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Povero Gramsci in Forum della salute mentale 28/12/2013 ovvero quando la polemica fa straparlare Piero Cipriano

Una nuova geniale  interpretazione della teoria

della

nascita!!!

Massimo Fagioli sarebbe un neolombrosiano

 

Franco Basaglia nel 1979, l’anno successivo all’approvazione della legge 180, la legge più libertaria al mondo in tema di assistenza al malato mentale, nelle conferenze che tenne in Brasile, tra le molte cose (ancora di straordinaria attualità), disse, citando Antonio Gramsci: “La nostra scienza parte da un dato fondamentale, che è la sconfitta del tecnico tradizionale, cioè di quel tecnico che pensa che non si può fare altro che questo, perché ha come ideologia il pessimismo della ragione. Il nuovo tecnico, invece, deve portare avanti il suo lavoro con l’ottimismo della pratica”. E anche: “Noi, psichiatri democratici, pur avendo stimolato la nuova legge, siamo una minoranza, ma, come direbbe Antonio Gramsci, siamo una minoranza egemonica … ma naturalmente dobbiamo essere molto vigili perché questa minoranza, una volta catturata, può diventare la nuova maggioranza riciclata”. Basterebbe ciò per eleggere Franco Basaglia a psichiatra gramsciano. Tuttavia, sul quotidiano fondato proprio da Gramsci, lo stesso quotidiano che Francesco Guccini, in Eskimo, celebrava con queste parole: “…alcuni audaci in tasca L’Unità…”, trovo uno strano articolo, davvero strano, che vuol essere una risposta al libro di Pier Aldo RovattiRestituire la soggettività, ma che soprattutto si propone di demolire la figura di Franco Basaglia.

Lo strano articolo sostiene che Rovatti, nel suo libro, si lagna del fatto che “nella stessa Trieste la maggior parte degli studenti non sa nulla” di Basaglia. Il tono denigratorio è evidente. Come dire, vedete, nessuno sa più niente. Questa storia è bella e dimenticata. Rovatti, invece, sta proprio denunciando la colpevole dimenticanza delle accademie che non si curano di restituire  conoscenze minime su un passaggio cruciale della nostra storia. E proprio per questo nei suoi corsi cerca di stimolare un pensiero critico tra studenti che mai sono esposti a queste evidenze storiche, e per questo parla di Basaglia, di Foucault, di Sartre, di soggettività, delle parole della psichiatria. Sempre lo strano articolo sostiene, ancora, che Basaglia “viene ricordato nella storia per ciò che non ha fatto, cioè la legge 180, a cui non ha dato alcun contributo personale”. Ma questa non è certo una novità, dico io, perché lo sanno tutti, tutto il mondo è a conoscenza che il vero riformatore della psichiatria italiana non è stato l’ormai obliato Franco Basaglia, ma è invece questo psichiatra in straordinaria ascesa che risponde al nome di Massimo Fagioli. Lui sì psichiatra vero. Non Basaglia. Perché, sostiene lo strano articolo, “non è psichiatria il nesso tra libertà e malattia mentale, non è psichiatria dire che la follia è una condizione esistenziale”. Ai tempi di Basaglia, aggiunge ancora, non c’era alcuna “teoria della mente sana e patologica”, per fortuna, invece, “oggi si è cominciato a costruire una nuova psichiatria, che ha preso le mosse” (ma tu guarda un po’ che combinazione, meno male che con questo articolo ne siamo venuti a conoscenza, se no capace che non se ne accorgeva nessuno) “da un percorso iniziato da Massimo Fagioli nell’ospedale psichiatrico di Padova, accanto a Basaglia” (accanto a Basaglia!?), “con il rifiuto del manicomio lager e la ribellione alla psichiatria ufficiale”. Invece, prosegue lo strano articolo nella sua spericolata impresa, al limite della fantastoria, di fare di Fagioli un Basaglia e di Basaglia un Fagioli (ovvero del nano un gigante e del gigante un nano), “la prassi di Basaglia non ha prodotto nessuna teoria né ricerca”. Questo il succo dello strano articolo, e io ne volevo fare un commento pedissequo ma sono stufo e irritato da tanta insulsaggine, e interrompo qui il virgolettato. E’ giusto per darvi un’idea. Più che dell’ignoranza che dall’articolo trasuda, sono irritato del fatto che questo scritto abbia trovato spazio sul quotidiano che ancora ci ricorda di essere stato fondato da Antonio Gramsci. Ma poi, mi faccio due conti. Chi è che scrive questo strano articolo? Sarà di certo un seguace del più reazionario (ma per fortuna anche il più irrilevante) psichiatra italiano, colui che ritiene l’omosessualità una malattia, colui che ritiene (lombrosianamente) il folle intrinsecamente pericoloso, colui che ritiene il manicomio criminale un’esigenza imprescindibile. In questo in compagnia di Vittorino Andreoli, un altro grande, sotto questo profilo. Insomma, uno dei tanti tecnici tradizionali animati dal pessimismo della loro ragione, un neolombrosiano travestito da psicanalista sinistrorso, e ciò è coerente, perché pure il Lombroso era un socialista, reazionario ma socialista. E allora è tutto chiaro, tutto ovvio, tutto torna. Follow the money, mi dico. Il Fagioli è irrilevante. La sua sconclusionata graforrea si può permettere di pubblicarla solo la sua personale casa editrice (L’asino d’oro), il suo diario trova ospitalità solo nel suo settimanale (Left), e adesso perfino sul quotidiano che era gramsciano ma ha cambiato padrone (e indovinate chi è il nuovo padrone?) trovano spazio, in nome del pluralismo, strani articoli che trasudano reazione e nostalgia del manicomio.

A questo punto ripenso all’ingiustizia di una morte precoce, a soli cinquantasei anni, di un gigante come Franco Basaglia, e penso che sono passati trentatre anni dalla sua morte, e che se fosse vissuto qualche decennio in più avrebbe potuto o saputo cambiarla ancora questa psichiatria, lui che è stato il primo psichiatra al mondo, due secoli dopo la sua invenzione, a mettere fuori legge l’istituzione manicomiale. La legge 180 non è merito di Basaglia? Bah! Quest’affermazione è così originale che non credo meriti neppure una risposta. Io penso invece che Basagliaè biologicamente morto e Fagioli biologicamente vivo, e su questo almeno siamo tutti d’accordo, però se guardate bene vi accorgerete che Basaglia, in realtà, non è mai morto, e Fagioli non è mai stato vivo, perché è irrilevante, chiedete in Italia o nel resto del mondo chi è l’uno e chi è l’altro. Provate voi a mettere uno di fianco all’altro il pensiero, la prassi, e la ricaduta di questi due psichiatri sulla cultura e sull’assistenza del malato mentale, in Italia e nel mondo, e ditemi chi dei due è il gigante e chi il nano, chi dei due è Gulliver e chi un lillipuziano. Oppure provate a leggere un testo a caso dell’uno e dell’altro, e dopo averlo fatto giudicate voi a chi appartiene un pensiero lungo e a chi un pensiero miope e astruso. Ma poi, da psichiatra, ecco che arrivo a interpretare e comprendere il patetico tentativo che ogni tanto lo psicanalista neolombrosiano cerca di attuare: è il malinconico tentativo di un pianeta morto, lontano dal Sole, Plutone, per dire, o meglio, di un satellite di Plutone, freddo e sterile e arido, ai confini del sistema solare, che cerca di avvicinarsi al Sole per scaldarsi, per illuminarsi di un raggio di luce riflessa. E allora, dopo aver compreso ciò, divento più magnanimo e indulgente con Fagioli e i suoi sostenitori, per cui auguro loro buone feste e di continuare a giocare all’interpretazione dei sogni nella loro mesmerica assemblea collettiva, ma consiglio loro di lasciar perdere il tema della salute mentale, che quello è un argomento serio, troppo serio per affrontarlo con lo strumentario del pensiero lombrosiano.

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Psichiatria

Le voci nella testa- Una guarigione dalla schizofrenia?

longden

Schermata 09-2456553 alle 12.35.10Sotto tutti gli aspetti  , Eleanor Longden era proprio come ogni altro studente , frequentava il college piena di speranze  e senza un pensiero al mondo . Questo fino a quando le voci nella sua testa hanno  iniziato a parlare . Inizialmente innocue , queste narrazioni  interne divennero sempre più antagonistiche   e dittatoriali , trasformando la sua vita in un incubo . Con la diagnosi di schizofrenia , ospedalizzata , “drogata” , Longden è stato scartata da un sistema che non sapeva come aiutarla . Longden racconta la storia in movimento del suo anni -,  un lungo viaggio di ritorno verso  la salute mentale , e riferisce di come  impararando  ad ascoltare le sue voci sia  stata i  in grado di sopravvivere .

Eleanor Longden  ha messo alle spalle  la diagnosi   di schizofrenia ottenendo  un master in psicologia e dimostrando  che le voci nella sua testa erano ” una reazione sana a circostanze folli”

WATCH: Why I Thank the Voices in My Head

di Eleonor Longden

Pochi mesi fa , un mio collega brandiva un articolo di fronte a me con un’espressione piuttosto perplessa . “Leggi questo ! ” egli disse: ” Non l’avrei mai creduto. ” Era un pezzo che si riferiva ad un uomo che sente delle voci . Incuriosita , ho cominciato a leggere :

“La voce è identificata come Ruah … la parola del Vecchio Testamento per Spirito di Dio. . Parla con una voce femminile e tende ad esprimere ldichiarazioni riguardanti un ‘attesa messianica . E mi ha parlato sporadicamente da quando ero al liceo . Mi aspetto che se la crisi  verrà essa dirà qualcosa di nuovo. ‘molto essenziale  … si limita a un paio di frasi  molto succinte e concise. Devo essere molto ricettivo di sentirle: suonano  come se fosse venute da milioni di chilometri di distanza . ”

La ragione per la sorpresa del mio collega non era tanto il contenuto ( lui è uno psicologo ed è ben abituato a racconti da persone che ascoltano cose che nessun altro può udire ). Piuttosto, era l’ incontro con questo ” spirito tutelare ” che lo sorprese. Perché non si trattava del racconto  un paziente psichiatrico angosciato e  disorientato: erano le parole del premiato, visionario autore Philip K. Dick  le cui opere , tra gli altri , hanno  ispirato il film Blade Runner e Total Recall . Per me , questo non è stato particolarmente sorprendente , perché non dovrebbe capitare  a qualcuno realizzato  e di  grande fama anche capita di essere l’ascoltatore  di  una voce? Ma al mio collega  questa evenienza sembrava presentare una sconcertante , quasi inquietante , dissonanza . E , in una certa misura , posso comprendere  la sua sorpresa . Dopo tutto , l’allucinazione auditiva è  strettamente intrecciata con la schizofrenia ( con tutte le connotazioni sinistre che questa diagnosi controversa comporta ) . E nell’immaginario popolare , le voci sono comunemente collegate con  lo sconvolgimento , la follia , e la alienazione  mentale .  Oggi molti individui soggetti ad allucinazioni  abitano in un territorio territorio ostile – è un’esperienza che viene letteralmente associata alla  paura ,  al sospetto e  alla diffidenza .

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Nel corso degli anni , le mie voci sono cambiate , moltiplicate , mi hanno  terrorizzata , ispirata e incoraggiata . Oggi sono una parte intrinseca , importante della mia identità , ma c’èstato anche un  momento in cui la loro presenza mi ha spinto agli estremi deliranti di miseria , la disperazione, e la disperazione .

– Eleanor Longden

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Eppure, nonostante questo nesso fra allucinazioni e pazzia  , la psichiatria ha da tempo riconosciuto che il sentire  sentire voci si riscontra  di una serie di  patologie psichiatriche non- psicotiche, in particolare in  condizioni come  lo stress post- traumatico ed i  disturbi dissociativi . Forse ancora più inaspettatamente , la ricerca suggerisce anche che circa il 13 per cento delle persone con storia  di problemi psichiatrici può anche riferire di aver  udito “voci”ad un certo punto della loro vita . Di per se stesso  “l’udire voci”è un tema che ha attratto l’attenzione –  perchè evoca le sfumature della percezione mentre riflette  la natura del sé – ed è stato via via  stato temuto , vilipeso , celebrato e consacrato , e  scrutato, anche per le sue implicazioni  forensi,  all’interno di specialità diverse come la psicologia , la neurologia, l’antropologia ,  la teologia , discipline medico-umanistiche  e studi culturali. Inoltre , i racconti di “voci” sono stati documentati nel corso della storia umana essendo stati riferiti  da una vasta gamma di pionieri , geni , ribelli, e innovatori attraverso i secoli – e anche da gente normale, ineccepibile come me . Vedete ,  anch’io io sono una  ascoltatrice  di voce .

E ‘stata la delirante profondità del mio delirio ed il benefico ed esaltante viaggio  connesso all’udire  “la voce” che mi ha condotto a  Long Beach nel palco delle conferenze  per  il TED 2013. Nel corso degli anni , le mie voci sono cambiate , si sono moltiplicate  ,  e mi hanno terrorizzato , ispirato e incoraggiato . Oggi sono una intrinseca , importante  parte della mia identità , ma c’era anche un momento in cui la loro presenza mi ha spinto agli estremi deliranti della  miseria , della disperazione,.  Le voci  mi hanno portato in un reparto psichiatrico dove mi sono ritrovata inerme  e mi ha tirato giù nelle profondità più buie della follia , eppure mi hanno anche sollevarmi  per aiutarmi a passare gli esami universitari In definitiva mi  sono elevata fino al punto di  scoprire le verità fondamentali e la guarigione di me stesso . L’evoluzione di questa comprensione – ed i notevoli privilegi e le prove  terribili sostenute – costituiscono la base del mio discorso che accompagna il libro presentato per il ciclo di conferenze  della  -TED-2013  , dal titolo “Imparando dalle voci nella mia testa”.

Condividere le mie esperienze pubblicamente l’ho sentita come un esperienza  travolgente , ma ad ogni passo la solidarietà di amici e colleghi del ” Movimento Internazionale  di coloro che odono le voci” mi ha fortificato e sostenuta . Questa organizzazione ha fatto enormi passi avanti per sostenere che  l’udire le voci  è  una esperienza umana significativa, quella che, per molti di noi , incarna, metafore ed immagini dense di  emotivà  che comunicano informazioni interessanti sul dolore ed i conflitti nella nostra vita . Non si tratta di patologizzante  le voci come sintomi , ma piuttosto si tratta di capire , accettare , e recuperarne il senso  . Nel mio pellegrinaggio di  recupero, ho  imparando a considerare  le voci in modi più rispettosi , ed empatici  considerandole come adattamenti , strategie di sopravvivenza , e rappresentazioni del  dolore emotivo che ha reso possibile la mia guarigione . Dopo anni di vergogna , orrore , e la sofferenza , ho finalmente fatto pace con le mie voci che , fondamentalmente , significava fare la pace con me stessa . Ed era questa mia situazione che mi ha reso capace i  potenziato me prendere  parte allae conferenze TED , non come un ex paziente – psichiatrica con un ‘cattivo cervello, ‘ ma come una sopravvissuta orgogliosa  alla pazzia  con un repertorio  di voci preziose  e  piene di significato di valore. Infatti, alla fine del mio discorso June Cohen , una delle meravigliose co-organizzatrice della conferenza , è venuto sul palco e mi ha chiesto , con un rispettoso interesse , se sento ancora voci. Per una frazione di secondo ho esitato , chiedendosi se dovevo fingermi  ‘normale’ e suonare il basso con un arioso ” oh, non più di tanto ora . ” Invece ho optato per la verità: ” Per tutto il tempo “, dissi allegramente , “In realtà le  ho sentite mentre ho fatto il discorso … loro mi ricordavano che cosa dire ! ” Orgoglio , responsabilizzazione  e il sostegno  per ascoltare le proprie voci senza difficoltà dovrebbero , credo, essere  un diritto naturale di ognuno che ha questa esperienza  . Così anche , il diritto alla libertà , la dignità,  ed il rispetto riguarda  anche “una voce” che può essere ascoltata .

