Il lavoro che è stato condotto fino ad oggi nell’ambito del Progetto Psichiatria riguarda principalmente due temi di studio.
Il primo si riferisce alla ricerca sull’estetica contemporanea, e in questa direzione sono stati fatti alcuni “viaggi di lavoro” alla Tate Gallery di Londra e al Centre Pompidou di arte contemporanea di Parigi. Da queste esposizioni che abbiamo visitato viene fuori una netta distinzione fra arte moderna e arte contemporanea. Il concetto fondamentale è che l’arte contemporanea, benché classicamente venga fatta iniziare intorno agli anni ‘70, vedrebbe il suo inizio coincidere più propriamente con il periodo del crollo delle ideologie, e quindi con la caduta del muro di Berlino e con la fine dell’analisi freudiana (vedi ad esempio l’articolo del Time “Freud è forse morto?” del 1993, il lavoro del filosofo Frank Cioffi della Oxford University, che nei suoi scritti sosteneva che Freud fosse un mentitore, e infine l’opera di Adolf Grünbaum, sulle cui riflessioni epistemologiche è stato già scritto anche nel Sogno della Farfalla). Sebbene l’unica critica strutturata e veramente rilevante che è stata fatta a Freud sia quella di Massimo Fagioli, questi temi connessi al rifiuto del freudismo sono stati in realtà presenti anche in un ambito culturale più ampio a livello mondiale dalla seconda metà del ‘900. Riassumendo, come immagine generale si hanno quindi la caduta del comunismo, con il crollo dell’ideologia marxista ad esso correlata, e la messa in discussione della psicoanalisi freudiana. Quello che sembra avere avuto una maggiore resistenza è invece l’esistenzialismo, derivato dalla filosofia di Heidegger, ma forse ancor prima dal pensiero di Jaspers. Pare che la prima opera chiaramente esistenzialista sia stata Psychologie der Weltanschauungen del 1919 (Psicologia delle visioni del mondo tradotto in italiano nel 1950). L’esistenzialismo heideggeriano ha resistito, molto probabilmente, perché si è infiltrato in modo trasversale, ispirando non solo il pensiero politico della destra ma anche quello di una certa sinistra, o sedicente tale, sia francese (vedi Sartre, Foucault, Lacan ) che italiana. La sinistra italiana infatti, in un modo o nell’altro, è a tutt’oggi pesantemente influenzata dall’opera di Heidegger, e su questo tema è incentrata una grande parte del dibattito culturale portato avanti sul settimanale Left. La cosa interessante riguardo al nostro lavoro è che il pensiero esistenzialista avrebbe influenzato in maniera decisiva anche il modo di concepire l’arte nel 900. Basta pesare a cosa ha scritto Rüdiger Safransky nel 1994 in Heidegger ed il suo tempo: “Heidegger come critico della propria epoca venne ascoltato come un oracolo artistico. Non furono le accademie delle scienze, ma quelle di belle arti a fare la corte ad Heidegger (…). Infatti per lui pensare e poetare erano sempre più contigui l’uno all’altro…” (Safransky R., Heidegger ed il suo tempo, Longanesi, Milano, 1994, pag.491). Il pensiero di Heidegger sembra avere influenzato soprattutto le estetiche cosiddette “post-moderne”. Jean-François Lyotard, nella ricerca sociologica del 1979 La condition postmoderne, è stato il primo teorizzatore del postmoderno in filosofia. Nel volume viene presentata la tesi secondo la quale la modernità è giunta al suo compimento e ci troviamo ormai nel postmoderno. Il progetto della modernità di conferire un senso unitario e globale alla realtà, individuandone i fondamenti e facendo leva su una scienza unitaria, si è costruito sull’asse di tre grandi meta-racconti, illuminismo, idealismo e marxismo, che hanno giustificato ideologicamente la coesione sociale e ne hanno ispirato, nella modernità, le utopie rivoluzionarie. Con il declino del pensiero totalizzante si è aperto, secondo Lyotard, il problema di reperire criteri di giudizio e di legittimazione che abbiano valore locale e non più universale. Il filosofo francese ha dunque teorizzato che in un periodo in cui non ci sono più ideologie, non ci sono più valori assoluti, l’arte esce da una fase moderna caratterizzata dalla fiducia nel progresso, nella dialettica, nella trasformazione, ed entra in una fase post- moderna in cui si abbandonano i grandi temi e predominano delle forme di razionalità che non pretendono più di determinare valori assoluti ma che hanno un carattere che Horkheimer avrebbe definito “strumentale”, cioè un qualcosa che serva a conseguire fini, ma fini sempre parziali. E’ un tipo di arte, quindi, che non si pone mai come una riflessione generale sull’uomo, né tantomeno sul bello o sul vero, ma presenta una frammentazione delle conoscenze nell’ambito dell’estetica: anche quando recupera i contenuti e i valori delle estetiche precedenti, l’arte post-moderna lo fa secondo una logica dissociata, nel senso che la caratterizzazione è quella di una ibridazione, di una contaminazione continua, a volte anche dettata dal caso, a volte con una esasperazione artificiosa dei temi. Visitando molte delle gallerie di arte contemporanea, quella che emerge come comune denominatore e appare predominare su tutto il resto, è una dimensione concettuale per cui l’arte si costituisce come trovata intellettualistica autoreferenziale. Giochi di parole, equivoci, e provocazioni studiate a tavolino sono il pane quotidiano offerto in questi ambienti ad uno spettatore cui spesso non rimane altro che una sensazione di grande distacco e freddezza.
