Per la cura nell’ambito della psichiatria, rimane centrale il rapporto transfert controtransfert.
La cosiddetta terapia integrata, che prevede la psicoterapia e gli psicofarmaci, in realtà comporta comunque una dissociazione nella mente del paziente. Quest’ultima rimane silente fintantoché non si affrontano situazioni di cambiamento radicale, di trasformazione se non di creazione di qualcosa di assolutamente nuovo. E’ in queste circostanze che subentra la crisi e quella che appare una gestione pratica e razionale della malattia rivela il suo limite e la sua incongruenza. Spesso sono i pazienti stessi che scelgono di sottoporsi al trattamento farmacologico o sono consigliati da familiari “premurosi”. Personalmente non mi oppongo a queste scelte in modo autoritario ma cerco di interpretarle per quelle che sono: resistenze al trattamento psicoterapico.
In questo contesto vanno annoverati i tentativi maldestri di dismissione degli psicofarmaci una volta che lo psichiatra organicista li abbia prescritti: il tutto si risolve in un tentativo di coinvolgere lo psicoterapeuta in uno scontro “ideologico” con un collega che agisce in base a concezioni diverse dalla sua ma perfettamente legittime sul piano medico-legale . Esiste infatti il consenso del paziente che volontariamente ha accettato la somministrazione di psicofarmaci e la diagnosi buona per tutte le stagioni, magari di “disturbo bipolare”. E’ chiaro che quella che va affrontata è la scissione fra mente e corpo, che è tipica di una mentalità religiosa più o meno mascherata. Il paziente deve comprendere che la coerenza comportamentale è un requisito essenziale per la riuscita della cura: essa non deve risultare da un “obbedienza” ad una concezione teorica ma da una comprensione della propria realtà in cui lo psichico ed il biologico dovrebbero armonizzarsi ed “integrarsi”.
Interessante pur in un quadro di riferimento teorico molto lontano dal mio un intervento di Paolo Migone redattore della rivista “Psicoterpia e scienze umane”
http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/farm+psi.htm
27 Marzo 1999, Paolo Migone:
Il 25/03/99 Gennaro Esposito ha scritto: >premetto che non sono analista, ma gli analisti che ho conosciuto hanno >sempre affermato che dare i farmaci equivaleva a rompere il setting, o qualcosa del genere… >Personalmente sono d’accordo con te [Piero Porcelli], tutto dipende >dalla relazione e non dall’orientamento… giusto!
A mio parere la questione dei farmaci + psicoterapia è interessante solo perché rivela la cultura, la teoria psicoterapeutica, a monte di chi solleva il problema (per una trattazione più dettagliata di questo argomento, vedi il lavoro, che è anche su Internet, ”L’associazione tra psicoterapia e farmaci: perché discuterne ancora?”). Chi si chiede se e come è possibile combinare farmaci e psicoterapia già tradisce il fatto che, sempre a mio parere, utilizza una teoria che io definirei “antipsicoanalitica”. Il farmaco è un input nell’organismo che, come ogni altro input, ha ogni tipo di effetti, sia ”biologici” che “psicologici” (placebo, non placebo, ecc.). Dovremmo forse rifiutare di prendere in analisi un paziente che ha il brutto vizio di prendere un caffè al mattino? Il caffè è un farmaco con effetti specifici. Dovremmo interpretare quella stimolazione psichica da lui ricevuta dal caffè come dovuta al transfert? Solo al transfert? In parte al transfert e in parte al farmaco-caffè? Solo al caffè? Ma non sono questi i problemi quotidiani dello psicoanalista? E che dire della donna in tensione premestruale e quindi depressa e tesa? E’ influenzata (solo) dal transfert? Essendo affetta da una condizione “organica”, dovremmo allora interrompere subito l’analisi e inviarla ad un medico? E così via.. Subito si obietterà che certi input li fornisce l’analista e che quindi sono diversi da quelli forniti da altri (vedi la questione della “divisione del lavoro” tra analista e farmacologo: inviare il proprio paziente a uno psicofarmacologo per fare un lavoro “pulito”). Anche questo ragionamento a mio parere rivela la concezione “antipsicoanalitica” sottostante, che è sempre la stessa: non usare l’interpretazione, ritenere che l’interpretazione sia già data, già implicita nei dati da interpretare, sia cioè iscritta nel dato comportamentale, come appunto nella psicologia “comportamentistica”. E’ una psicologia di tutto rispetto, ma non è psiconanalitica, rientra in una sorta di “teoria delle etichette”. Perché mai l’effetto di un farmaco dato da un altro sarebbe, o non sarebbe, interpretabile (avrebbe un significato dato a priori?), o sarebbe necessariamente diverso dall’effetto dello stesso farmaco dato da me, senza