Trad. domenico fargnoli

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Psichiatria

Orgogliosi di essere pazzi

20130623-000624.jpg UnknownOrgogliosi di essere pazzi di Domenico Fargnoli Mad Pride: a Torino hanno sfilato , a metà giugno, il giorno dopo il Gay Pride i “matti” in un corteo aperto dalla sagoma di Marco Cavallo, il simbolo della “liberazione ” basagliana. Il Mad Pride è stato un calendario di eventi fra cui una rassegna teatrale con ”artisti psichiatrici”.La finalità è stata quella di creare uno scambio fra due realtà (quella dei “normali” e quella dei “folli”) per rivendicare la libertà di vivere il disagio mentale “senza essere emarginati, sedati o rinchiusi”. Obiettivi, con le dovute precisazioni, condivisibili: è giusta la lotta contro la segregazione, l’emarginazione e la stigmatizzazione del malato di mente, contro la sopravvalutazione , ma anche la negazione della sua pericolosità. La volontà di incontro non sempre è capacità di viverlo: dove si trova la “follia”? In quanto realtà mentale quest’ultima non è in uno spazio esterno individuabile. La pazzia è molto più presente negli interstizi della normalità che nelle istituzioni psichiatriche. E’ fuorviante ritenere che la liberazione dalla malattia mentale si limiti alla circolazione di malati etichettati come tali nei viali di una città invece di segregarli in un un manicomio . L’espressione Mad pride inoltre , coniata a calco su Gay pride crea problemi su entrambi i fronti. Gli omosessuali o trasgenders rifiutano infatti la diagnosi per cui non si capisce perchè dovrebbero essere accostati ai malati. I “matti” che si vogliono sentire liberi di esserlo si credono nati in un certo modo, analogamente agli omosessuali , e nessuno potrebbe pretendere di modificare una condizione rivendicata con orgoglio: l’unica cura sarebbe la libertà di essere come si è. Si stabiliscono così equivalenze e si confondono pericolosamente realtà che solo apparentemente sono sovrapponibili. L’idea dell’incontro fra normalità e pazzia non è una novità ma risale alla controcultura degli anni 60-70 del secolo scorso . Recentemente è uscito un romanzo Rehab blues di Adrian Laing quinto figlio, di dieci avuti da quattro donne, di Ronald Laing, famoso “antipsichiatra” Inglese. Il libro è una ricostruzione letteraria di ciò che avveniva nei networks della Philadelphia Association fondata a Londra da Laing e Cooper: persone normali fra cui psichiatri, convivevano in comunità residenziali , con altre affette da patologie mentali anche gravi senza preoccupazioni di ruoli e di gerarchie. In un’ intervista a La stampa Adrian Laing parla del rapporto fra Franco Basaglia ed il padre non particolarmente caloroso, nonostante i punti di contatto.images Come si evince anche dalla biografia che Adrian Laing pubblicò nel 1994 l’esperienza di Kinsdley Hall, la più famosa delle households frequentata dal padre fu un vero disastro. Laing più che la pazzia altrui aveva incontrato la propria: il fallimento del traning analitico alla Tavistock aveva accentuato la sua instabilità psichica e favorito l’abuso di alcool e di tutti i tipi di droghe fra cui l’LSD sperimentato in modo intensivo su se stesso e sui pazienti. Basaglia con la moglie dedicò un libro a “Ronnie”: La maggioranza deviante (1971). Nel titolo veniva riassunto un principio dell’antipsichiatria. Secondo una metafora, suggerita da Laing, se uno stormo di uccelli vola in una direzione e due o tre uccelli volano in senso opposto , solo questi ultimi vanno nel senso giusto : i veri de-vianti sono gli altri. David Cooper intervistato dai Basaglia dice: <<(…)La finalità [dei networks alternativi]consiste nel trovare il modo di integrare la pazzia nella società.(…) se qualcuno “impazzisce” può farlo con sicurezza, senza interferenze psichiatriche>> L’Antipsichiatria basagliana non condivise gli eccessi e le utopie comunitarie di quella inglese ma sviluppò anch’essa una opposizione radicale alla psichiatria come pratica e teoria clinico-scientifica senza intraprendere una ricerca propria ed alternativa. La malattia rimaneva un quid residuale e misterioso dopo l’abbandono delle categorie classiche della schizofrenia e delle psicopatie ritenute astrazioni finalizzate a stigmatizare e difendere la norma sociale. Coerentemente con la sua ideologia religioso-libertaria Laing rompe i ponti con la psichiatria. Dopo la chiusura traumatica di Kindsley Hall nel 1970, Laing ebbe un episodio mistico-autistico da cui non si riprenderà : si recò in India mel 1971. In quello stesso anno Massimo Fagioli scrisse Istinto di Morte e conoscenza, edito l’anno dopo, elaborando una nuova teoria sulla realtà umana che renderà possibile, attraverso una prassi terapeutica collettiva che dura ininterrotta da quasi quarant’anni, la cura della malattia mentale ed il superamento delle tradizionali concezioni psicopatologiche. Laing visse per sei mesi in meditazione con un vecchio saggio che , nudo , si avvogeva nella sua lunghissima capigliatura per riscaldarsi. Lì nacque l’immagine del “guru” immortalata dalla rivista Life che lo ritrasse in una posizione yoga, lì inizia il declino di un personaggio carismatico minato da un subdolo deterioramento mentale. Niente più successi editoriali ma solo citazioni di se stesso e debiti :l’alcool e le droghe intaccavano la salute fisica mentre “Ronnie” portava a fondo la distruzione dell’identità medica e psichiatrica. Proprio colui che aveva sostenuto che la famiglia è alla base della patologia mentale aveva reso le sue un inferno.Uno dei suoi figli morì probabilmente suicida mentre una figlia ebbe un episodio schizofrenico . Due anni prima della morte improvvisa per infarto a sessantadue anni, l’Ordine dei Medici Inglese sospese Laing dall’esercizio della professione per violazioni deontologiche.laBaR_T030 La malattia mentale, di cui alcuni sarebbero orgogliosi. non solo esiste ma ti segue perfino fuori dai manicomi uccidendo subdolamente se non adeguatamente affrontatae e curata . Anche David Cooper morirà a soli 54 anni alcoolizzato. Gli organizzatori del Mad Pride dovrebbero non ripetere passate esperienze e comprendere che ci sono “cattivi maestri” che sulla via dell’incontro con la follia è molto pericoloso seguire.

Interessante testimonianza di un paziente di David Cooper che ci fa comprendere il clima degli anni 60-70 e descrive un modo molto singolare di esercitare la psicoterapia fra camere da letto, bevute e racconti di performances sessuali. In-treatments a confronto è una bazzecola.COOPER2

Far out

It was the 60s and acid was king. It was hip to be mad and cool to be crazy, and twice a week, for four years, David Gale spent an hour with an eminent psychiatrist, trying to get his head around his own personal terrors. Only the shrink was on a trip of his own…