L’altro aspetto che è stato affrontato, solo apparentemente sconnesso dal tema precedente, è quello delle ricerche sulla neurobiologia della schizofrenia.
Sul numero di aprile di Nature, una delle più importanti riviste scientifiche nel mondo, è stato pubblicato un lavoro dal titolo Modeling schizophrenia using human induced pluripotent stem cells. Lo studio è stato successivamente rilanciato su Repubblica.it da un articolo di Giulia Belardelli intitolato I segreti della schizofrenia in provetta, riproponendo l’antica questione riguardo all’eziologia della schizofrenia. E’ una malattia di origine genetica al pari di molte malattie neurologiche o è una malattia legata all’ambiente? Oppure è salomonicamente entrambe le cose? Gli Autori, appartenenti al laboratorio di genetica di Fred H. Cage, sostengono che la schizofrenia sia un disturbo neurologico (“neurological disorder”), una complessa malattia genetica in cui la componente ereditaria dell’80-85% risulterebbe preponderante. “Per molti anni – dice Cage – le malattie mentali sono state considerate come disturbi strettamente sociali o ambientali. Si tendeva a credere che una persona malata potesse guarire semplicemente affrontando i suoi problemi. Da tempo sappiamo che non è così. Ora stiamo mostrando nei neuroni disfunzioni biologiche reali che sono del tutto indipendenti dall’ambiente”. Partendo da questo tipo di premesse, il razionale dello studio è stato quello di indagare i meccanismi neurofisiopatologici alla base della malattia riprogrammando dei fibroblasti prelevati da pazienti ritenuti “schizofrenici” per trasformarli in cellule staminali pluripotenti da indirizzare poi verso la differenziazione in neuroni. I neuroni “disorder-specific” così ottenuti mostrerebbero, secondo gli Autori, una connettività ridotta associata a un diminuito numero di prolungamenti cellulari e a una alterata espressione di recettori per il glutammato e di proteine-segnale rispetto ai controlli sani. Inoltre sarebbe stata individuata l’alterata espressione di circa 600 geni di cui il 25% già identificati in precedenza come possibile causa della schizofrenia.
