domenico fargnoli Uno psichiatra senese, che lavorava nei servizi territoriali, è stato ritrovato morto nei boschi di Castellina in Chianti. Scomparso nel nulla un lunedì mattina quando avrebbe dovuto recarsi al lavoro per alcune consultazioni è stato ritrovato una diecina di giorni dopo: ha lasciato un messaggio in cui spiegherebbe i motivi del suo gesto suicida, effettuato con un cocktail di alcool e psicofarmaci. E’ molto dibattuto dal punto di vista forense il tema della responsabilità dello psichiatra nel caso del suicidio di un paziente che evidenzia drammaticamente il fallimento della terapia. Nel caso del suicidio di uno psichiatra o comunque di una persona impegnata nella cura della malattia mentale possiamo individuare una responsabilità? Mi sono occupato di tale argomento in uno dei primi articoli che ho scritto per la rivista “ Il sogno della farfalla” nel 1992. In quella circostanza era partito dal rapporto fa Freud e Victor Tausk psichiatra e aspirante psicoanalista che si tolse tragicamente la vita anche per le sue difficoltà di rapporto con il padre della psicoanalisi. La vicenda, ricca di triangolazioni “edipiche” in cui fu coinvolta anche Lou Andreas-Salomé, è stata esaminata nel dettaglio da Paul Roazen nel suo libro “Fratello Animale” (1969) il cui sottotitolo recita emblematicamente così: maestro allievo un rapporto che si chiude con un suicidio. Tausk da una parte voleva sviluppare idee proprie dall’altra aspirava, contraddittoriamente e illusoriamente, a essere il “figlio prediletto”. Freud lo temeva perché rappresentava una minaccia per la sua “originalità” creativa: avvenne così che egli rifiutò l’analisi a Tausk e lo propose a una collega, che allora era una principiante, Helene Deutsch. Secondo Paul Roazen la decisione dell’invio a Helene rappresentava un insulto terribile perché come analista la donna era una nullità. Ci sarebbero stati modi molto efficaci e non distruttivi di reagire a tale violenza ma Tausk era un individuo fragile e profondamente malato: probabilmente era affetto da una forma di schizofrenia cosiddetta latente che si celava dietro la sua intelligenza brillante. Nel testamento scritto nell’ultimo giorno della sua esistenza leggiamo << Vi ho ingannato tutti vivendo un ruolo di cui non ero all’altezza.>> (Paul Roazen-Fratello animale) E’ chiaro che Freud e la Deutsch hanno avuto una responsabilità pesante nella morte del loro collega del quale non hanno intuito la gravità e la profondità della sofferenza mentale. Quand’anche avessero colto la psicosi latente sarebbero stati incapaci di affrontarla perché a quei tempi si riteneva che la psicoanalisi potesse aggravare le forme di schizofrenia. E a ragione poiché il trattamento analitico non aveva alcun valido fondamento teorico. In un’occasione in cui Freud scoprì un nucleo psicotico dietro un’agorafobia (paura dei luoghi aperti) egli dovette ripristinare di nuovo il sintomo attraverso l’ipnosi “ al fine di annullare il danno provocato dal trattamento”. Il passaggio è interessante perché si ammette che il trattamento analitico può provocare un danno anche se non si comprende come una cura che sarebbe efficace in una nevrosi dovrebbe essere nociva in una psicosi. A meno che non si sia voluto dire che in realtà per Freud non esiste nessuna cura dato che i nevrotici sono in grado di migliorare e guarire anche da soli. Noi sappiamo dalla psicopatologia che nelle fasi di esordio di un episodio schizofrenico può essere presente la “whanstimmung” uno stato d’animo, un’atmosfera delirante in cui ci può essere l’ assenza di un contenuto definito insieme con un terrore insostenibile: quest’ultimo da solo può indurre un omicidio-suicidio, anche se mascherato da motivazioni razionali, come forse è avvenuto nel caso dello psichiatra slovacco riferito da Paul Roazen. Quello di Tausk nel 1919 non fu un caso isolato nella psicoanalisi della prima generazione : seguirono la stessa sorte gli analisti Stekel, Kahane, Federn, Silberer, Honegger, Schotter, Ruth Brunswik che analizzò “L’uomo dei lupi” e successivamente, nel 1990, Bruno Bettheleim. Di famosi psichiatri coinvolti nel suicidio i casi che conosco sono quelli del figlio maggiore di Ludwig Binswanger nel 1928, e quello di de Clérambault nel 1934. Sembra che quest’ultimo si sia ucciso perché gli era stato diagnosticato un glaucoma! E’ evidente che la morte per suicidio (come è avvenuto a Siena) di uno psichiatra che si toglie la vita con gli psicofarmaci che dovrebbero essere uno strumento “terapeutico” mette in discussione i criteri della sua formazione e pone quesiti non eludibili a chi ne ha legittimato la prassi medica senza intuirne l’inadeguatezza dovuta alla malattia. Che impatto avrà, in questo caso la morte del “terapeuta” sui suoi pazienti”? Chi risponderà del danno subito? Contemporaneamente ci si dovrebbe interrogare anche sul fallimento di una psichiatria che ricorre prevalentemente al DSM5 e agli psicofarmaci il cui uso prolungato e massivo ha spesso il solo effetto di cronicizzare il malato o renderlo in seguito difficilmente trattabile con la psicoterapia. Sono a conoscenza del fatto che alcuni psichiatri sostengono a spada tratta la psicofarmacologia perché essi stessi fanno uso continuativo di antipsicotici, mettendo in atto un vero e proprio suicidio dal punto di vista mentale ed inducendo inevitabilmente e più o meno coscientemente nei loro pazienti comportamenti autodistruttivi .Senza andare sulla casistica personale segnalo il caso di una collega
considerata una delle più grandi esperte di depressione (bisognerebbe discutere da chi) che è andata soggetta per decenni ad episodi di depressione psicotica (solo depressione?) e che sostiene che si debba fare uso di psicofarmaci per tutta la vita, secondo una prassi che lei stessa ha seguito. Si tratta di Kay Jamison che ha scritto “Una mente inquieta” (Longanesi-1996) libro che in Italia è apparso, non casualmente in una collana diretta Giovanni B. Cassano. Lo stesso Cassano nel 2000 profetizzava che il futuro della psichiatria sarebbe stato affidato ad interventi in utero per correggere le anomalie genetiche responsabili, secondo una sua personale concezione della genetica, dei “disturbi mentali”. Racconta la psichiatra americana :<< Le mie allucinazioni si focalizzavano sulla morte lenta e dolorosa delle piante verdi (…) Le loro grida erano cacofoniche (…) Ad un certo punto decisi che la mia mente con la quale mi guadagnavo da vivere e della quale avevo per tanti anni data per scontata la stabilità, non avesse smesso di correre e ripreso a funzionare normalmente mi sarei uccisa saltando dal dodicesimo piano di un edificio>> La Jamison è andata incontro, durante la sua malattia, a svariati momenti di furia e violenza “maniacale” (?) oltre a non solo aver pensato ma ad aver messo in atto tentativi di suicidio uno dei quali, quasi riuscito, con una dose esorbitante di Litio. Di questi problemi,relativi alle condizioni mentali degli operatori psichiatrici, certamente scomodi, sembra che nessuno abbia la voglia od il coraggio di parlare.
Orribile, dunque ho ragione io a dire che non bisogna prendere gli psicofarmaci perché hanno una lama a doppio taglio.