I had a 10 o’clock appointment with my psychotherapist at Primrose Hill. When I got there, he was naked in the kitchen. He was dandling a naked baby and telling me that he had been up all night fucking a South American woman. The baby belonged to Roy, one of Cooper’s patients. Roy and Cooper would go out in Roy’s VW camper van and pick up chicks and fuck them. Roy’s wife had a leg brace from poliomyelitis. But the South American woman was not a pick-up, she was the girlfriend of another patient of Cooper’s. This guy had jumped under a tube train two days ago. His father had been a butcher. Cooper said the guy had grown up watching meat being chopped and fantasised that his father was chopping him up. Apparently the train had cut him very neatly in two. Cooper said that in the moment of his death, the guy had achieved something he had been craving all his life: to be treated with respect by his father.I wasn’t sure whether my session had begun. For a start, we weren’t in the right room, but then formalities of this sort had been observed only sporadically in the past few months. I thought what I ought to think was that all this wildness was good for me. I was reluctant to admit that, in fact, I simply felt uncomfortable.That was 1970. Throughout the year, the eminent psychiatrist David Cooper had also been engaged on an entirely coherent project, one that would challenge the very basis of civilisation. The publication of his book The Death Of The Family in 1971 would confirm that, despite the author’s apparent waywardness, a powerful and visionary mind had been at work, on a profoundly unsettling text. The book, published by Penguin, was both lucid and elliptical, containing a coruscating attack on a hallowed institution.As the book’s title suggests, Cooper felt that the family was over. He described it as “that system which obscurely filters out most of our experience and then deprives our acts of any genuine spontaneity”. It was a merciless space in which its victims were petrified, dehumanised and systematically stripped of their critical faculties. Far from maintaining the sanity of its members, the family drove them mad. “The family,” asserted Cooper, “since it cannot bear doubt about itself and its capacity to engender ‘mental health’ and ‘correct attitudes’, destroys doubt as a possibility in each of its members.” What the family teaches, Cooper declared, is that “one is not enough to exist in the world on one’s own”. This leads to a passivity that submits to invasion. The invaders are, of course, members of the family. If one reacts to this too noticeably, perhaps by becoming paranoid, one of the family’s most insidious protectors will intercede to defend the family against the autonomy of its members. Its name is psychiatry.Cooper and his colleague, Ronald Laing, were the champions of anti-psychiatry. In the widely read books that they produced in the 60s and 70s, they not only laid waste to complacent notions about the nature of madness and badness but articulated an impulse that lay beneath the dope and love beads of the era’s stereotype. The anti-psychiatrists saw that some of the participants in the decade of love and revolution were caught up in a determined attempt to deconstitute reality. At a personal level, this entailed finding out just how mad you could sanely be. The anti-psychiatrists offered a context and an itinerary.On the last page of The Death Of The Family is a passage I find rather engaging. “There was once a young man who until the age of nine had longed for his father to chastise him. One day, at long last, his father actually raised his hand with the intention of hitting his son’s backside. As he did this, the father landed a backsider on the face of his voyeuristic wife.” Cooper gets the details wrong – I was 11, not nine, and it wasn’t my backside my dad was aiming at, it was my head. We were sitting at the breakfast table. As he drew his hand back, my father inadvertently slapped my mother in the teeth and she cried, “Ernest! Don’t you dare hit him so hard!” He lowered his hand. I think my version – the authentic version – is better.My father was a biochemist at Cambridge. On Sunday evenings when I was a little boy, he would take me to his laboratory to watch him “sow the bugs”, that is, smear bacteria on to a nutrient gel so that they would grow overnight into colonies large enough to experiment with on Monday mornings. My father was, and continues to be, a gentle man. He never hit me, despite snapping just that once back in the 50s. By the time I reached my teens, however, I had decided that his world of precise measurement and endlessly repeated experiments was the pits. It would be another 20 years before I realised he had dedicated his career to a quest for the Secret Of Life. As a teenager, however, I convinced myself that I must cut my ties with this suffocating life and head off in the direction suggested by Elvis and later confirmed by Jack Kerouac.The 60s began in 1962, when I was 18. By 1963, I was having trouble with the new freedoms. Suddenly you could do anything you wanted. I took this as a fiat: you should want to do Anything. At times this felt quite onerous. My friends and I had recently become members of the Beat Generation. Sure, we were white, middle-class boys living at home with our parents, but there was every possibility we might become White Negroes. These were figures conjured by Norman Mailer, whom we had seen talking on black-and-white television. White Negroes, Mailer had said, were a new phenomenon, American existentialists who had divorced themselves from society “to set out on that uncharted journey into the rebellious imperatives of the self”. The white bohemians had found jazz in certain quarters of certain cities and there they had come face to face with “the Negro”. In this bebop moment, “the hipster became a fact in American life”. Far out.Crucial to the maturation of the emerging beatnik was the regular inhalation of pot. I should say that, in those days, the word “pot” was very cool, like “digital”. That it now sounds like something your uncle would say is because we are uncles now. In addition to unlocking the synaesthesia of the inner cinema, the cannabinoids bestowed the gift of Transparency. This was really quite something. With Transparency, you could think about your life, or the society in which you lived, or the values you had absorbed, and you could see right through them. Some years later, it would become appropriate to say this was a form of deconstruction, but that hadn’t been invented yet. There was a difference, however: you didn’t have to be clever to deconstruct in this manner, you just had to be stoned. Truths were made apparent, they were not worked out.So I saw through it all. Saw it for the charade it was. Saw its falseness. Unfortunately, I also saw through myself. My falseness. In the summer of 1963, I holidayed with some fellow beatniks in Ibiza, where bulk purchase of pot was a routine affair. This was when the inner and the outer first became confused. Every night we would roll big spliffs without tobacco and laugh for hours with fuzzy, bloodshot eyes. My girlfriend, Maureen, was with me. I realised I could hear a sort of dull whine. I glanced across the room at where my mother was sitting. But my mother wasn’t on holiday with us. You wouldn’t bring your mother. As I gazed at her, the flesh of her face flowed and reformed. It was Maureen. Crikey. To say the least. I’d read a Penguin on Freud, so I had a notion of what might be going on. That night in bed with Maureen, we had dynamite stoned sex and afterwards I lay for hours, enveloped in a streaming, twittering miasma of bright, fragmented faces, figures and cartoon creatures. Something had shifted. Back home, I carried on smoking. I noticed that my experience was becoming less social, more self-absorbed. My fellow angel-headed hipsters would be bellowing delightedly or bowing their heads to some sounds, but I would fall silent and uneasy. When I glanced at them and caught their eye, I would look away, lest they saw through my eyes into my mind, where 20 years of composure were starting to unravel. So unsettling did these paranoid episodes become that I decided to stop smoking pot. It might all have ended there, had it not been for the arrival of acid. In those days, doses were big. None of your namby-pamby little tabs for the 60s pioneers, thank you. It was 500 mikes and say goodbye to your backside. Within 20 minutes I was orbiting the sun, suffused with an elation that permeated every electric molecule of my being. I saw the centre, I extended to the outermost reaches of space, I was the hum of the dynamo. And this lasts for eight hours, I thought. Too much. With that thought, the thing turned over. I fell from Eden into the most hellish place I’ve been to in 57 years. The room disappeared. I saw my father’s disembodied head, it flowed into the face of a bulldog, blood oozed from its eyes, nose and mouth, it shuddered and became a vagina, my mother’s head emerged from it. I buried my face in the pillow. But this wasn’t a close-your-eyes thing. You couldn’t get away. Eyes open, eyes closed – no difference. I had lost the world. For eight or nine hours, I writhed in total hallucinated horror. I had lost the world. I had lost David. He was down on the bed somewhere and I was out in madness. There was a door marked “David” that I had closed behind me. The LSD might wear off, but I would not be able to find that door again. I would be out here for ever. Wherever I looked, there would be rippling horror and paralysing fear. For ever. You had to take acid. I took it eight more times and it was hellish. I took it because that’s what you did. You had to break through. Go mad, get out the other side, then really start living. I couldn’t seem to get there. I came to the conclusion I was full of terrifying things. There was another Penguin: The Divided Self by RD Laing. Everyone was reading it. Ronnie Laing said that madness arose in a maddening society. That it was a response to an impossible situation. It was not something to be avoided, it was an essential journey which the therapist must facilitate for the patient so that the patient could emerge whole and healthy on the far side. Madness, then, was a trip. When the book came out in 1965, it was the new rock’n’roll. Innumerable young people who were not mad suddenly wanted to be, it sounded so fascinating and ennobling. The new psychiatry would transform patients into revolutionaries and visionaries. So I wasn’t so fucked up. I had embarked on an important trip, but had lost my nerve before getting to the destination. I rang Laing and made an appointment. He came to the door of his Great Wimpole Street practice in jeans and a brown suede jacket. Jeans – that’s cool. We talked about my propensity for fear and horror, and Laing said he would refer me to his colleague, David Cooper. I said, “Does he use LSD?”, meaning, “Does he give it to his patients?” Laing said, “Yes, I’m pretty sure David Cooper has taken LSD.” Cooper was born in Cape Town in 1931. He studied medicine at Cape Town University, then left South Africa at the age of 24 and worked in a number of London hospitals. Before taking up private practice, he had presided over Villa 21, a radical treatment unit for schizophrenics, set in the grounds of a larger, mainstream psychiatric hospital. Both Laing and Cooper inclined to a Marxist social analysis. Laing had the more contemplative disposition, while Cooper was actively engaged in the revolutionary applications. Both sought to develop an existential therapy that would enable the patient to acquire an autonomy that did not depend upon the mad reason of the world. I went to see Cooper twice a week for four years. We started off in Harley Street in 1966. Unlike Laing, Cooper wore a suit. He was a tubby man with a shiny face and a warm, deep voice. His book, Psychiatry And Anti-psychiatry, introduced a key element of the anti-psychiatric position, that there should be no distinction made between doctor and patient. The patient could even treat the doctor and this would be therapeutically most salutary. Such a notion, given the nature of my own anxieties, struck me as rather academic. Besides, Cooper seemed reassuringly sane. For at least a year, my therapy went well. Cooper was kindly, jolly and wise. I began to learn about projection and to acquire perspective on my fears. Although I was aware of his revolutionary reputation, there were still times when his pronouncements surprised me. On one occasion, he told me a story that may have been designed to dissolve some of the awe that made me feel very much like a patient. As a young man, Cooper had met Jean-Paul Sartre in Paris. The great philosopher proved to be surprisingly approachable, with a marvellous knack of making his admirers feel respected and interesting. That night, Cooper told me, he dreamed that he fucked Sartre up the arse. As the 60s began to generate heat, I found myself running with a fast crowd. I had moved into a flat near the Royal College of Art, where I attended the film school. I shared the flat with some close friends from Cambridge, including Syd Barrett, who was busy becoming a rock star with Pink Floyd. A few hundred yards down the street, our preternaturally cool friend Nigel was running the hipster equivalent of an arty salon. Between our place and his, there passed the cream of London alternative society – poets, painters, film-makers, charlatans, activists, bores and self-styled visionaries. It was a good time for name-dropping: how could I forget the time at Nigel’s when I came across Allen Ginsberg asleep on a divan with a tiny white kitten on his bare chest? And wasn’t that Mick Jagger visible through the fumes? Look, there’s Nigel’s postcard from William Burroughs, who looks forward to meeting Nigel when next he visits London! As the decade took shape, Cooper abandoned his baggy suit and let his hair grow. As it moved in a Marxian manner towards his shoulders, he took to wearing a black polo-neck sweater and black corduroys. An unflinching rigour compels me to disclose that my therapist also sported a large gold medallion, worn outside his woolly. He left Harley Street and moved to a house off Caledonian Road. Ever benign and gentle in therapeutic sessions, Cooper started getting himself in the papers for his violent views. At the Dialectics of Liberation Conference, held in the Roundhouse in 1967, he declared that he yearned for the day when “the compassionate chatter of machine guns” might be heard in the streets of north London. This was duly recorded in the evening paper, but they missed the bit right at the end of his speech when he said, “If there is anyone here prepared to die for the Revolution, see me afterwards.” The consulting room in Caledonian Road was painted purple – the colour perceived by infants in utero. Cooper had placed a placard over the fireplace. It bore a quote by Raoul Vaneigem, an impressive situationist writer who had emerged in Paris in 1968: “He who speaks of revolution without living it in their daily life speaks with a corpse in his mouth.” So far, so good. I assumed that therapy had to be like this. These were revolutionary times, after all, and I was keen to keep abreast. I was proud of my therapist. Worlds were going to collapse and he was equipping me for life after death. But he disturbed me in ways that seemed to have no redeeming side. One day in the purple room, he came in, slumped in his armchair and told me he had just been making love to his partner, a feminist writer. “I live within her orgasms,” he intoned. “Hmm,” I said, nodding. Clearly he had told me something remarkable – you could live within someone’s orgasms. But, you know … Underlying my discomfort was a fundamental confusion that had come into focus as the 60s progressed: it was considered desirable to have a childlike openness to experience, while at the same time evincing a world-weary, omniscient cool. You’d think I might have been able to relinquish this double bind in an actual therapy session, but although my therapist’s frankness continued to upset me, I kept mum. So to speak. Cooper had been off sick and I’d missed some sessions. When we met again, he had moved to Primrose Hill and I learned what he’d really been up to. My therapist told me he had been sitting in his kitchen. The bell rings and a dark, beautiful woman asks if she can come in and drop acid with him. Soon they are making love on his bed overlooking the park. As the acid washes in, Cooper and the beautiful woman leave their bodies and assume astral forms, which are radiant and blue. The astral lovers hover above the bed, making divine congress. Then Cooper sees a tunnel – dark, abyssal, falling away before him. He drops down and down, picking up speed.He sees a pale blue disc hurtling towards him. Suddenly he finds himself in… nothing. Not an empty place, but a place of no place, a place beyond spatial ideas. He is suffused with feelings of love. In the distance he sees a low green hill against an azure sky. Standing on the hill is a young boy, his hands outstretched. Falling from the sky, into the boy’s hands, is manna. Cooper knows then that we are about to enter a new age. In this age, all institutions will transform into anti-institutions. The power of the state will be overturned as the powerful realise they are interchangeable with the powerless. An era of harshness will be supplanted. When he came back to his body, Cooper understood that this tearing, heavy world was going to dissolve and, in that knowing, was overcome with relief and sadness. He cried all day for five days. He told me this. What can you say? You’re supposed to be the patient, for God’s sake. Do you really want your shrink to be so fascinating? No, you don’t. You want him to be reserved, poised in an attentive reverie. You don’t want to know about his trips or his girlfriend’s orgasms. But isn’t that rather pusillanimous of you? I couldn’t tell. The next time I went to Primrose Hill was the night after Cooper had been fucking the dead patient’s girlfriend. He had done this, he said, because in her extremity, this was the language that would console her. He said to me, “Perhaps she’d like to sleep with you, David.” This was the sort of thing he said. As well as being naked in the kitchen at Primrose Hill, Cooper had his leg in plaster to the hip. This was because he had fallen down the stairs when pissed. We went next door to the consulting room: Cooper’s bedroom. Before the session began, he gave me a fiver, then fell on the bed. Would I go to the off-licence and buy him a bottle of whisky? When I got back, he opened the bottle and offered me some. In those days it was not cool to drink alcohol and I didn’t like whisky anyway, so I took half an inch in a plastic cup. Cooper grasped the bottle and upended it into his mouth. When he had finished, there were a couple of inches left. With difficulty, he rolled across the bed and put the arm of his Philips record player on a track of an album, What Have They Done To My Song, Ma? by Melanie. As she sang out in her tragic American Piaf style, Cooper started to weep. He wept loudly throughout the track and when it was finished, he played it again and wept again. He did this over and over while I sat and watched. After an hour, I decided the session must be over, so I said, “I’d better be going.” He did not seem to hear me. I told myself that my therapist wept because of the melancholy that attends enlightenment. To see the world in its blind, leaden pain had made him heavy-hearted. I’m sure if I’d asked him, he would have said that to be so heavy-hearted is to apply a dreadful stress to one’s heart. His heart attack came a few months later. The doctors told him to stop drinking and smoking and taking drugs if he wanted to live more than four months. They gave him drugs of their own, though, seven sorts. These made his hands tremble and purple blisters rise on the backs of his fingers. I was sitting on the divan talking about my problems. Cooper was smoking, holding a roll-up in his blistered hand. His head was bent in an attentive reverie. I thought I could smell smoke, but not tobacco smoke. “David?” He didn’t seem to hear. “David?” Smoke seemed to be rising from his chair. Surely he couldn’t be sleeping… Surely the chair… I jumped up. “David!” He groaned and raised his head groggily. “David – the chair’s on fire!” He mumbled and struggled to his feet. Smoke billowed from a small inferno in the chair’s horsehair stuffing. Cooper had dropped his roll-up. I dragged out a clot of glowing material, stamped on it, then doused the chair with water. It would be neat to finish there, to say that the patient had saved the analyst, thereby bringing a great circularity and symmetry to the anti-psychiatric process. But while writing this, I remembered that it was not my last session. It took one more to convince me that my analysis was doing more harm than good. I went to see Cooper in a flat in West Hampstead. He was lying on a bed staring emptily past me in a drunken trance. He seemed not to see me. As if I were transparent. I didn’t know what to say. Minutes passed as I looked at him and looked away. Then I said, “I must go.” Then I left and never went back. I said to myself, “It’s fucking me up more staying than going.” In the dedication page of The Death Of The Family, David Cooper wrote, “During the end of the writing of this book against the family, I went through a profound spiritual and bodily crisis that amounted to the death and rebirth experience that I speak of in these pages.” The crisis found its peak in his mystical LSD experience with the dark woman and seemed to endure until 1986 when he died of chronic alcoholism. It was so very hip to be mad in those days; a beatific craziness was to be worn like Tommy Hilfiger. This helped make the 60s exhilarating and revolutionary, while producing a credulous generation intoxicated by relativism. For many, this condition proved impossible to shake off and paved the way for the fog of New Age vagueness, energised by consumerism, that seems to be going global. The extraordinary energy released over 30 years ago has contributed to the state of affairs in which we now have magazines about feng shui and our avant gardists can be identified by the Nike swoosh tattooed on their calves. These days, madness is to be avoided at all costs – it is neither big nor clever. The energy invested in suppressing madness and chaos sometimes erupts, though. It can produce hysterical displays, such as the Dead Diana festival or the Portsmouth Paedophile rampage. David Cooper knew very well the price to be paid for such a denial and used his own being as a guinea pig for purgation. While the benefits of his wisdom seemed not to avail him personally, it is hard to forget one of his favourite maxims, frequently delivered with a wry chuckle: “If you’re going to go mad, then do it discreetly.” David Gale is writing his autobiography. His website can be found at www.iamdavidgale.com.

Brother Beast: A Personal Memoir of David Cooper1Stephen Ticktin
With the death of David Cooper some six weeks ago in Paris, the ‘antipsychiatry’ movement, which began in England in the 60s lost one of its greatest inspirations. He died at home (a small flat in the 15th arrondissement) from a sudden heart attack, in the presence of Marine Zecca, the woman with whom he lived and worked, and who had been his greatest support for the past ten years. Besides Marine, he left behind him a wife and three children, a number of published books, and many friends, colleagues, and admirers (myself included) who will miss him greatly. But his greatest legacy was his determination to struggle against the oppression and orthodoxies of his time — political, philosophical, religious, and, most of all psychiatric. As he stated in the ‘forewarning’ of his penultimate book The Language of Madness:

“There is no hope There is only permanent struggle That is our hope That is a first sentence In the language of madness”.

David will probably be best remembered here in England as the champion in the 60’s and early 70’s of ‘antipsychiatry’, a word he, himself, coined in 1966. The term referred to that movement which began by challenging the medical concepts and practices of the modern psychiatric system — in particular the notion of mental illness itself — and looked for alternative ways of understanding human experience and behaviour and responding to human distress. David himself was instrumental, in 1962, in setting up a very radical venture, within the context of the NHS, at Shenley Hospital, which became known as Villa 21. This was a separate unit in which many young people, who had been diagnosed ‘schizophrenic’, were allowed to live without the interference of potentially harmful drugs, electroshock, or other organic therapies. The unit was run on egalitarian lines, and there was a deliberate attempt to abolish the traditional hierarchy between doctor and patient. Attentive non-interference was the ideal that was aimed for. At about the same time, in 1965, David, along with R.D. Laing, Aaron Esterson and four other like-minded individuals founded the Philadelphia Association, a registered charity that was eventually to set up a number of houses in the Greater London community where people in distress could go and live as an alternative to the traditional psychiatric hospital. He continued his involvement with the latter association until 1971 when he left England (early 1972) for Argentina. I first met David at this particular juncture of his life. He was en route to Argentina. He had been invited to participate in a week-long conference on ‘madness’ by the Health Advisory Service of our university (Toronto, Canada). I was a third-year medical student at the time and was supposed to be attending seminars in obstetrics and gynecology. However a ‘Madness Conference’ and a chance to meet David could not be passed by so easily, and so I attended the whole event. I had already read several of his books (as well as a few by his colleague R.D. Laing) and his existential Marxist writings both excited and catapulted me out of my more mechanical Freudian orientation. David soon appeared in full splendour. He was a large, wildlooking man with long golden locks and a huge red beard. He was dressed in black garb and had a big llamaskin coat of the same non-colour that lent him a beast-like quality. (Ironically, later on, I discovered that he often used the word ‘beast’ as a term or endearment!). But his blue eyes were very gentle and he spoke in a soft voice. And he was extremely thoughtful. One had the impression, almost immediately, of being in the presence of an exceptionally deep and beautiful man. When it came his turn to speak, he started by introducing me and saying that I would play a song. We had met only three hours previously, and, at that time, he had heard me playing my guitar. He had then asked me if I would play something at the debate and I agreed. I chose Bob Dylan’s ‘Ballad of a Thin Man’ (There’s something happening here but you don’t know what it is do you Mr.Jones). It set the tone for what David wanted to say, I didn’t realise it, at the time, but this was actually the beginning of a pattern that would repeat itself many times over as we travelled together, over the next few years, from one country to the next, with me playing a song and David speaking. He spoke most bravely that first time. He was inebriated and initially addressed that English-speaking audience in French, thinking that he was in the province of Quebec. He made it clear that he had left England, left the Philadelphia Association, and was no longer collaborating with Laing and Co. The latter, he said, was on a spiritual trip. He, David, was on a political one. At one point in the debate he actually left the podium and sat in the audience — I believe to underscore the idea that in the field of ‘madness’. (He used to say, often, at that time, that ‘schizophrenia’ did not exist but ‘madness’ did), there were no experts, and that one needed to remain sceptical of the so-called ‘science’ of psychiatry. I thought for all his appearance as a ‘guru’ that he showed a tremendous humility and compassion and it was these qualities in him which struck me the most. One woman in the audience summed up the whole experience in a nutshell: “He has a heart of gold” she said. Over the next three to four years I spent quite a bit of time with David, culminating in our sharing a flat for a year in Crouch End, London (1974). It was to prove to be his last year in England. He had returned from his sojourn in Argentina a few months earlier, and when I joined him I found him to be in a state of complete despair. He was drinking heavily and had virtually severed all his links with his former colleagues in the Philadelphia and Arbors Associations. Although he saw his family from time to time, relations were tense. It seemed that Laing and his followers had embarked on a course of exploring and utilising various therapies of the mind, body, and spirit, whereas David, in spite of a brief period in private practice in Harley Street in the late 60’s had, by this time renounced the latter occupation, primarily for political reasons. He was wont to say at the time that there were no personal problems only political ones. So we lived frugally during this period, and I acted, in a funny sort of way, as the intermediary between David and the outside world, answering telephone calls and letters, and arranging interviews and conference meetings when desired. His income came mainly from the royalties on his already published books and from an advance on his next one (this was eventually to become The Language of Madness). But he couldn’t write. It seemed that the English soil which had produced a burst of creativity in the 60’s had suddenly run dry. Some new spark was needed.