Questo lavoro, oltre a presentare dei limiti importanti da un punto di vista metodologico (limiti per la cui trattazione estesa si rimanda all’articolo in preparazione), pone dei problemi soprattutto da un punto di vista epistemologico. Il dato da rilevare è che in questo e in molti altri articoli dello stesso genere si evidenzia una conoscenza approssimativa di quelle che sono le acquisizioni più recenti della biologia molecolare e dello sviluppo del sistema nervoso. Questi studi vorrebbero far credere che il comportamento è determinato in modo rigido dai geni quando invece tutta la biologia molecolare, dagli anni ‘60 in poi, ha dimostrato che l’ambiente ha un’influenza decisiva sull’espressione genica. Nella seconda metà del secolo scorso infatti ha preso le mosse lo studio dell’epigenetica, un ramo della biologia che ha modificato radicalmente le concezioni non solo dell’embriologia ma anche della nascita. Ciò nonostante, buona parte dei ricercatori nell’ambito delle neuroscienze, a partire da Watson, sembrano avere ignorato le implicazioni profonde di queste acquisizioni, avvallando un tipo di ricerche basate su di un presupposto riduzionistico ormai superato e anti-scientifico. Sulla base di questa premessa si è voluto spiegare il tutto partendo dallo studio di un particolare. Su questa falsa riga si è mosso anche Eric Richard Kandel, che pure con le sue ricerche su Aplysia Californica (un placido gasteropode, una sorta di lumaca marina) ha effettuato studi fondamentali sulla neurobiologia della memoria vincendo il premio Nobel per la medicina nel 2009. “Per ricercare le basi fisiche della memoria, io decisi di studiare il cervello di un animale semplice come l’Aplysia” diceva Kandel. L’Aplysia però possiede un piccolo sistema nervoso composto di soli 20mila neuroni suddivisi in gangli, a differenza dell’uomo, che di neuroni ne possiede 120 miliardi. Nonostante l’indubbia importanza di molte di queste scoperte (basti pensare, per fare un altro esempio, a quelle effettuate dal neuroscienziato svedese Torsten Wiesel che, insieme a David Hubel, ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 1986 per gli studi sul funzionamento della corteccia visiva primaria), quindi, il problema si pone quando si passa dal particolare al generale, quando cioè si cerca di spiegare fenomeni profondamente complessi partendo dall’osservazione e dallo studio di sistemi semplici. La tematica della complessità rappresenta un punto critico nelle metodologie di indagine dell’attività mentale. Va tenuto presente, infatti, che il cervello umano ha 120 miliardi di neuroni e le connessioni sono 10/15 volte tanto. Pertanto, a questo livello, emergono delle proprietà sistemiche complesse che non sono derivabili dall’analisi e dalla sommatoria delle caratteristiche di singoli neuroni o gruppi di neuroni.
Partendo dall’analisi dell’articolo pubblicato su Nature e allargando un po’ l’orizzonte a quella che è l’attività della ricerca nel campo delle neuroscienze, appare quindi chiaro come, nonostante la vastità delle informazioni ottenute, nessuno riesce ad tracciare un quadro di insieme, a trarre in modo corretto le conseguenze dall’accumulo di questi dati. Da qui la possibile e necessaria interazione fra neuroscienze e psichiatria, in quanto quest’ultima, partendo dalla conoscenza dei rapporti interumani e considerando l’uomo come totalità, consente un’interpretazione unitaria di questi risultati che ad oggi, invece, sembra molto carente. Ovviamente si fa riferimento alla teoria della nascita, che appare l’unica in grado di consentire una visione e un’integrazione di questi risultati, non conseguibile con altri tipi di teorie psichiatriche. Questa è la linea di ricerca da sviluppare. Sarebbe da approfondire, cioè, il modo col quale integrare i dati neurobiologici nell’ambito della teoria della nascita. Perché molto spesso accade che le acquisizioni delle neuroscienze siano in accordo con la teoria della nascita, ma che ci sia un difetto di comprensione del loro significato e delle loro implicazioni da parte degli stessi ricercatori che li hanno prodotti. Quindi premi Nobel come Kandel o Edelman, quando cercano di estrapolare questi risultati sul piano di una teoria sulla realtà umana arrivano a delle conclusioni assurde e che risultano perfino incoerenti rispetto alle loro stesse premesse. Un esempio per tutti: la questione dei tempi della coscienza e dell’inconscio. Quando coscientemente pensiamo di compiere un movimento in realtà il nostro cervello, molto prima che noi ne siamo consapevoli, ha inviato l’impulso nervoso. Da questo discorso emerge che in realtà la coscienza è solo un settore dell’attività mentale, e che la globalità dell’attività psichica è molto più vasta e più profonda ed è quest’ultima ad influenzare la coscienza piuttosto che viceversa.
A questo punto sarebbe interessante individuare e suggerire un possibile punto di convergenza fra i due filoni di ricerca appena esposti, la ricerca sull’estetica dell’arte contemporanea e quella relativa alle neuroscienze. I due temi proposti sembrerebbero infatti abbastanza lontani, ma in realtà così non è, come proviamo a dimostrare di seguito.
