pionieristici di Hanz Prinzhorn sulle espressioni plastiche della follia, negli anni Venti si è prodotta una rottura: l’aggettivo schizofrenico verrà utilizzato per comprendere il carattere assurdo dell’arte moderna. La schizofrenia esce dagli ambiti specialistici ed entra nella cultura del Novecento accolta dalle avanguardie fra cui, in primo piano, i surrealisti: si riteneva, sia da parte degli psichiatri che degli artisti, che la psicosi potenziasse la volontà espressiva. La follia surrealista è delirio, allucinazione, alienazione derivata dalla dialettica  hegeliana. Anche Freud aveva sostenuto che l’uomo era alienato da se stesso per la reazione d’inquietante estraneità che avrebbe suscitato il ritorno del rimosso, e certo non era stato smentito da Heidegger che all’origine dell’umano collocava il vissuto dello spaesamento. La schizofrenia si schizofrenizza: l’alone semantico della parola si allarga fino a essere percepito come un significante vuoto. Negli anni 60 quando le idee delle avanguardie diventano comportamenti e slogans di massa Ronald Laing sostiene che la malattia mentale è “…la via d’uscita che un organismo libero si inventa per vivere una situazione invivibile”. Lo psichiatra scozzese afferma che la schizofrenia acuta è “un viaggio metanoico” un’esplorazione di sé potenzialmente liberatrice. Nel 1971 Basaglia riporta un intervista di Laing nella quale si legge che “schizofrenia” è un’attribuzione inventata da uno psichiatra svizzero e che come reale entità non esiste: essa si riferisce a soggetti devianti, maladattati o disfunzionali. Tale critica non ha senso se riferita a tutte le psicosi schizofreniche, mentre riferita alla “schizofrenia simplex” evidenzia l’impossibilità di una diagnosi razionale. Bleuler, nel 1911, aveva sostenuto che gli schizofrenici vegetano come venditori ambulanti, braccianti servitori e vagabondi. Essi sarebbero presenti anche fra le teste strambe di tutti i generi, riformatori del mondo, filosofi, scrittori, artisti e “degenerati”.

Nonostante l’assurdità di una diagnosi “urbi et orbi” come una benedizione papale, i giornali riportano quasi ogni giorno di persone insospettabili che uccidono lucidamente. Gli psichiatri esistono perché la malattia mentale esiste e non viceversa.
Dalla forma “simplex” è derivato il concetto di schizofrenia “torbida”, non evolutiva, che nei regimi comunisti fu usata per stroncare gli oppositori: l’apparato repressivo sfruttava l’ambiguità teorica di Bleuler.
Nei 1976 Giovanni Jervis scrive che concepire la schizofrenia come una malattia è un’ipotesi politica inconsistente e impraticabile: riprendendo una tesi di Laing sostiene che le esperienze psicologiche di chi prende Lsd o fa meditazione possano condurre alla schizofrenia. Come si fa ad arrivare a uno stato che non esiste? Perché proporre l’analogia con un’intossicazione esogena?
Antipsichiatria e organicismo non sono così lontani come sembrano?

Nel 1980 nella terza edizione del Dsm III,
 manuale ateoretico, il termine schizofrenia scompare e al suo posto compare “disturbo schizofrenico” . La psicosi è un semplice “disorder”? Il termine viene ripristinato nel 1987 ma l’episodio indica un cambiamento di mentalità sul finire del “secolo breve”. La nosografia su criteri sintomatici e oggettivi è un ritorno al fatalismo Kraepeliniano, a quella precisione e  chiarezza che esclude qualunque considerazione sulla personalità umana. Nell’era degli psicofarmaci usati indiscriminatamente e responsabili di patologie iatrogene e di  cronicizzazione, la diagnosi è arbitraria e automatizzabile: il fallimento della psicoanalisi freudiana e il tramonto dell’illusione farmacologica eclissa l’idea di curabilità.
In ambiti privilegiati continua però a essere coltivata la consapevolezza storica, la ricerca sul significato latente dei sogni, sui meccanismi psicopatologici, sui mutevoli effetti dei fattori irrazionali, sull’anaffettività che un gruppo di psichiatri, impegnati nella psicoterapia, ritiene alla base del manierismo schizofrenico.
Per costoro forse ha un senso quanto per Minkowski era solo un’utopia: la diagnosi di schizofrenia cessa di essere una condanna e diviene un atto che serve a orientare lo psichiatra all’interno di un possibile percorso terapeutico.

11 luglio 2008 

 

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