Brother Beast: A Personal Memoir of David Cooper1Stephen Ticktin…continued from page one
It cam from a somewhat unexpected quarter in September of that year. A meeting was being organised in Portugal to see if it might be possible to form a European network of alternatives to psychiatry. David was invited to speak. I accompanied him and it proved wonderful in the next few weeks to meet so many comrades from all over the continent who were struggling, in their own way, against psychiatric oppression. We were introduced to Franco Basglia, whose extroverted personality, and ‘democratic psychiatry’ contrasted so much with David’s personal reserve and ‘anti-psychiatry’. Also Robert Castel, the Parisian sociologist, who had just published a book entitled Le Psychoanalysme which consisted of a radical critique of psychoanalysis. Two very nice French sociology students, Nicole and Dominique (who eventually became long-standing friends) urged David to come and live in Paris. They promised him opportunities of work. After some persuasion on my part we drove back to Paris with them to begin the contact. There we met Felix Guattarri and Gilles Deleuze who had together written a cause celebre the year before entitled L’Anti-oedipe (Anti-Oedipus). David commented to me at the time that he thought Gilles Deleuze, in particular, to be extremely intelligent.The Portugal conference eventually proved to be the forerunner of the meeting in Brussels in Jan/75 which launched The International Network Of Alternatives To Psychiatry (Resseau Alternatif A La Psychiatrie). Mony Elkaim, a very congenial and energetic Belgian psychiatrist offered to act as a co-ordinating secretary. The developments in Italian psychiatry were seen to be very much in the forefront of things –David decided to move to Paris, and at that point I decided to return to Canada. I was virtually penniless and still not fully qualified as a doctor. I was sad to leave David. The year we had spent together meant a great deal to me — living and travelling together. But I felt that he was now embarking on a new (and, as it turned out, last) phase of his life, and he needed to make a fresh start. I was glad to have acted as part of the bridge which ultimately got him from England to France.About six months later he wrote to me in Canada (I had by now started my psychiatric training), saying that he had met a wonderful woman, had fallen deeply in love with her, and was experiencing a ‘joie de vivre’, the likes of which he had not known for years. I was so glad for him. The woman turned out to be Marine Zecca, at the time a young psychology student. They lived, loved, and worked together in Paris for the remainder of David’s life. When I returned to England in 1978 as a qualified physician I embarked on a course of studies with the Philadelphia Association and, at the same time, completed my psychiatric training. I got in the habit of visiting David once a year, and although I enjoyed seeing him very much, I knew little, in detail, of his last years in France. In the first few years he completed the manuscript he’d been working on when I left him. This was eventually published as The Language of Madness.It was a refreshing and most readable book and reflected the new experiences and thoughts he’d had while living on the continent. It seemed that he’d moved on dialectically from ‘anti-psychiatry’ to what he called ‘non-psychiatry’. In addition, he taught for a while at the University of Vincennes. He gave seminars, wrote articles and pamphlets, and introductions to other people’s books. He continued his activity in the International Network, and attended their annual meetings. For the past six years, he and Marine had been involved in a research project looking into the health needs of people in France, Italy and North Africa. His next book, which he was working on with Marine just prior to his death, was to incorporate the results of their investigations, as well as new developments in his own thinking during that time. As well, several years ago, along with Jacques Derrida, and several others, he helped set up The International College of Philosophy. I remember meeting David in Brussels in May/82 at a meeting of the International Network (it was as a result of this meeting that The British Network of Alternatives to Psychiatry was formed). It seemed to me, at that time, that France suited his consciousness much more so than England,although he commented to me that the problem with Paris was that it had too many artists and too many intellectuals. But, ironically enough, his own prodigious mind required that sort of soil. Each year I would watch his library grow, and, at the end, the small flat was literally walled with books. As much as he hated to admit it, David was himself a First World intellectual. And again, ironically, France seemed to have tempered his political outlook. The revolutionary rhetoric of the 60’s and early 70’s gradually evanesced (before this his letters would usually begin ‘Dear Beast’ and end ‘For Love and Revolutions’), and he spoke, in his last years, in a much more moderate way of practical reforms and concrete situations or work. In the English-speaking world there has been little written about David in the past ten years. An article in “Openmind” several years ago by Ron Lacey is the only thing that immediately springs to mind. His books are getting progressively more difficult to find in the commercial bookstores. When his name came up in the psychiatric circles I moved in there was usually one consultant or another making some derogatory comment to the effect that he was ‘mad’ or ‘psychotic’. This annoyed me very much as I knew him not to be. He once told me that each of the books he wrote seemed to coincide with something he’d left behind. With Psychiatry and Anti-psychiatry it was Shenly Hospital and the British NHS. With The Death of the Family it was his own nuclear family. With the Grammar of Living it was England for Argentina; and with The Language of-Madness it was England for France. It now seems that with his last book (still to be titled and published), he has left the world and all of us behind. But he will be remembered, for his spirit is still very much with us, and he will be missed for both his intellectual achievements and the person that he was.

My memories of R.D. Laing

Written for International Journal of Psychotherapy, special issue, 2011 Personal recollections of Ronnie Laing EMMY VAN DEURZEN Abstract: This is a very personal account of contact with R.D. Laing and some of the spin-offs of his work into the Philadelphia Association / Arbours Association and anti-psychiatry movement in the 1970s by one of the founders of Existential Psychotherapy in the UK. Key Words: R.D. Laing, personal memories, reflections, existential psychotherapy. I came to the UK in 1977, from France, where I used to work as a clinical psychologist and existential therapist in psychiatric hospitals (though my first training was as a philosopher) in order to work with R.D. Laing.  Reading The Divided Self and The Politics of Experience (in French), around 1971, had deeply affected me personally and had impacted greatly on the work I did with psychiatric patients.321436_10152420401250261_1581471229_n I had sought out the Arbours Association[i] therapists when they spoke at a conference in Milan in 1975 and had come over to visit the Arbours Association to see whether it might be of interest to work with the group, and also with R.D. Laing in his Philadelphia Association (PA)[ii]. My ex-husband Jean-Pierre Fabre (a psychiatrist) and myself were promptly invited by Joseph Berke and Morton Schatzmann[iii] to come over to work with the Arbours Association in London, and we accepted their invitation. We moved into an Arbours community house in South London in October 1977 and contributed to the work at the Arbours crisis centre as well.  I also started teaching existential therapy on the Arbours training programme, when it emerged that such teaching was not happening, as the Arbours training programme was almost totally based in neo-Kleinian theory at that time.  We set up some meetings with Ronnie Laing, with Paul and Carol Zeal, with Francis Huxley, and some others. We started attending some seminars with the P.A. too. But we got the impression from what people told us, and from what we observed for ourselves, that the Philadelphia Association was very run down by then. Several P.A. colleagues warned us not to get too involved, as it was crumbling and had become a ‘toxic’ organization, and Ronnie himself seemed to be in very bad shape.  It was also a great disappointment to find that the P.A. was focusing many of its seminars on French psychoanalysis.  Since Jean-Pierre and I had both been trained in this way of working for many years in France, and had been fighting the hegemony of Lacanian thinking, and had indeed specifically come to England to get away from all of that, it was rather ironic to be faced with rather poorly formulated French psychoanalytic thinking in the place where we had hoped to connect up with the existential tradition we were interested in.  My idea that, coming to the UK, would allow us to work directly with existential therapy, quickly turned out to be illusory and I began to realize that I would actually have to create what I had hoped to find ready-made. Not surprisingly, from the start, my relationship with Ronnie was not a very good one.  He certainly at this stage did not like to engage with the critique that I was formulating.  It seemed to me that he did not like to be on an equal level with colleagues, and was certainly not very interested in hearing about the rather revolutionary psychiatric and therapeutic work that J-P and I had been involved with in France.  Ronnie, it was clear to me, expected to be treated as a guru, and I was certainly not looking for a guru, but for a fair and frank exchange.  I remember him shouting at me one day on the phone that he was, “f…ing R.D. Laing and my husband and myself were just some f…ing psychiatrists from France”. With hindsight, it occurs to me that he may have wrongly assumed that we wanted to bring in more French psychoanalysis into the PA. Nothing could have been further from the truth.  But his attitude was so haughty, disdainful and rejecting that I decided to steer clear of him as much as possible. I gave it one more shot by attending his infamous lecture on ‘The Politics of Helplessness’ at the Round House, in early 1978, but I found it appallingly prepared, extremely poor in theoretical or practical contents, and completely uninspiring.  I was shocked by the way the P.A. trainees were made to sit at his feet, on stage.  I knew then for certain that this scene was not for me and that Laing’s work could not truly inform psychotherapeutic practice, but would only lead to un-productive adoration. Ronnie himself seemed burnt out by his own fame and I made a mental note never to let myself become famous, or too enamored with my own ideas or my own importance.  Fame, I knew from observing him, corrupts as badly as power or money. Too much light shining on you, blinds you and weakens you. What still sticks in my mind to this day is the story that he told at that conference of two climbers, tied to each other by ropes as they climbed a steep mountain slope, until one of them fell into a precipice, from which the other was unable to hoist him to safety.  The question he asked his public was, ‘When do you decide to cut the rope?’  I was shocked by his metaphor for psychotherapy and knew instinctively that this was the wrong question, and a completely wrong image to use. My inner protest against his fatalism and his personal helplessness spurred me on to formulate a much more structured form of existential therapy that could enable others to think for themselves and find their own path, be it with some support. Of course, living in an Arbours therapeutic community, I was only too aware of the impossibility of ‘saving’ other people in such a context, especially if one had to be apologetic about being a ‘therapist’, instead of just being a co-resident. It seemed obvious to me that, going out on a hazardous journey into madness without a compass, a map and some decent safety equipment and sensible planning, was mad indeed and could only lead to accidents. But I carried on with this anti-psychiatric[iv] journey for a little longer yet, to make quite sure it really was the wrong path, and that I wasn’t just being dismissive and arrogant about it. I also felt I had more to learn from the people I lived with.  It was through talking with them, and by studying and teaching the philosophical writings of my favourite existential authors, that I began to formulate my own ideas in a systematic way from this point onwards.  One could say that my disenchantment with Ronnie catapulted me into my own writing, and released me to be creative in my own right. I carried on seeing Leon Redler for therapy in one of the P.A. communities for a while in 1978, but soon decided to leave the Arbours and the P.A., and in April 1978 went to California to visit various mental health projects and to do some training at the Esalen Institute. Upon my return I got re-involved with the Arbours community in a different capacity, continued teaching for the Arbours training programme and became a supervisor to the trainees. I also, somewhat to my shame, was part of the Laing/Rogers encounter in the London Hilton Hotel in September 1978 and was one of Ronnie’s therapists, in the great rebirthing event on the dance-floor of the Hilton hotel. After that I decided that enough was enough and preferred to continue developing my own work, and I took a job with Antioch University’s London-based MA (Master’s degree) in Humanistic Psychology, which was quite tied in with the P.A.  I still attended occasional P.A. meetings and had many students who were in placement either with the P.A., or the Arbours.  I also did some yoga-based work with Mel Huxley, and Arthur and Janet Balaskas, around the time my son was born (February 1981). In fact, the night my son was born (more or less exactly thirty years ago at the time of this writing) Janet was going between the Royal Free, where she was my birthing partner and Ronnie’s house in Belsize Park, where she was helping him through a rough time during his marriage break down.  I think this was a final confirmation for me that he was losing it and that – in some way – the future of existential therapy was in my hands. I set up the first Masters degree programme based on existential therapy for Antioch University in 1982 and then moved this to Regent’s College, London in 1985, where it grew into an entire school of psychotherapy. During those years of very hard work, raising my young family and establishing a new therapeutic approach at the same time, I lost touch with the Arbours Association, the P.A. and Ronnie Laing. I only really got back in touch properly with Ronnie around the time that I decided to set up the Society for Existential Analysis.  This was in 1987, on the strength of me just having completed my first book on Existential Psychotherapy (Existential Counselling and Psychotherapy in Practice, which was to be published by Sage in 1988) and, of which I sent him an early copy.  He was much mellowed by that time and I was pleasantly surprised to find that we could talk sensibly about setting up a body for existential therapists to heal the splits between PA, Arbours and the Regent’s College-based programmes. I think Ronnie was quite impressed by what I had been able to achieve at Regent’s College and we discussed various ways in which he might be involved in it.  But he did not want to come to the founding meeting of the Society for Existential Analysis and sent John Heaton instead, who kindly proposed me as first chair of the Society, which was duly created together with the Journal Existential Analysis. I had promised Ronnie that though our first conference would be about existential analysis; the second would be about his contribution to psychotherapy and would be entitle ‘Demystifying Therapy’.  So, John Heaton and I gave the keynote talks at the first SEA conference in 1988 and Ronnie was nowhere to be seen, but fully expected to be the star turn at the second conference.  He was very keen that this second conference should be a platform for him to present some new ideas of his own about his way of doing therapy.  I believed that he was actually interested in rising to the challenge that I had put to him to formulate an existential therapy that could be taught to others.  But, in the middle of the process of us putting together the programme for that second SEA conference, he tragically died, in August 1989.  It was a big shock. The Society members immediately decided that the conference that we had been planning should be about Ronnie Laing and his work, even so, and Adrian Laing, his lawyer son, agreed to be our keynote speaker.  Adrian gave a rather bracing and somewhat harsh paper about his father and this caused quite a stir. I think that for me, this was the end of any remaining attachment to Laingian theory and I wrote a paper arguing how much Laing had misunderstood the whole philosophical notion of ontological anxiety. This was later published in my book, Paradox and Passion in Psychotherapy.[v] I am afraid that my recollection of Laing’s work has continued to be more about the ‘shadows’ that he created than about the light that his early work shone on my own life and that of many others.  I came to the UK because of his work: no doubt about it.  But instead of finding a flourishing existential scene, I found a chaotic situation where those who needed help were being plunged into confusion, rather than into elucidation and enlightenment.  The great myth of the breakdown leading to a breakthrough had been shown to be just that: a myth! So, I decided I could do better than that, and worked extremely hard to create the therapy that I had hoped to find in the UK, when I immigrated here in the seventies.  I would like to think that my work, in good Laingian tradition, speaks for truth and enables people to find truth where confusion reigned, previously.  I know for certain, that creating the Regent’s College[vi] courses and subsequently, and perhaps more importantly, the New School of Psychotherapy and Counselling[vii], has allowed existential psychotherapy to become established as a formal, and now well recognized, tradition in the UK (see my book: Everyday Mysteries[viii]). There are now thousands of people in the UK, who have had a structured and formal training in this approach, up to doctoral level.  Many countries in the rest of Europe have also created existential training courses on this same model, especially through the work that Digby Tantam, myself and colleagues from other European countries have done in creating the European-funded, online, Septimus courses[ix] in a dozen European countries.  Indeed, there is now a sweeping movement in this existential therapeutic direction all over the world. \As I lecture on each continent, I find enthusiasm and dedication to philosophical therapy everywhere.  There is something about the approach that allows for a cross-cultural non-doctrinaire take on the world and this is what liberates people to face our global and often paradoxical realities. I think Laing’s work was so popular because it drew on this philosophy of liberation and connected directly with people’s sense of alienation.  His early work will continue to be of much interest to many people over the next decades for that reason and he certainly figures prominently on New School syllabi. But it wasn’t Laing’s work, on its own, that created the movement of existential therapy.  In terms of actual psychotherapeutic method, his work stopped short of providing any practical guidance for trainees or clients, leaving people to turn to now outdated concepts from psychoanalysis or rebirthing instead. I feel that the hard and ongoing work that many of us have done in creating existential psychotherapy as a distinct approach in the UK will have a much bigger impact and longer lasting effect in the long run.  But this is a slow and carefully built impact, and not the flashy, fame-driven bolt of lightning that were the ideas of R.D. Laing. It is the discipline of philosophy that now carries the approach, rather than the emotional passion of one person. Whilst this is every bit as inspirational as were Laing’s words, it takes a lot longer to absorb, fully understand, and apply.  Ultimately, it has more therapeutic value and dynamism, as it is not based in wishful thinking, but in reality.  While this form of existential therapy is in many ways a testimony to Laing’s brilliant ideas, it unfortunately owes very little to him directly. Author: Emmy van Deurzen is Principal of the New School of Psychotherapy and Counselling in London, where she runs several masters and doctoral programmes in existential therapy and counselling psychology, jointly with Middlesex University.  She is the author of ten books on existential therapy. E-mail: emmy@nspc.org.uk Endnotes:


[iii] Joseph Berke & Morton Schatzman – colleagues of R.D. Laing at Kingsley Hall and founders of the Arbours Association.
[iv] The movement that started in the UK around the work of R.D. Laing and David Cooper was sometimes known as the ‘anti-psychiatry’ movement: http://en.wikipedia.org/wiki/Anti-psychiatry
[v] van Deurzen, E. (1998). Paradox and Passion in Psychotherapy: An existential approach to therapy and counselling. Oxford: Wiley-Blackwell.
[vi] Regent’s College: http://www.regents.ac.uk
[vii] New School for Psychotherapy & Counselling: http://www.nspc.org.uk
[viii] van Deurzen, E. (2000). Everyday Mysteries: Existential Dimensions ofPsychotherapy.  Hove: Routledge.
[ix] SEPTIMUS (Strengthening European Psychotherapy Training through Innovative Methods and Unification of Standards) courses: see http://www.europsyche.org/contents/13120
05 NOV–08 JAN 2011 MARY BARNES In 1965 radical psychiatrist R.D. Laing co-founded an experimental therapeutic community at Kingsley Hall in Bow, East London. Presenting herself on the brink of a serious mental breakdown, Mary Barnes (1923-2001) was Kingsley Hall’s first resident. Under the guidance of Laing and his colleagueJoseph Berke, Barnes underwent a near total behavioral regression. Refusing to eat, dress or wash, she was in her own words “going down.” Around this time she produced her first artwork – a pair of black breasts painted on the wall of her room in her own shit. Focusing principally on her time at Kingsley Hall (1965-70), Mary Barnes presents painting, drawing, sculpture and writing produced by Barnes alongside an extensive archive of documents, films, audio recordings and photographs relating to her work and the legacy of R.D. Laing’s thought. Accompanying the main exhibition will be a cycle of films. These include Abraham Segal’s Coleurs Folie(1986) and Asylum (1972) Produced and Directed by Peter Robinson. (Asylum by permission of Surveillance Films).

by Mary Barnes and Joseph Berkes Other Press, 2002 Review by Tony O’Brien, M.Phil on Feb 24th 2005 Mary Barnes’ autobiography is one of the frankest and most literal accounts of madness you are likely to read. From her description of her early family life to the sometimes tediously detailed description of her day to day experience of regression into psychosis, Barnes spares herself and the reader little. Interspersed with sections by her therapist, Joseph Berkes, and with new epilogues added since the publication of the 1971 edition, the book spans the entire period of Barnes’ life until her death in 2001. Barnes’ story is not simply an autobiography, but a first-person account (two if you include Berkes’) of a tumultuous time in British psychiatry. The asylum era had faltered under the weight of internal critique, public distrust, and the seemingly limitless capacity of society to consign the mentally ill to institutions. New theories of mental illness, especially schizophrenia, were emerging. In particular, psychoanalytically oriented theorists were looking at the role of the family in schizophrenia. Thus Barnes’ personal life history followed a path toward, and then away from the mainstream of British psychiatry. Barnes begins with the ironic comment: ‘My family was abnormally nice’. From there she recalls a childhood under the austere gaze of her mother, and her struggle to live with the conflicts carried into her adult life. She recounts early experiences of her reaction to her mother’s pregnancies, and her sense of rejection, displacement and rage. Trained as a nurse, and for a time employed teaching nursing, Barnes’ life does not show the trajectory of adolescent role failure often considered to characterize schizophrenia. Her conversion to Catholicism showed a concern with questions of meaning that were later to assume almost mystical proportions. According to her account Barnes achieved considerable success professionally, but remained troubled by self doubt and at times delusional ideas about herself, her family, and her effects on the world around her. These led to hospital admissions and intervention with the standard treatments of the time, ECT and chlorpromazine. When she met R.D Laing her life changed, and it is here that the biography takes on and additional social and historical interest. In 1965 Barnes entered Kingsley Hall, a therapeutic community set up by antipsychiatrists Laing and Esterson. The mood was radical; the techniques primitive and untried. Laing considered psychosis to be a healing experience which, fully experienced would bring about its own resolution. Laing was the enfant terrible of British psychiatry in the 1960s. His somewhat precocious The Divided Self set out what he saw as the basis for an alternative scientific account of schizophrenia, that of schizophrenia as an indicator of pathological family interaction. Kingsley Hall was the crucible in which Laing’s ideas would be tested. Barnes would become one of Laing’s ambassadors; a voyager into the depths of psychosis, who would emerge to explain its mysteries to those who would listen. A lot of people listened. Kingsley Hall, during the time of Mary Barnes residency, became a magnet for radical thinkers in psychiatry. Visitors included Fritz Perls and Loren Mosher. As mainstream resistance to Laing’s ideas became more entrenched, his critique took on an explicit political dimension through his identification with concerns of emancipation and liberation, rather than merely the alleviation of distress. 49389458According to Berkes’ account, doctors working at Kingsley Hall were exhorted to drop their medical persona, and instead engage with their clients as one human being to another. There seems to be little that is problematic about such an attitude. Many doctors of the day, especially those who were psychoanalytically trained, would probably have agreed that the relationship between doctor and patient is the prime ingredient of psychiatric care. Michael Balint’s 1957 The Doctor, his Patient and the Illness certainly took such ideas seriously in applying them to general medicine. However it is not entirely clear that Laing and others were prepared to abandon the status arising from their background as doctors. Their role as therapists appears in large part derived from their medical authority, augmented by a considerable dose of personal charisma. At one point in Berkes’ therapy with Mary Barnes, Berkes lashed out in frustration at Barnes’ childish demands, bloodying her nose. What is notable about his response is his consternation at finding himself thinking in terms of the ethical framework of medicine. He is later relieved that Barnes thanked him for the assault and said “she loved me more than ever”. As she emerged from the cocoon of psychosis Barnes’ discovered a talent for art. She became a productive and respected painter, not merely in the ‘art of the insane’ tradition, but in her own right, as an artist of the unconscious. The book contains several reproductions of her work, and they certainly have evocative power. One painting, ‘The resurrection’ seems clearly modelled on Munch’s The Scream, but the embryo-like figure suggests the idea of rebirth which was a cornerstone of Laingian therapy. Roman Catholic iconography is strongly represented in her art, with the fingerpainted works on Peter, the Nativity, and The Blinding of Paul having a primal quality in both the colors and the interpretations of their themes. Two Accounts of a Journey through Madness is at times a slow read. There is little evidence of professional editing, which may be a reflection of the Barnes’ view that madness speaks directly, and should not be filtered through objective the frames of reference for the convenience of others. Whatever the reason for its publication in this form, the authentic voice of Barnes contributes in large measure to the book’s appeal. While there are passages in which the tone of her writing is prosaic, there are others that show the poetic sensitivity that inspired her art. Her view of herself is that: ‘Much of me was twisted and buried, and turned in on itself, like a tangled skein of wool, to which the end had been lost.’ (p. 13). Mary Barnes was never cured. Perhaps she was never ill. She lived a productive, fulfilled life, albeit one interrupted by her admissions to hospital and her sponsored descents into psychosis at Kingsley Hall. She contemplated death with equanimity. It is hard to imagine the events of her life being repeated. That is not to say that psychiatry has been reformed by the lessons of the antipsychiatrists. If anything, the ideological position of biological psychiatrists has been strengthened, rather than weakened over the past few decades. Psychiatry, especially State psychiatry, has redrawn its boundaries, and is now less concerned with dysfunctional families, and more with using narrow diagnostic criteria to limit access to services. It is not at all clear that Laing’s radicalism has made an enduring, independent contribution to psychiatry. His focus on understanding the experience distress is part of an interpersonal tradition that predates Kingsley Hall, reaching back to Tuke and other practitioners of moral therapy. Kingsley Hall folded in 1970, and so was never able to provide the sort of sustained programs of intervention that might have tested Laing’s theories more fully In the years after Kingsley Hall Laing never recaptured the status he enjoyed as a counter culture figure. A biography is a story of a life. While Barnes’ book, especially the chapters by Berke, provides a critique of mainstream psychiatry, it is as biography that the book is most successful. From the intensely subjective descriptions of her childhood experiences, to the frank and at times naively honest recollections of her adulthood, Barnes’ account is direct and compelling account of one woman’s life. http://youtu.be/13s9oLvb-Bg

JERVIS E IL CONVEGNO SU BASAGLIA (1 – L’esperienza di Gorizia)

– 16 GENNAIO 2013PUBBLICATO IN: PERSONAGGI

Basagia e Jervis ISi è tenuto a Roma il 30/11/2012 e il 1/12/2012 un convegno organizzato dall’ARPCI (Scuola di Specializzazione e Formazione in Psicoterapia Cognitivo-Interpersonale), dal titolo “Attualità del pensiero di Basaglia”, che ha visto la partecipazione di eminenti psichiatri per la maggior parte affluenti nell’area storica di “Psichiatria democratica”, continuatori del pensiero basagliano. Ottimo convegno, ben organizzato anche nel numero contenuto che ha consentito di respirare un’atmosfera gradevole e familiare. In una delle tante relazioni è stato citato il nome di Jervis accennando in modo solo tangenziale ad alcuni dissidi e divergenze con lo stesso Basaglia che, con la pubblicazione de “ Il buon rieducatore” di Jervis, hanno segnato il definitivo distacco. Alla fine degli interventi prendo la parola, presentandomi innanzitutto come uno psicoterapeuta che aveva avuto dei rapporti di supervisione quasi ventennali con Jervis e che nelle discussioni avute sull’argomento dopo la pubblicazione del suo penultimo libro “La razionalità negata” scritto in collaborazione con Corbelllini, oltre alla polemica psichiatria-antipsichiatria, emergeva anche una figura di Basaglia in realtà poco democratica, piuttosto accentratrice e autoritaria, incapace negli ultimi anni di gestire una “notorietà” che forse lui stesso non s’aspettava; pur riconoscendo allo stesso Basaglia lo spirito di una mente illuminata che aveva dato vita ad una grande e importante riforma della psichiatria del tempo.

Che certe polemiche tra Jervis e l’area basagliana di “Psichiatria democratica” esistessero da tempo era cosa nota e che non si fossero mai sopite del tutto ha trovato ampia conferma proprio dopo la pubblicazione de “La razionalità negata” che le ha acerbamente disseppellite, rimettendo evidentemente il “dito sulla piaga” di un nervo scoperto. Non mi aspettavo certo sviolinate d’amore verso Jervis, ma quello che dalle loro risposte mi ha colpito è stato l’eccessivo livore, rabbia e rancore contro di lui; non è uscita fuori la fatidica parola ma il senso intuibile era quello di essere considerato un “traditore” della causa, l’unico vero “sabotatore“ dell’esperienza idilliaca di Gorizia. Come già accennato, gli attacchi sono stati portati particolarmente al libro di Jervis “Il buon rieducatore”(1977) che a detta dei relatori (sui cui nomi preferisco tacere) ha segnato anche una frattura personale con Basaglia, e manco a dirlo al già citato Jervis-Corbellini “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia” (2008). Gli attacchi che hanno sfiorato anche il cattivo gusto del pettegolezzo e perfino della denigrazione inventata contro Basaglia, mi hanno fortemente insospettito come se ci fosse nei confronti di Johnny il sentimento ambivalente di chi, mentre rimprovera implacabilmente, vive la cocente delusione dell’abbandono. Le parole di uno dei relatori risuonavano, infatti, come un monito nostalgico di rimprovero per non essere lì in mezzo a loro (magari lo potesse, aggiungo io!), riconoscendogli quell’immensa cultura che li avrebbe certamente aiutati.

Il convegno è poi scivolato verso altri temi. Tornando a casa, ruminavo tra me e me su quanto accaduto e per quanto potessi essere stato io a somministrare la pastura non riuscivo a digerire il pasto indigesto. Mi sono preso la briga di andare a riprendere “Il buon rieducatore” dove nel primo capitolo intitolato proprio “Il buon rieducatore” c’è, oltre che una piacevole autobiografia fino a quel momento, anche un ottimo resoconto dell’esperienza di Gorizia. Il primo capitolo che vale come lunga introduzione data dicembre 1976, quando lui è già a Reggio Emilia a dirigere i Centri d’igiene mentale, mentre il libro viene edito nel 1977. Questo è quanto scrive Jervis su Basaglia:

Quanto alla mia carriera, avevo chiesto e ottenuto da Basaglia il suo formale e personale impegno che, nel caso l’equipe goriziana si fosse sciolta o trasferita io sarei stato il primo tra i suoi collaboratori a cui egli avrebbe trovato dignitosa sistemazione altrove (…) Rispetto a come si presentavano gli altri direttori di istituti universitari e manicomiali italiani, si misurava subito una netta differenza di qualità. Egli proveniva da una ricca famiglia veneziana, e traeva dalla sua origine aristocratica e alto borghese doti di gusto, cultura, spregiudicatezza, attitudine al comando, disprezzo per gli eufemismi e per le piccolezze quotidiane. Leggeva, e a quanto mi disse i suoi autori preferiti erano Pirandello e Sartre; amava molto occuparsi di mobili antichi, era un antifascista e progressista; inoltre, era un uomo simpatico, e viveva in una splendida casa con due figli e una moglie bella e intelligente, Franca Ongaro, che gli faceva da segretaria e lo aiutava a scrivere gli articoli. Infine era ambizioso e sembrava aver fatto di Gorizia lo scopo della sua vita…Con una rabbia e un coraggio di cui credo nessun altro sarebbe stato capace in Italia in quegli anni, in una situazione locale culturalmente e politicamente sfavorevole, aveva deciso di farne un’esperienza pilota. Aveva mantenuto rapporti molto stretti col suo vecchio professore che andava a trovarlo a Padova tutte le settimane, ma si considerava, ed era un outsider; e se da un lato il modello a cui Gorizia si riferiva era quello delle comunità terapeutiche britanniche (che Basaglia aveva visitato), da un altro lato era chiaro che si era trattato sin dall’inizio di un’esperienza dotata di caratteristiche originali. Di fatto Gorizia finì per essere qualcosa di più di una copia di modelli stranieri: divenne un tentativo di detecnicizzare e depsichiatrizzare il rinnovamento manicomiale; fu un luogo di elaborazione di importanti proposte politiche e culturali; e infine assunse una importanza centrale per il rinnovamento della psichiatria istituzionale italiana dopo il 1967”. (Jervis “Il buon rieducatore”,1977, pp.19-20)Una descrizione molto simile si ritrova anche in Jervis-Corbellini “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, 2008, pp.82-83.

E ancora sulla personalità di Basaglia e i rapporti tra i membri del gruppo goriziano:

Basaglia richiedeva ai suoi collaboratori una adesione incondizionata, e non tollerava facili dissensi teorici e di linea, che tendeva a vivere drammaticamente come attacchi personali. Prima del mio arrivo, il gruppo dei medici allora intorno a Basaglia aveva conosciuto liti, scismi, espulsioni ed emarginazioni; mi resi conto rapidamente che anche nel gruppo attuale vi erano competitività e malumori che appesantivano molto il lavoro. E il lavoro era di per se molto, e pesante, sia come ore che come impegno: io tra l’altro ero tenuto a fare, in quanti medico di sezione, frequentissimi turni di guardia, di 24 o (nei fine settimana) di 48 ore, da cui erano invece esentati sia il direttore che i primari(…) “L’istituzione negata” fu, almeno secondo l’impressione che mi fece allora, una mescolanza quasi inestricabile di esaltazione comunitaristica e “antiautoritaria” e di attenzione critica ai problemi politici e culturali in gioco. I lavori di elaborazione collettiva di quel libro segnarono l’inizio della spaccatura dell’equipe e di una serie di dissensi che, apparentemente legati a rivalità ed esacerbate ambizioni personali, nascondevano invece profonde differenze di linea, e quindi divergenze di scelte operative, Dopo il maggio ’68, a Gorizia come altrove la spaccatura divenne drammatica e irreversibile.”(Jervis “Il buon rieducatore”, 1977, pp. 20-22).