A fine ‘800 Kraepelin teorizzò la schizofrenia come una forma degenerativa, di demenza appunto (dementia paecox). Dai primi decenni del ‘900 con Bleuler, Morghenthaler, Prinzhorn e Jaspers viene fuori un discorso diverso, vale a dire si comincia a teorizzare che nella schizofrenia ci sono sì processi di cosiddetta “dissoluzione psichica”, di frammentazione, ma in modo concomitante emergerebbero capacità produttive sui generis. Questo comporta uno slittamento teorico importante perché la schizofrenia non viene più considerata come un fenomeno deficitario o regressivo. Questa tematica è presente del resto anche in Ferdinando Barison, basti pensare al suo articolo Art et Schizofrénie pubblicato nel 1961 ne L’Évolution Psychiatrique di Ey. Barison, facendo riferimento al sentimento di schizofrenicità (praecoxgefûhl) che lo psichiatra avverte di fronte al paziente schizofrenico, propone un criterio soggettivo di interpretazione per cui il terapeuta avvertirebbe la schizofrenia come un sentimento, come uno stato d’animo che però è affine ad un sentimento estetico. Anche per questo motivo l’intreccio fra psichiatria ed estetica in realtà è molto più profondo e antico di quanto pensiamo. Senza andare troppo lontano può essere preso in considerazione anche il “manierismo” di Binswanger, un concetto prestato alla psicopatologia ma che originariamente definiva un movimento dell’arte figurativa.
Partendo da queste premesse storiche, viene naturale proporre una riflessione sull’articolo di Matussek a proposito di Heidegger (apparso sul Sogno della Farfalla 3/2009 4/2010) e sull’ intervista della Homberg a Safransky, che molto ha scritto sulla biografia del filosofo tedesco. Come si fa a dire che la schizofrenia o più in generale i disturbi psicotici sono un fenomeno deficitario, come si fa a sostenere che Heidegger avesse un deficit mentale? Questo a conferma del fatto che l’orientamento attuale della psicopatologia non è più quello di considerare il deficit, la dissociazione come la caratteristica fondamentale del processo schizofrenico, ma, piuttosto, in accordo anche con Barison, Fagioli, ecc., il manierismo schizofrenico andrebbe considerato una forma particolare di “creatività”, (mettendo appunto creatività fra virgolette), di produttività psichica. Fagioli in particolare lega in modo originale il manierismo all’anaffettività (vedi numero monogafico sul manierismo ne “Il sogno della farfalla”) mentre Barison, in Opinioni di uno psichiatra di derivazione heideggeriana sulla psicoterapia del 1991 scrive:”La schizofrenia si configura allora non come un insieme di deficit quantificabili, ma come modi di essere abnormi che possono essere colti nel “mit-sein“. Fin da giovane ho visto la schizofrenicità come un “plus”, un qualche cosa che dà a tutto il vivere del paziente un colorito che non è solo disordine, incomprensibilità su un piano cognitivo e sentimentale, dissociazione, atimia, vissuto autistico; ma qualche cosa di più e cioè il colore di una “novità”, che ha un senso che è un non senso; un qualche cosa che è coglibile col “praecoxgefûhl”, di cui è celebre la tautologica definizione. In ottica ermeneutica, una “verità” vivendo la quale l’operatore riesce a sentirsi “con” con questo uomo che ogni “con” rifiuta, e così anche l’operatore si sente “mutato”. Troppo facili le analogie con l’opera d’arte e con la fruizione della stessa. Ed è per questo che ho trovato nel secondo Heidegger un conforto a questo vivere la schizofrenicità non come una romantica creazione (a questo mi portava l’esistenzialismo di Sein und Zeit) ma come l’apertura al disvelarsi velandosi dell’essere, in una abnorme perché solipsistica apparsa della “radura”, la luce del bosco che si nasconde nell’ombra”.
Secondo il nostro approccio, la schizofrenia è un disturbo troppo profondo per consentire una creatività vera e prorpia (Vedi l’articolo Psichiatria ed Arte di Bisconti Paola e Francesco Fargnoli pubblicato nel Il sogno della farfalla) Si può dunque parlare più propriamente e specificamente di produttività, possibile in certi settori, come ad esempio l’informatica o la matematica o lala logica, settori cioè che non presuppongono ad esempio la realizzazione del rapporto uomo-donna. Diviene a questo punto necessario distinguere e capire che cosa si debba intendere con il termine creatività: una cosa è la produttività artistica od anche scientifica, altra cosa è la creatività, che per come la si intende nell’ambito della nostra riflessione, è legata appunto ai rapporti umani.