contare che sono stato io a consigliare al paziente di rivolgersi a quello psicofarmacologo? Sicuramente sarà diverso, perché l’effetto placebo può essere diverso, a seconda di come viene somministrato (ma anche a seconda di chi invia al somministratore, del modo con cui avviene l’invio, e delle giustificazioni date per l’invio, ecc.). Perché uno o più di questi aspetti deve essere eliminato dal campo interpretativo? Perché non potrebbe essere arricchente anche analizzare gli effetti (placebo e non placebo, transferali e non, ecc.) di un farmaco dato da me? (così pure come analizzare la reazione ai farmaci dati da altri). E così via. Inviare il proprio paziente a uno psicofarmacologo per i farmaci secondo me sarebbe giustificato solo dal fatto che il terapeuta non può dare farmaci o si ritiene non abbastanza aggiornato. Vi è chi argomenta che fare tutte e due le cose insieme è “più difficile”: questo a prima vista sembrerebbe un ragionamento convincente, ma rivela solo la illusione che la “analisi normale” sia “facile”, “pulita”, tratta dati “psicologici puri” (vedi l’antico mito della “analisi classica”, dove si rispetterebbe il setting). Anche dietro a questa posizione vi è una concezione antipsicoanalitica: il dato psicologico (o somatico) non viene così scoperto o interpretato, ma è conosciuto a priori, tramite un pregiudizio, e l’analisi è solo una razionalizzazione delle idee preconcette dell’analista o della sua malcelata cultura behavioristica di appartenenza (o forse anche di una cultura filosofica basata sul dualismo corpo-mente). (perdonate le mie estremizzazioni, lo faccio per trasmettere meglio l’idea di quello che voglio dire). Per riassumere: non si capisce come mai il farmaco in quanto tale dovrebbe appartenere ad una categoria logica diversa da quella di qualunque altro intervento o evento sia dentro che fuori al setting (stringere la mano al paziente, tossire, ridere, essere depressi o felici, NON DARE UN FARMACO invece di darlo, avere una poltrona comoda o scomoda, avere il mal di testa per il fumo del sigaro dell’analista, o invece amare quel fumo, ecc.). Il fatto che una certa tradizione psicoanalitica abbia teorizzato nel modo sopra citato da Esposito non sorprende affatto, esistono molte ”tradizioni psicoanalitiche”, alcune opposte alle altre, ed è sempre meglio non seguire pedissequamente quello che dicono altri (magari ricorrendo all’uso della citazione), ma usare la propria testa, la propria logica, motivando fino in fondo i ragionamenti che stanno dietro alla teoria della tecnica
Il trattamento antipsicotico con neurolettici classici: l’esperienza del paziente. di David Titelman
http://www.psychiatryonline.it/node/2170
Ricerche future e considerazioni conclusive
Il ruolo dell’autodistruttività e dell’aggressività nelle psicosi, non ultima l’incapacità del paziente di trattare la propria rabbia, e le reazioni transferali che tali tendenze inducono nel curante, meritano continua attenzione nella situazione clinica e anche nella ricerca futura. Un’estensione del presente studio potrebbe essere uno sguardo su ciò che il trattamento con neurolettici significa per lo psichiatra.
Un’altro aspetto da considerare in futuro riguarda l’esperienza soggettiva del paziente dei nuovi neurolettici atipici. Ogni promessa di una cura della psicosi e della schizofrenia è accolta con grandi aspettative nella comunità psichiatrica come nella società intera. Come già accadde nel caso dei neurolettici classici c’è ora un continuo flusso di rapporti sui benefici effetti dei neurolettici atipici, compresa una diminuita incidenza del suicidio tra i pazienti schizofrenici (Meltzer e Ghadeer, 1995). Eppure rimane il rischio che i fattori emotivi forviino la pratica psichiatrica. Transfert e controtransfert difficili da contenere sono fattori potenti che influenzano chiunque interagisca con pazienti psichiatrici gravi. C’è anche il rischio di esagerazioni motivate da interessi commerciali, relative all’efficacia di nuovi tipi di terapie antipsicotiche, farmacologiche e non.
La distruttività della psicosi è una tale forma di inferno sulla terra che chiama la necessità di una mente aperta verso nuovi trattamenti antipsicotici. D’altronde un solido scetticismo a riguardo delle innovazioni deve ricordare quanto è clinicamente noto, e anche quanto emerge da questo studio. Alla persona psicotica, che è “niente”, o che è come in pezzi, e che tenta invano di restaurare il suo Sè cercando di essere qualcosa di fantastico, per esempio Dio o Gesù, l’identità di paziente o lo “stato neurolettico della mente” possono esercitare un richiamo irresistibile per ragioni intrinseche, ma sono anche distruttivi e indegni.