Ancora su Basaglia e i rapporti col gruppo:

Da anni Basaglia parlava di lasciare Gorizia (già nel ’66 e’67 pareva che avesse la possibilità di andare a lavorare prima a Ravenna e poi a Bologna). Nel ’68 si sommarono a questo la sua delusione per i dissensi sempre più profondi che dividevano tra loro vari membri dell’equipe, e lui dall’equipe; e la convinzione che l’esperienza goriziana fosse ormai giunta a un punto massimo di sviluppo: in pratica, a un punto morto. Retrospettivamente, sono ora portato a credere che avesse più ragione di quanto non pensassi a quell’epoca: è possibile che l’esperienza goriziana avrebbe avuto la possibilità di progredire ulteriormente, oltre la fase volontaristica dell’ ”ospedale aperto”, solo se all’interno dell’equipe si fosse cessato di ignorare la necessità di un confronto con problemi tecnico-scientifici di tipo più specificamente psichiatrico, come quelli di natura psicoanalitica, o attinenti alle dinamiche di gruppo; oppure se l’istituzione avesse avuto la possibilità di aprirsi all’esterno, di legarsi ai problemi della popolazione locale, di portare “nel territorio” le contraddizioni, i problemi che venivano gestiti invece esclusivamente all’interno delle sue mura. Dall’altro lato, almeno per quanto riguarda quest’ultimo punto, la situazione politica locale e l’ostilità dell’amministrazione provinciale, avrebbero reso difficile, se non quasi impossibile, un sistematico “lavoro all’esterno”: però né allora né, credo, in seguito Basaglia dimostrò interesse per le istanze di base e per la politica “dal basso”, per cui non ritenne che questo costituisse un possibile terreno operativi (…) Un episodio fu indicativo, ed emblematico del clima che si era creato. Quando all’epoca scrissi per i “Quaderni piacentini” un articolo di denuncia sul caso Braibanti-Sanfratello in cui criticavo due cattedratici e ospedalieri di psichiatria fra i più reazionari (Rossini di Modena e Trabucchi di Verona) Basaglia pretese che censurassi il mio scritto o addirittura che, a cause di quelle critiche contro i suoi colleghi, io non lo pubblicassi; alla fine acconsentì solo perché mi impuntai, ma a condizione che al posto del mio nome usassi uno pseudonimo. Così feci con imbarazzo, e firmai con un altro nome. In quella circostanza misurai la mia dipendenza oggettiva, istituzionale (ma in parte anche psicologica) dal direttore dell’ospedale: malgrado il clima informale, amichevole e solidale, e malgrado il sentirci “tutti nella stessa barca” (e in parte proprio per questo) la direzione di Basaglia era sostanzialmente autoritaria. Erano a quell’epoca sempre scontri interni: per motivi di disciplina di gruppo, in cui credevo, e di solidarietà, evitai sempre finché rimasi a Gorizia, e anche per vari anni in seguito, di partecipare o anche di far trapelare all’esterno queste divergenze (che erano sempre, in ultima analisi, profonde divergenze politiche ed anche etiche) e di provocare un confronto pubblico sulle differenze d’impostazione e di linea che esistevano fra il mio operare, quello di Basaglia, e quello degli altri membri dell’equipe. Il fatto di non aver reso pubblici i dissensi, e di non aver confrontato apertamente fin dall’inizio le nostre rispettive posizioni con gli ambienti della sinistra e con tutti coloro che guardavano con simpatia all’esperienza goriziana fu indubbiamente un grave errore politico, che produsse confusioni e danni…Del resto moltissimi del vasto pubblico non volevano sentir parlare di dissensi di linea né di diversità di condotta: il gruppo goriziano fu idealizzato dai suoi simpatizzanti come politicamente omogeneo (cosa che invece non fu mai) o venne identificato con formule “antipsichiatriche” più o meno semplicistiche. Del resto credo che il pubblico avesse tutte le ragioni per non voler sentir parlare di dissensi, dal momento che questi ultimi sembravano riconducibili solo a beghe personali”.(Jervis “ Il buon rieducatore,1977,pp. 23-25). L’episodio che si riferisce al caso Braibanti-Sanfratello è riportato con maggiori dettagli anche in Jervis-Corbellini “La razionalità negata. Pschiatria e antipsichiatria in Italia”, 2008, pag.114.

Questo è quanto scrive Jervis verso la fine dell’esperienza goriziana:

“ Ma vorrei tornare ai fatti di quell’epoca, cioè all’estate del ’68. La tesi di Basaglia non era solo che l’esperienza di Gorizia fosse finita (e già su questo punto il resto dell’equipe non era d’accordo) ma altresì (per usare un’espressione che ripeteva spesso) occorresse “riconsegnare Gorizia agli psichiatri”: cioè andarsene tutti, e trasformare di nuovo l’ospedale aperto in ospedale chiuso, chiamando a gestirlo un direttore tradizionalista e medici conservatori; e cercare di far carriera altrove (…) ma egli si scontrò soprattutto con l’opposizione di Pirella. Con molti buoni argomenti e molta fermezza, Pirella dichiarò che non contestava affatto a Basaglia il diritto di lasciare Gorizia se lo desiderava: ma che riteneva giusto, anche per i ricoverati e gli infermieri , che l’esperienza continuasse. In quanto membro più anziano e di più alto grado dell’equipe se la sentiva di assumere la direzione dell’ospedale, lavorare con altri, andare avanti. Su questo contrasto io persi una buona occasione per dimostrarmi quel gran nemico dell’opportunismo, che spesso lasciavo intendere di essere: trovavo che Pirella aveva ragione ma all’inizio non lo dissi con chiarezza, per non rovinarmi definitivamente i rapporti con Basaglia. (Ciò non mi servì neppure, perché ne aveva più che abbastanza della mia collaborazione, tanto che mi impedì di occupare un posto messo a concorso nel manicomio di Parma, e mi disse chiaro e tondo che per il mio futuro professionale e di lavoro vedessi di arrangiarmi. Quanto a lui , ammaestrato dall’esperienza, per il suo futuro sarebbe stato attento a scegliersi collaboratori “più giovani e più di buon carattere”). La direzione di Gorizia fu dunque presa da Pirella, con cui rimasi a lavorare. Però Basaglia non digerì molto bene l’idea che esistesse una “Gorizia senza Basaglia”. In Italia e anche nel mondo si sparse a quell’epoca la voce, totalmente falsa, secondo cui egli era stato costretto ad andarsene per l’opposizione degli ambienti politici retrivi o per persecuzioni giudiziarie, tanto che l’esperienza goriziana pareva fosse finita nella repressione; e non riuscii mai a capire fino a che punto Basaglia stesso contribuisse a fabbricare e propagare queste dicerie. Quando nell’autunno del ’69, ormai stabilitomi a Reggio Emilia, ottenni udienza dal ministro della Sanità (a quell’epoca, Ripamonti) per avere il riconoscimento ministeriale dell’attività appena iniziata dei Centri di igiene mentale di Reggio, fui interrogato con molta cortesia e simpatia sulla sorte dell’esperienza goriziana: il ministro mi chiese se a Gorizia vi erano grosse difficoltà, e se proprio non poteva fare qualcosa, anche finanziariamente; risposi che non solo l’esperienza non aveva fatto passi indietro, ma stava procedendo, ora soprattutto grazie agli sforzi di Pirella e Casagrande, e che un suo aiuto sarebbe stato molto importante, forse decisivo. Il ministro parve imbarazzato; poi mi disse che era disorientato, perché Basaglia in persona gli aveva risposto poco tempo prima che l’esperienza di Gorizia era “del tutto chiusa e conclusa”, e che non era proprio il caso di aiutarla. In seguito i rapporti tra Basaglia e Pirella migliorarono sensibilmente, e fra gran parte dell’equipe goriziana si cementarono nuovi accordi. Io non rivelai mai l’episodio del ministro.” (Jervis“ Il buon rieducatore”,1977, pp.25-26).

Eviterei di commentare oltre misura questi passi (sarebbe fin troppo facile!), mi limito a dire che sulla scia dell’atteggiamento umano-scientifico profondamente antidogmatico che proprio Jervis ci ha insegnato, quanto riportato non va certamente preso (anche da coloro che lo hanno amato) come l’oro colato della “verità”, ma sicuramente come l’ ”esperienza” umana e professionale dello stesso Jervis che risulta però profondamente “diversa” da quanto riportato al convegno. Anche nel prossimo articolo continueremo a parlare del convegno, ma centrato di più sul tema psichiatria-antipsichiatria.

BIBLIOGRAFIA

-G.Jervis “Il buon rieducatore”, Feltrinelli, Milano, 1977

-G.Corbellini- G.Jervis” La razionalità negataPsichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

JERVIS E IL CONVEGNO SU BASAGLIA (2 – L’antipsichiatria)

– 28 GENNAIO 2013PUBBLICATO IN: PERSONAGGI

Franco BasagliaL’ultimo capitolo de  ”Il buon rieducatore” s’intitola il “Mito dell’antipschiatria”. Qui sono già evidenti le “differenze” con la cosiddetta antipsichiatria da cui Jervis intende prendere le distanze, non solo dal punto di vista tecnico-scientifico, ma più profondamente dal punto di vista politico. Vediamo cosa scrive in proposito:

Nel campo della psichiatria, ai contestatori del ’68 è stata fatta bere, in un bicchiere verniciato di facili slogan, la ricetta borghese di una psichiatria magicamente liberata da problemi di autorità, digeribilissima perché priva di problemi tecnici, risolutrice di oppressioni, emarginazioni e violenze. Con fatica, ci si va oggi finalmente accorgendo che lo spirito permissivo, tipicamente borghese, non è la stessa cosa che la lotta antiautoritaria; che nella nostra società non si dà educazione senza sgradevoli problemi di metodi e di autorità (con i quali occorre fare i conti); che il problema del manicomio non sta tutto “dentro” quelle mura ma in primo luogo “fuori” di esse; e che se è vero che la malattia mentale non esiste in quanto malattia, cioè nel senso medico, questo non significa che non esistano persone con gravi problemi psicologici, e bisognose d’aiuto; né che non esistano molti individui, che lo stato borghese non può certo rinunciare in quanto tale a rinchiudere, controllare, reprimere, condizionare, prevenire, assistere in modo specializzato, con metodi man mano più efficaci.

Le cose si fanno man mano più chiare: e, passata l’epoca della mistificazione permissiva, il potere torna a mostrare il suo vero volto… …Uno degli equivoci più comuni, ma oggi ormai in piena crisi, riguarda ancora il mito di una psichiatria “antiistituzionale”: cioè che si pretende capace di negare il proprio carattere repressivo nel momento in cui corregge, o abolisce, gli aspetti più oppressivi del manicomio. Questo errore, particolarmente diffuso in Italia, arriva a scambiare il riformismo istituzionale (cioè l’elaborazione, o per meglio dire l’importazione, di più moderne forme organizzative dell’assistenza psichiatrica pubblica) per un progetto politico dotato in qualche modo di virtù eversive… …Ma per lo più, ciò che si indica come antipsichiatria non vuole avere nulla a che fare col riformismo psichiatrico. L’antipsichiatria vuole essere caso mai la negazione di questo riformismo: non la negazione del manicomio, ma la negazione della psichiatria. Questo orientamento implica non solo la critica al vecchio concetto di malattia mentale, ma anche la critica all’idea della follia come qualcosa da curare; implica la confutazione della definizione di disturbo mentale, e la tendenziale rivalutazione della devianza “psichiatrica” e della follia.

In questo senso l’antipsichiatria vive piuttosto come tendenza, orientamento culturale, fermento critico, che come realtà pratica. Questa tendenza critica nasce in buona parte dall’interno stesso della psichiatria, e da alcune correnti della sociologia, mentre per altri versi è espressione (come si è accennato all’inizio di questo scritto) di contraddizioni e bisogni politici. Si tratta però di una tendenza dotata di caratteristiche vaghe e contraddittorie. Il concetto di antipsichiatria è andato rivelando, col passare degli anni, una sua imbarazzante carica velleitaria: da un lato si è man mano chiarito che all’atto pratico l’antipsichiatria era ancora psichiatria, mentre da un altro lato essa sfumava nel cielo degli equivoci scientifici.  (Jervis “Il buon rieducatore”1977, pp. 133-137). (Sull’antipsichiatria su veda anche Corbellini-Jervis “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, 2008, pp. 60-81).

Vediamo cosa scriveva nel “Manuale critico di psichiatria” del 1975:

Le conseguenze, nel manicomio, sono molto più gravi: ma le cause stanno fuori dalle sue mura. Così, è soprattutto fuori da quelle mura che si formano le strutture si potere e gli schemi di comportamento che (talora degradati e poco riconoscibili) regolano i rapporti anche all’interno dell’istituto di ricovero. Il manicomio rende talora evidenti alcuni aspetti dell’oppressione e dell’ipocrisia che costituiscono l’infrastruttura del vivere sociale nel capitalismo: ma non ne spiega né l’oppressione né l’ipocrisia. Il manicomio non spiega né i perché di se stesso, né tanto meno quelli della società esterna: al contrario, è la struttura sociale che causa e spiega il manicomio. Così, è in rapporto alla lotta di classe, e nell’ambito dei temi che studenti, operai, tecnici elaborano e fanno propri nelle proprie rivendicazioni sociali e nella vita quotidiana, che si organizzano le lotte contro le cause del disagio psichico e contro la sua gestione repressiva. Il collegamento della classe operaia con le forze che si battono all’interno dell’istituzione costituisce allora una premessa possibile per la trasformazione reale di quest’ultima. (Jervis “Manuale critico di psichiatria”, 1975, pag. 118).

E ancora su psichiatria, antipsichiatria e lotta rivoluzionaria:

Non saranno né gli operatori né gli amministratori a “liberare la psichiatria”: e un a psichiatria “alternativa” e “contro il sistema” in fin dei conti non è mai esistita. La psichiatria resta nella nostra società, e resterà fin tanto che una società è divisa in classi, essenzialmente uno degli strumenti di repressione e di integrazione di cui dispone lo stato, e quindi la classe al potere, per gestire i propri privilegi. Lo stato non vi può rinunciare: non può rinunciare a disporre delle carceri, e così non rinuncia a gestire i manicomi e le strutture equivalenti, o i servizi psichiatrici in genere. Per ora le cose non possono essere diverse: la psichiatria non potrà essere restituita a una funzione solo terapeutica, cioè non potrà essere “liberata”, se non in una società senza classi. Ma forse a quel momento anche le contraddizioni sociali che dominano l’insorgenza dei disturbi mentali saranno attenuate o scomparse” (Jervis “Manuale critico di psichiatria”, 1975, pp. 138-139).

Dopo l’esperienza di Gorizia, imboccando questa strada, Jervis s’avvierà dal 1969 a dirigere dall’ ”esterno” del manicomio i Centri d’igiene mentale distribuiti nel territorio di Reggio Emilia.jervis2 Vediamo a distanza di qualche anno (rispetto a quando scrive) la posizione di Basaglia (riespressa al convegno) in riferimento alla malattia, alla follia e al manicomio; posizione i cui semi erano già contenuti nell’esperienza goriziana, definitivamente fioriti a Trieste (dove Basaglia andò a dirigere l’ospedale psichiatrico di zona), i cui frutti animarono lo spirito della “Legge 180”, emendata in quegli anni.