Continuando nella analisi della convergenza fra i due filoni di ricerca, estetica e neuroscienze, si nota come molti studi biologici, riproponendo solo apparentemente “ammodernato” il concetto di demenza, di fatto annullano completamente quella che è la storia recente della psichiatria e della psicopatologia.
Un’altra considerazione importante riguarda il fatto che negli anni ‘20 il tema della schizofrenia da argomento specialistico diventa, attraverso l’estetica, questione culturale. La malattia mentale è tuttora un problema non risolto, e la schizofrenia come fonte di creatività artistica viene riproposta a più riprese anche dallo stesso Barison nel momento in cui equipara “l’assurdo schizofrenico” con “l’assurdo artistico” dell’arte moderna. Scrive Barison nell’articolo Una psichiatria ispirata ad Heidegger del 2001: “Gli operatori psichiatrici possono vivere il “fascino” della schizofrenia; e quante volte l’ho provato! A proposito della praecoxgefûhl si può ribadire ciò che si è detto in riguardo all’arte e alla sensazione di andare oltre l’Erlebnis diltheyano: si tratta di un’esperienza che va al di là della “sensazione di schizofrenicità”. Nel groviglio autistico lo schizofrenico ci invia un messaggio analogo al linguaggio dell’artista: chiuso in una bottiglia, esso non sarà mai raccolto se non da coloro che sapranno rompere il vetro, attraverso un’attitudine di ascolto che sale ad un livello del tutto differente da quello di ciò che può definirsi “sensazione” (da un livello psicologico ad un livello ermeneutico)”.
Tutt’oggi, se si visitano le gallerie di arte contemporanea, si ha l’impressione di incontrare la poetica di Jean Dubuffet, volta a valorizzare l’arte degli alienati. Gli artisti contemporanei propongono un’imitazione della schizofrenia. Imitazione che realizzano poiché nessuno ha chiarito quale fosse il significato della malattia mentale, nessuno ha dato una risposta a questo problema determinando di fatto il permanere nella cultura generale di certi miti o certe proposizioni erronee. Paul Klee, Marx Ernst e Cesare Viviani (poeta contremporaneo) propongono una poetica dell’allucinazione; tutte le poetiche New Dada, così come l’arte concettuale derivata da Duchamp sostengono che l’allucinazione sia creativa, mentre in seguito alle conoscenze che abbiamo acquisito sull’allucinazione (vedi intervento di Francesca Fagioli ne “La medicina abbandonara”) possiamo ormai affermare con certezza che non si tratta affatto di un fenomeno creativo. L’arte contemporanea è caratterizzata da un aumento della razionalità, che, nonostante venga proposto camuffato sotto le vesti di un falso irrazionalismo, è comunque evidente. Si tratta, a ben vedere, di derivazioni dell’estetica del sublime, basata sulla volontà di determinare nello spettatore uno shock.
Per quanto riguarda l’arte moderna pare invece, sulla base di diversi studi, che sia stata molto influenzata dall’opera di Nietzsche (Vedi L. Ferry Homo aestheticus. L’invenzione del gusto nell’era della democrazia Costa e Nolan Milano 1991): rimane quindi, in essa, un elemento eroico, una prevalenza dell’aspetto estetico della vita, ma nello stesso tempo è presente e tangibile un forte impegno politico. Quanto detto è confermato dalla militanza politica del giovane Picasso, uno dei fondatori della “modernità”, e dall’utilizzo che egli avrebbe voluto fare dell’arte come mezzo di trasformazione dell’uomo. Le stesse considerazioni, al limite, valgono anche per anche Van Gogh il quale con il celebre Mangiatori di patate, propone temi legati al sociale. Per questo, secondo l’analisi di Walter Benjamin, ( W.Benjamin. L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica.[1935] Einaudi Torino 2000) con le avanguardie e l’arte moderna, l’arte perde l’elemento religioso che l’ha contraddistinta fino al ‘700, fino a quando cioè è stata solo illustrazione di un testo sacro, e acquisisce un carattere politico che successivamente perderà, con la crisi delle ideologie, con la fine della sinistra e dell’idea di poter trovare un’alternativa al mondo attuale. Nel momento in cui il capitalismo nell’era della globalizzazione vince su tutto, non esiste più la possibilità di un’alternativa. L’arte è così costretta a cercare una via “creativa” diversa per tentare di opporsi alle mutate situazione attuali. Non trovandola usa forme di manierismo e di ripetizione distorta di estetiche ed ideologie del passato. Quando Duchamp (1917) espone un orinatoio, distrugge l’oggetto artistico demistificando l’aura sacrale di cui era circonfuso fino ad allora. L’oggetto normale diventa così oggetto artistico solo per un’operazione mentale, viene decontestualizzato, gli viene attribuito un altro significato rispetto al rapporto con la realtà, si crea cioè quasi un effetto di percezione delirante. Si realizza una ricerca volontaria, sistematica, dell’assurdo e dell’inconsueto, che spesso non ha però l’effetto desiderato, lasciando lo spettatore estremamente freddo. L’arte concettuale attuale si giustifica in base all’idea, e l’artista è costretto a spiegare perché un oggetto comune è un’opera d’arte. Per definire un’opera d’arte si ha bisogno di un apparato concettuale esplicativo senza il quale l’opera d’arte non esisterebbe. In soggetti in cui l’apparato concettuale funziona la spiegazione diventa così una giustificazione del proprio operare artistico. Ma non si è artisti per il solo fatto di fare riferimento a una teoria (neanche quando con questa si acquisisce una corretta visione della vita psichica), lo si è soltanto se si hanno capacità particolari per le quali si è in grado di trasformare le proprie idee in oggetti artistici capaci di generare una risonanza emotiva.
A questo punto si pone la questione relativa al fatto se e come sia possibile, o addirittura necessario, fare una critica all’arte contemporanea utilizzando una teoria psichiatrica. La filosofia esistenzialista heideggeriana frantuma i concetti universali come frantuma il concetto universale di uomo ( ed i nazisti consideravano uomini solo i tedeschi, e non l’intero genere umano come facevano gli illuministi ( vedi D. Losurdo La comunità la morte e l’Occidente Bollati Boringhieri Torino 1991) Secondo questa linea di pensiero vengono meno anche i concetti di vero o di bello, e ne consegue che non esiste l’oggetto estetico caratterizzabile come tale; si ha perciò una deriva verso un relativismo per cui un artista è considerato tale solo nella misura in cui, tramite un’operazione di marketing, riesce a imporre la propria produzione sul mercato. Senza questa operazione commerciale, considerando solo l’oggetto in se stesso, l’atto artistico non sarebbe riconoscibile. L’atto artistico risulta pertanto un derivato del rapporto con i mercanti d’arte e con i media. L’arte come tale non esiste più.
In alternativa a questo modello, si potrebbe dire che una cosa è bella nella misura in cui è espressione di una realtà sana ma così dicendo si darebbe il compito agli psichiatri di stabilire quando siamo di fronte o meno ad un’ opera d’arte. In questo modo tutto il discorso artistico verrebbe riassorbito nella psichiatria. Questa, a limite, potrebbe essere anche un’operazione giusta, però vanno chiariti i termini con cui metterla in pratica. Un criterio per distinguere ciò che ha un valore estetico da ciò che non ce l’ha potrebbe essere quello di leggere il contenuto umano che sta dentro l’opera d’arte, ad esempio nel caso di Picasso si potrebbe cogliere che dietro alle figure spezzettate non c’è dissociazione ma bensì un’immagine unitaria. E’ un tema molto delicato e bisogna fare attenzione: occorre prima di tutto dire che senza Cezanne Picasso non ci sarebbe stato; è Cezanne che ha creato il cubismo, ha creato la teoria secondo cui le forme devono formare dei solidi ecc. Il celebre Demoiselles d’Avignon è figlio delle Bagnanti di Cezanne. Picasso crea sì un linguaggio nuovo, ma lo fa all’interno di una tradizione, rompe con essa ma vi fa riferimento. Il criterio di valutazione dell’arte di Picasso è interno alla storia dell’arte stessa. Non si può applicare un criterio psicopatologico e definire un’opera d’arte in base alla presenza o meno di dissociazione. Per introdurre questo tipo di valutazione occorre prima trovare la modalità giusta di farlo. Il fare riferimento alla psichiatria, a una teoria sulla realtà umana, potrebbe piuttosto rendere all’arte la sua valenza politica, la sua dimensione progressiva di opposizione, e potrebbe restituirle la capacità di pensare e di creare un’ alternativa alla realtà attuale.