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato.” (F. Basaglia “Conferenze brasiliane” (1979), Raffaello Cortina, Milano, 2000, pag. 34)

Riassumendo, dobbiamo innanzitutto contestualizzare questo excursus in quegli anni animati da forti fermenti politici della contestazione di sinistra, dal mito della rivoluzione e dalla lotta di classe. Infatti, a ben vedere, le due posizioni hanno almeno un punto di vista politico comune: il disturbo psicologico-psichiatrico viene (almeno in parte) interpretato come espressione storica delle contraddizioni del sociale; ma da questo punto di vista le posizioni divergono. Quella basagliana antipsichiatrica potrebbe riassumersi così: “Se la malattia, gli stessi psichiatri e soprattutto l’istituzione manicomiale rappresentano le contraddizioni di una società oppressiva e violenta, chiudere i manicomi, sciogliere i matti e mandare a casa gli psichiatri, rappresenta l’atto consapevole e volontario che interrompe la cinghia di trasmissione di tali contraddizioni”. Discorso che apparentemente non fa una grinza. Mentre il discorso di Jervis di quegli anni potrebbe risuonare più o meno così: “Se la malattia, la psichiatria e l’esistenza dello stesso manicomio trovano origine nelle contraddizioni del sociale, è proprio nella trasformazione politica del sociale che c’è la chiave di volta, mentre invocare ad una psichiatria “libertaria” o “antiistituzionale” oltre che risuonare mistificatorio, si rivela un semplice “esorcismo politico” che lascia le cose intatte, sia nel senso della responsabilità psichiatrica della “gestione” del disturbo (che s’impone comunque!), sia nel senso della sua “produzione” che continuerà a proliferare fin tanto che non si andrà alla radice del male”.

Potrà sembrar strano ma stando agli scritti di quel tempo, Jervis scavalca politicamente a sinistra la posizione basagliana, pur essendo improntata, questa, ad un riformismo radicale della psichiatria italiana; ciò che gli varrà spesso, fin dai tempi di Gorizia, la critica per un eccessivo intellettualismo di sinistra, ancorato su posizioni estremiste. Adesso, rileggendo questi scritti, mi viene da sorridere quando sento ancora parlare di Jervis come “traditore” del mandato e del ruolo sociale della psichiatria, “rinnegatore” della valenza sociale del disturbo mentale. E’ vero che successivamente Jervis abbandonerà le posizioni massimaliste e prenderà le distanze sia dalla teoria marxista intesa come prassi rivoluzionaria e dottrina della liberazione sia dall’interpretazione univoca del disturbo mentale in chiave esclusivamente sociale, ma ciò che è importante sottolineare qui è che la frattura con “Psichiatria Democratica” si era già consumata nel decennio degli anni ‘70 e molto poco sull’interpretazione “scientifico-psichiatrica” della malattia mentale e della sua cura (questioni ancora “in fieri”), ma proprio sull’interpretazione “politica” della sua origine e della sua gestione; interpretazione che vedeva in Jervis uno psichiatra fervidamente impegnato sul fronte politico-sociale e per niente la figura di un freddo psichiatra scientista e antisociale come vorrebbero quelle critiche che sbagliano clamorosamente i tempi della loro enunciazione! Per chi avesse ancora dei dubbi su quanto fosse politicizzato lo psichiatra Jervis di quei tempi può andarsi a (ri)leggere il capitolo “La normalità e la sua critica” in Jervis “Manuale critico di psichiatria”, 1975, pp. 194-225.

Su questo punto è lecito muovere una nota critica allo stesso Jervis, dal momento che per quanto legittimamente possa aver revisionato alcune sue idee (tutti hanno il diritto di farlo nel corso della propria vita), sembra essersi mostrato dimentico negli ultimi venti anni, su quanto scriveva negli anni ’70: ma per affermare la “differenza” del presente col passato non c’è bisogno di rimescolare troppo il passato nel tentativo di renderlo più coerente col nuovo presente. A conti fatti e facilmente col senno di poi, ritengo che dobbiamo essere tutti grati a Basaglia per il suo coraggio e lo spirito innovatore dimostrato in quegli anni difficili: il muro divisorio preso a simbolo rassicurante della città dei sani rispetto a quella dei folli doveva essere abbattuto, e l’interno manicomiale ridotto a lazzaretto dei derelitti, ghetto degli esclusi e pattumiera dei rottami sociali, definitivamente chiuso! (Anch’io, nel 1975, allora studente di psicologia ai primi anni, visitai l’orrendo manicomio di Trapani, dove feci anche un breve tirocinio). La Legge 180 ha significato il fiore all’occhiello della psichiatria italiana e siamo, con vanto, l’unico paese al mondo che ha chiuso con un intervento legislativo l’istituzione manicomiale. Lo stesso Jervis, a distanza di tanti anni, riconoscerà l’importanza della Legge 180, nonostante tutte le sue pecche e i suoi vuoti applicativi (Corbellini-Jervis ”La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, 2000, pag. 169). In merito a ciò, bisogna rilevare che la Legge 180 è risultata “molle” e “imprecisa” negli aspetti applicativi della gestione del disturbo psichiatrico distribuito sul territorio (e questo anche Basaglia lo sapeva benissimo!), ma soprattutto ha lasciato inevasa la domanda sull’origine e sulla natura del disturbo stesso: chi pensava che la malattia (ma anche la stessa follia in senso basagliano) fosse solo figlia del manicomio e che bastava demagogicamente chiuderlo per farla sparire, si è dovuto amaramente ricredere.

Oggi non si può dire che la “follia”, la “malattia” e il “disturbo mentale” non continuino a prodursi, nonostante lo splendore della 180. Riguardo a queste ultime considerazioni, ho sentito riecheggiare nel convegno categorie esplicative un po’ vecchiotte che finivano, ancora una volta, per appiattire il disturbo psichiatrico sui rapporti sociali finendo in una lettura troppo semplicisticamente sociologica dei problemi. Che il disturbo psicologico-psichiatrico nasca dalle trame dei rapporti sociali (a partire da quelle familiari) è cosa indubbiamente vera; ma che sia “solo” la duplicazione reificata di queste, appare superficiale, riduttivo e perfino banale. In merito a questa miopia eziologica pongo tre elementari considerazioni che idealmente rivolgo agli esponenti del convegno:

1) Se l’origine è solo sociale, come mai nella stessa città, nello stesso quartiere, in un’ipotetica famiglia disastrata, due fratelli coetanei (che quindi vivono contemporaneamente il parossismo di certe situazioni) prendono strade completamente diverse: uno quello della delinquenza organizzata, l’altro quella dell’entrata in seminario per diventare prete? Ammettere l’esistenza di un sia pur rudimentale “psichismo” tra il biologico e il sociale appare così strano? Non è forse quell’elaborazione “soggettiva” e “personale” degli stessi stimoli che fa la differenza tra gli uomini sani o disturbati che siano e non la riproduzione imbalsamata del “reale” tout-court?

2) Gli psichiatri dell’area democratica trovano una radice storica nell’ideologia d’ispirazione marxista (anche se ormai il mito della rivoluzione è finito per tutti!) e coerentemente con ciò del disturbo psichiatrico ne danno una lettura massimalista in termini di “materialismo sociale” dei rapporti. Questo tipo di materialismo non li spaventa! Mentre invece li spaventa un materialismo d’altro tipo: non solo quello più rozzo tradizionalmente organicista, ma anche quello più raffinato biologico-genetico e neuropsicologico dei disturbi… perchè?! Come se il materialismo sociale lasciasse inalterata la “coscienza” (cosa che invece non è), mentre invece quello biologistico la facesse sparire del tutto (e anche questo non è vero). Siamo animali dotati di un’intelligenza superiore (così si dice) e perciò condannati a vivere nell’ ”Io coscienziale” (buono, cattivo, vero o falso che sia) e non nelle cellule dei nostri organi interni; non ci sarà scienza al mondo che potrà sostituirsi alla coscienza per il semplice motivo che la scienza è un “processo” d’accertamento della verità, la coscienza è il “luogo” ed anche il “tempo” ontologico dell’esistenza che riguarda tutta la specie umana senza nessuna distinzione di età, sesso, razza, religione o cultura. Ma se la costruzione della struttura coscienziale è sovradeterminata da un’infinità di fattori biologici, genetici, organici, emotivi, affettivi, storico-sociali, situazionali, perché mai dovrebbe vedere proprio nella scienza, che studia questi fattori, la sua antagonista? Semmai la scienza potrebbe farsi ancella per la costruzione di un sapere coscienziale più accorto e oculato, capace di vaccinare quel “luogo” da inganni e facili illusioni.

3) Se tali psichiatri vedono con molto sospetto l’approccio biologista e organicista in materia, allora perché fanno un uso sistematico e tanto disinvolto degli psicofarmaci? E’ stato fatto rilevare proprio da un relatore, la profonda differenza di trattamento tra uno psicoanalista classico che tradizionalmente non usa i farmaci, da quello di uno psichiatrico democratico che invece ne fa largo uso.

Queste linee di tendenza sono riaffiorate quando la discussione è scivolata sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico, polemica importata dalla Francia e proseguita in Italia tra lo stesso Corbellini e lo psicoanalista lacaniano Di Ciaccia (io stesso ho ascoltato, tempo fa, una trasmissione radiofonica sull’argomento tra i due protagonisti): se la sindrome autistica sia possibile curarla con un approccio tipicamente psicoanalitico oppure facendo ricorso a tecniche neuro-cognitive. Anche qui la riluttanza verso ogni tecnica neuro-cognitiva e bio-psicologica si è fatta sentire; ma è ormai risaputo che la sindrome autistica ha radici bio-genetiche (non è un caso che la stragrande maggioranza dei bambini autistici sia di sesso maschile), che incidenza clinica di cura potrà mai avere il “sapere psicoanalitico” sull’autismo? ( a meno che uno faccia delle cose chiamandole con un altro nome). E’ come domandarsi se i D.S.A. (disturbi specifici d’apprendimento) possano trovar giovamento con qualche buona chiacchierata da un buon psicologo o se a un tubercolotico possa giovare una bella passeggiata in un bosco a respirare aria pura… certamente sì!

Ma altrettanto certamente questo non lo cura dalla sua tubercolosi! Come ho fatto rilevare al convegno, ritengo che la psicoanalisi, ponendosi tra psicologia e filosofia, rimanga un’ermeneutica della liberazione della “soggettività” che qualche volta riesce bene, altre volte meno, ma non debba trovare la sua antagonista dirimpettaia nelle neuroscienze, né ingelosirsi dei suoi progressi, anzi rallegrarsene, eventualmente. Ogni tanto i due percorsi paralleli possono anche incrociarsi e all’occorrenza infiocchettare un nodo comune, ma poi ripartire per la propria strada, evitando sterili quanto inutili contrapposizioni.

Finisce qui il mio resoconto  sul convegno, ringrazio tutti gli organizzatori per la loro totale dedizione agli aspetti logistici, i relatori per la passione con cui  hanno esposto i loro  contributi comunque pregevoli e mi congedo con  affetto da tutti i lettori, immaginando che in mezzo a loro ci sia anche il “nostro” stimato GIOVANNINO (mio e di Francesco)… …che abbia letto anche lui gli articoli e che con  sobrio calore mi dica “Ti ringrazio!”, ma fermandosi lì, senza lasciar trapelare emozioni più profonde.

BIBLIOGRAFIA:

F. Basaglia “Conferenze brasiliane” (1979), Raffaello Cortina, Milano, 2000

G. Corbellini-G. Jervis ”La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

G. Jervis ”Il buon rieducatore”, Feltrinelli, Milano, 1977

G. Jervis “Manuale critico di psichiatria”, Feltrinelli, Milano, 1975

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Psichiatria

Forum salute mentale : un commento a Mal-trattamenti psicoanalitici

  • Schermata 06-2456454 alle 10.55.35L’Unità di oggi. un bizzarro mix di uscite in varie direzioni
9 giugno 2013

di Giorgio Bignami.

Ogni tanto leggiamo su l’Unità articoli di alto profilo per chiarezza di informazione e per taglio politico, culturale, scientifico ….Per esempio, il 26 maggio (p. 16), Elena Granaglia ha chiaramente spiegato quali siano i principali nodi nell’attuale crisi della sanità italiana, soffermandosi in particolare sul rischio creato dalla robusta spinta europea alla privatizzazione. E sul supplemento Left del sabato (25 maggio, p..37), Paola Mirenda ha fornito un quadro chiaro e drammatico delle condizioni di oltre 50 milioni di badanti sradicate dai loro paesi d’origine per andare ad accudire anziani e disabili in paesi come il nostro: abbandonando anziani genitori, coniugi e compagni (”vedovi bianchi”), figlioli magari in tenera età, per mandar loro, rimasti a casa, il minimo per sopravvivere (tanto che in alcuni villaggi e cittadine ucraine quasi non si vedono più donne, salvo anziane e bambine). L’Italia è il paese che ha il maggior numero di badanti rispetto alla popolazione; quindi non occorre dilungarsi sulle conseguenze negative di questo massiccio sradicamento selettivo per il genere femminile (almeno in parte dei paesi d’origine), nel campo della salute in generale e in quello della salute mentale in particolare.: E questo, a fronte di una inadeguatezza qualitativa e quantitativa della maggioranza dei nostri servizi ad affrontare i problemi che ne derivano.

Ma sia su L’Unità che su Left le uscite di diversa impostazione sono diventate piuttosto frequenti, Già si è detto, in un recente intervento su questo sito, del sostegno a piena pagina dato dal quotidiano alla proposta di legge di iniziativa popolare “181″, mirata a legificare minuziosamente le pratiche in campo psichiatrico, proposta che desta non poche perplessità ( http://www.news-forumsalutementale.it/limbroglio-della-181/#more-11227 ).

Il caso forse più clamoroso per le sistematiche recidive riguarda Left, che pare de facto l’organo ufficioso dei c.d. fagiolini, cioè degli allievi e sostenitori dello psichiatra e psicoterapeuta Massimo Fagioli. Al guru maximo sono riservate ogni settimana due intere pagine (per carità, ognuno è libero di esternare ciò che vuole; ma pare strano che tali esternazioni, dato il giumellaggio obbligatorio, siano imposte con un supplemento di costo ai lettori dell’Unità, che ancora reca in testa la dizione “quoitidiano fondato da Antonio Gramsci”). Non di rado, poi, ulteriori pagine recano gli interventi di seguaci del capofila. Per esempio, nel numero del 18 maggio, subito dopo il pezzo del Maestro sulle immagini oniriche (p. 54-55), troviamo un lungo articolo di Domenico Fargnoli (p. 54-56), il quale sferra un violento attacco contro la Società psicanalitica italiana (Spi): L’autore coglie l’occasione del commento curato dalla Spi per la serie Sky In treatment; e a parte il sacrosanto diritto di critica, lascia perplessi sia il fatto che un tale attacco di parte nella “guerra tra scuole” sia ospitato in questa sede, sia l’uso di espressioni apodittiche, come “il totale fallimento del freudismo”, e simili. Ora, senza voler entrare nel merito, è noto che buona parte dell’odierna psicanalisi di ispirazione freudiana si serve di schemi sostanzialmente modificati rispetto a quelli del fondatore. Insomma, non occorre una specifica competenza in materia per rendersi conto che una sparata a salve cone quella di cui si parla scende sotto al livello di certe critiche mirate ad azzerare i crediti di un Darwin o di un Marx: imputando loro la mancata “lettura nella sfera di cristallo” di informazioni all’epoca di là da venire, .

Infine non si possono condivideri interventi che si danno la zappa sui piedi, come quello masochisticamente intitolato “Welfare Fai da Te” (Left, 18 maggio, p. 22-26). Questo articolo dà per scontata la progressiva insufficienza delle risorse pubbliche rispetto ai bisogni della gente, e quindi sostiene soluzioni come le ottocentesche Società di mutuo soccorso. Il che pare in piena sinergia con la spinta alla privatizzazione di cui si è detto all’inizio:con i suoi squali delle assicurazion, che aspirano ai profitti dei loro cugini anericani; con i suoi welfare aziendali, drammaticamente discriminanti tra un lavoratore e l’altro (v. i privilegi dei dipendenti di Del Vecchio-Luxottica e di Monzemolo-Ferrari, a fronte delle miserie dei dipendenti di Marchionne); con il fiorire di iniziative come San. Arti.(per gli artigiani) e Sanimpresa (assistenza sanitaria del terziario privato), ampiamente pubblicizzate soprattutto sui media della sinistra; con il decollo del fundraising benedetto da L’Espresso (23 maggio, ma in edicola dal 17, p. 118); e chi più ne ha più ne metta.

L’antica saggezza popolare insegnava che “Ai tempi che il grasso dimagra, il magro mòre”; ed è ovvio che i magri di oggi sono proprio servizi come quelli per la salute mentale, che oltre al loro progressivo strangolamento vedono oggi aggiungersi lo storno delle risorse dedicate alla chiusura degli OPG, destinate alla creazione di una fitta rete di miniOPGegionali; o come quelli per le tossicodipendenze, che ogni giorno riducono i loro orari di apertura, chiudono parte dei loro presidi, né possono rispondere a una folla di nuovi problemi e di nuovi bisogni che esigerebbero un cambio qualitativo, oltre che quantitativo, del loro modus operandi.

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  1. Egregio Bignami, il suo nome che ricorda certi manualetti del liceo, parla di sintesi un po’ frettolose. L’epiteto di cui Lei fregia Massimo Fagioli non merita un commento: è solo una caduta di stile ed una mancanza di argomenti da parte sua. Per ciò che concerne il mio articolo la tesi che io sostengo è che in realtà nel freudismo non c’è mai stato nessun sostanziale rinnovamento. Conosco a fondo la letteratura psicoanalitica passata e presente e la sfido a dimostrare il contrario. Il freudismo è tale perchè fa riferimento a Freud così come il cristianesimo fa riferimento a Cristo. Ora un cristianesimo senza Cristo sarebbe bizzarro (per usare un aggettivo che a lei piace ) così come un freudismo senza Freud. Ernesto de Martino che certo non era uno sprovveduto sosteneva che la psicoanalisi era una forma di religione sotto le mentite spoglie dello scientismo. Anche il grande Karl Jaspers a suo tempo ha espresso opinioni analoghe scrivendo che la storia dell’omicidio del padre primordiale era una stupidaggine razionale.
    Ora le religioni non evolvono perchè si basano su dei dogmi: questi ultimi rimangono tali,e come i deliri, non si correggono. Questo è il dramma del freudismo.
    Per ciò che riguarda la guerra fra scuole non vorrei deluderLa ma io non faccio parte di nessuna scuola dai tempi dell’Università. Mi ritengo una persona libera che esercita autonomamente la propria professione e capacità di giudizio al di fuori da ogni vincolo istituzionale. Nel mio articolo ( che è di due e non di tre pagine e quindi grazie per averlo letto più di una volta) non faccio dichiarazioni di appartenenza ma esprimo un mio personale punto di vista.
    Forse è proprio questo che a Lei risulta incomprensibile.
    La ringrazio per l’attenzione Domenico Fargnoli

    1. francesco s calabresi 11 giugno 2013 alle 12:50 pm

      Caro Giorgio ,mi permetto di raccontarti qui un pezzo della mia vita ,in ricordo di alcuni brevi,occasionali ma intensi momenti di incontro. Rappresenti per me un ideale di scienza e impegno civile da quando lessi la tua denuncia dell’operato di alti dirigenti dell’Istituto Superiore di Sanità per ritardare l’introduzione del vaccino antipolio Sabin e favorire altra azienda (ottomila poliomelitici in più ,se ben ricordo) , ora sono rimasto spiacevolmente sorpreso per questo tuo intervento grossolanamente polemico su uno studioso ineccepibile come scienziato ed essere umano come M.Fagioli .Ho conosciuto M.Fagioli quando io, specializzando in neuropsichiatria, ero in training nella Spi all’istituto di via salaria e lui era analista qualificato ma con una formazione psichiatrica psicoterapeutica di primo ordine avendo lavorato per anni nell’osp.psichiatrico di Padova diretto da Barison e nella clinica di Binswanger a Kreutzlingen ,gestito comunità terapeutiche, scritto articoli psichiatrici significativi. Aveva pubblicato da poco “Istinto di morte e conoscenza”. Nella SPI si andava preparando la reazione che avrebbe portato alla espulsione-”scomunica”di Fagioli e alla cacciata degli allievi che avevano “fornicato”con lui.Io abbandonai il training profondamente deluso dalle due lunghe esperienze analitiche cui mi ero sottoposto ,dall’ambiente umano dominante all’istituto e dagli insegnamenti impartiti,e anche dalla mia pratica terapeutica .Gradualmente mi resi conto di quanto i comportamenti e gli insegnamenti che mi avevano ferito e deluso fossero legati alle incongruenze teoriche ,alla ottusità reazionaria ,e in fin dei conti alla disonestà intellettuale di Freud . La sua disonestà come scienziato , come terapeuta e come uomo è stata poi ampiamente dimostrata da tutti gli storici che hanno potuto accedere ai documenti dell’epoca (Ellemberger, Masson, Borch-Jacobsen etc.).La sua inconsistenza teorica ,approfonditamente e ineccepibilmente, da Fagioli .Io poi ho partecipato alla cosiddetta “analisi collettiva”portata avanti da Fagioli insieme alla maggior parte di quelli che erano prima miei pazienti e che sono ora miei amici e compagni ,nella quale abbiamo potuto decostruire lo psicoanalista freudiano che mi atteggiavo essere e i suoi analizzandi e lasciar venir fuori l’identità umana di ciascuno con le proprie qualità e specifiche competenze . A questa straordinaria esperienza formativa , ormai andata avanti in 38 anni di duro lavoro ben oltre la critica al freudismo e alle altre ideologie di quegli anni , son ancora molto felice di poter partecipare .Con affetto .

      A questo indirizzo è stato pubblicato l’articolo Mal-trattamenti psicoanalitici

    http://rassegnaflp.wordpress.com/2013/05/23/mal-trattamenti-psicoanalitici/#comments
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Psichiatria

Psichiatri che vivono in un altro mondo : violenza, “rimozione” e patologia mentale

arancia-meccanica A proposito di psichiatri che vivono in un altro mondo: un adolescente che dà venti coltellate e brucia viva una sua coetanea non è malato di mente in quanto sarebbe in grado di” intendere e di volere”.“Solo il 5% delle persone imputate di omicidio sono dichiarate inferme di mente, il restante 95% sono capaci di intendere e volere ed esprimono in maniera prevaricante e prepotente la loro sopraffazione o intolleranza nel non riuscire a possedere il proprio ‘oggetto’ di amore, aggravate da aspetti di insensibilità nei confronti dell’altro, di ipocrisia e di menzogna”
Claudio Mencacci, presidente della società italiana di psichiatria che sostiene questa tesi dovrebbe spiegarci cosa significa “capacità di intendere e di volere”. Si può essere gravemente ammalati pur mantenendo un rapporto razionale e lucido con la realtà: esistono numerosi studi di psicopatologia che avvalorano questo punto di vista. Di tutta la ricerca attuale nel campo della psicopatologia della schizofrenia ( Matussek, Sass o Parnas per fare alcuni nomi) non c’è traccia in questa esternazione del presidente della SIP il quale sembra essere rimasto a Kurt Schneider ed alla differenziazione fra psicopatie ( varianti abnormi della normalità da non considerare malattie), e le psicosi o infermità mentali su base organica. La” violenza” non sarebbe legata alla malattia mentale ma alla psicopatia da cui sarebbero affetti individui “sani di mente” << Va dunque sfatata la convinzione – sostiene il presidente della Società Italiana di Psichiatria – che vi sia necessariamente una connessione tra malattia mentale e violenza. Attribuire automaticamente gli atti di violenza a persone con disturbi mentali porta ancor più a stigmatizzare queste patologie e coloro che realmente ne soffrono e che si curano>>
Le personalità cosiddette antisociali nulla avrebbero a che fare con i disturbi mentali (!?)mentre nella maggior parte dei casi sarebbero responsabili di comportamenti aggressivi nella fattispecie contro le donne: questi ultimi sarebbero di competenza esclusiva dei giudici ai quali spetterebbe di applicare in modo inflessibile la legge.
Viene il dubbio, leggendo l’articolo sull’Unità del 1 giugno, che effettivamente il presidente possa aver fatto affermazioni del genere.
E’ chiaro che la psicopatia comunque la si voglia concettualizzare è una patologia mentale: essa spesso è solo l’aspetto esteriore di una condizione psicotica che in molti casi sfugge ad un’indagine superficiale.
Inoltre se sosteniamo che la violenza è preponderante fra le cosiddette persone normali ciò conduce alla conclusione che essa sarebbe costitutiva dell’essere umano come affermano i cattolici, gli psicoanalisti freudiani e lacaniani ( vedi le recenti affermazioni di Recalcati su Repubblica).
Quindi, con la tesi che l’uomo è un legno storto, originariamente cattivo e violento, come diceva Kant, l’unico approccio al problema dei comportamenti aggressivi, incluso il cosiddetto “femminicidio”, diventerebbe di tipo moralistico- punitivo: la psichiatria, se dessimo retta a Mencacci , ritornerebbe ad essere una pedagogia razionale come ai tempi del trattamento morale di Esquirol. Condanne esemplari e docce fredde, magari anche “confessioni” per ottenere il dovuto pentimento dopo un adeguata permanenza in un carcere sarebbero l’unica “terapia” possibile. Bisogna ricordare però che Esquirol insieme a Georget, creò il termine “monomania omicida” : gli assassini venivano considerati dei malati e come tali non imputabili. La loro malattia sarebbe consistita proprio in una momentanea paralisi di quella volontà che molti psichiatri forensi ritengono oggi , contro ogni logica, integra anche in personaggi come Anders Breivik. Altro personaggio:
 Massimo Di Giannantonio, psichiatra all’Università di Chieti e membro del Consiglio direttivo della Società italiana di psichiatria, analizza le possibili cause alla base della tragedia di un padre che a Piacenza ha ‘dimenticato’ il figlio di due anni in auto, per otto ore,  causando la morte per asfissia del piccolo.
<< Pur non trattandosi di “patologia”, tuttavia tutto questo “accade per delle motivazioni di grande rilevanza nel mondo psichico del soggetto coinvolto: un’ipotesi – sottolinea lo specialista – è che l’attribuzione del compito di portare il bimbo a scuola sia per il soggetto, ovvero il padre, un’attribuzione vissuta come ‘forzata’ o innaturale, poiché la sua routine non prevede tale atto; quindi, l’attribuzione di un compito non pertinente rende possibile in qualche modo che si pongano le basi per tale meccanismo di rimozione”. Altra ipotesi possibile, argomenta lo psichiatra, “é che il padre abbia nei confronti del figlio elementi irrisolti nella relazione affettiva, o viva una situazione di ritardato sviluppo maturativo”.
Ma l’affermazione più incredibile  è quella secondo la quale il bambino può diventare un elemento di aggressione nei confronti della relazione coniugale per colpire la coniuge. Come dire che si provoca la morte del bambino ma in realtà si vuole uccidere la moglie  Ad ogni modo, conclude Di Giannantonio, “non si tratta di un atto riconducibile ad una psicopatologia, ma di un meccanismo psicologico inequivocabilmente collegato ad una condizione di aggressività o conflitto irrisolto rispetto al bambino, al coniuge o alle responsabilità insite nella relazione di coppia”.
Naturalmente Di Giannantonio ci dovrebbe spiegare cos’è per lui la psicopatologia. Per es Freud che ha introdotto il termine rimozione ha scritto un saggio sulla “Psicopatologia della vita quotidiana” (1901) in cui parla oltre che di lapsus  verbali, di atti mancati e di paraprassie, cioè di azioni dissociate. Quando  una “distrazione” (in realtà un annullamento che non è né dissociazione nè rimozione) provoca una morte , o decine di morti come nel caso del comandante Schettino e della nave  Concordia, non lo possiamo considerare un normale evento della vita come dimenticarsi le chiavi o di pagare la bolletta della luce.  I processi psichici implicati sono profondamente diversi perchè diverso è il senso ed il significato dell’atto. Un chirurgo che non si lava le mani prima di entrare in sala operatoria non commette una semplice “sbadataggine” ma un atto criminale  suscettibile di sanzione penale. Un padre che vive una condizione di “aggressività” verso un bambino fino a volerlo morto e per ucciderlo se lo “dimentica” ( come dire che è completamente anaffettivo nei suoi confronti avendo realizzato un totale annullamento della sua presenza  ed immagine ) potrebbe nascondere una grave patologia mentale: questo problema non sfiora neppure  lo psichiatra Di Giannantonio.
Come si vede l’azione combinata dell’organicismo   e del freudismo porta gli psichiatri a fare discorsi completamente dissociati, avulsi dal contesto storico sociale , oltre che rendere impossibile la comprensione della realtà umana: essi sembrano appartenere ad un mondo alieno e parlano una lingua piena di contraddizioni  che forse neppure loro capiscono fino in fondo .In un altra occasione per es. Di Giannantonio aveva fatto affermazioni diverse a proposito di un caso analogo: avvenuto  a Teramo nel Maggio 2011.: “”Se mi dimentico le chiavi di casa o il cellulare – spiegava allora  l’esperto all’Adnkronos Salute – non è importante. Ma se questo ‘black out’ avviene in momenti delicati possono accadere anche tragedie. Ad esempio, se colpisce chi ha responsabilità verso terzi: i piloti d’aereo, i macchinisti dei treni, gli autisti di pullman. Per loro una distrazione banale o una dimenticanza possono trasformarsi in tragedia”. Per lo psichiatra dunque, questo può aiutare a spiegare quello che è accaduto a Lucio Petrizzi, padre della piccola Elena, la bambina di Teramo morta nell’ospedale di Ancona dopo essere stata dimenticata per ore in auto. Il caso è “la declinazione tragica” di questa tipologia di ‘black out’ mentali. “In questo caso particolare, il meccanismo psichico – spiega Di Giannantonio – diventa psicopatologico, ovvero accade una dissociazione. Nella mente avviene una frattura di parti estremante importanti, che per un certo periodo di tempo smettono di dialogare fra loro. La causa spesso è una condizione di ‘super’ stress”. La terapia consisterebbe in un distacco dal lavoro ed in una psicoterapia psicoanalitica”Nei casi medio-lievi basterà una settimana [di riposo], nei casi gravi anche tre”. Nella dinamica dell’annullamento che è quella che interviene in questi casi di “dimenticanza” si ha una realizzazione psichica dell’inesistenza dell’oggetto per cui non c’è più neppure il dialogo fra parti diverse della psiche Non c’è rimozione  inoltre perchè si ha la scomparsa dell’immagine e della rappresentazione che pertanto non è semplicemente spostata in altro luogo ma non esiste da nessuna parte. . Per il padre di Elena Di Giannantonio sottolinea la necessità di una psicoterapia psicoanalitica. “Perché il trauma – afferma – è enorme, e il genitore deve essere aiutato a separare il dolore drammatico della perdita dal dolore della colpa. Che in questo caso – dice – non c’è”. La  senso di colpa non è solo un vissuto cosciente ma anche inconscio: e quest’ultimo senz’altro c’è. Quindi ci si dovrebbe curare per il trauma ed il dolore  della morte e non per l’anaffettività e l’annullamento che questa morte ha procurato. Strano modo di pensare.

[Psichiatria. Mencacci (Sip): “Solo un omicidio su venti è causato da malattie mentali

Crescono gli omicidi e le violenze femminili con un rapporto 9:1. Ma solo il 5% è causato da persone con disturbi psichici il restante 95% sono capaci di intendere e volere. Il presidente della Società italiana di Psichiatria lancia un appello ai magistrati: “Più prevenzione e meno tolleranza”.

01 GIU – “Solo il 5% delle persone imputate di omicidio sono dichiarate inferme di mente, il restante 95% sono capaci di intendere e volere ed esprimono in maniera prevaricante e prepotente la loro sopraffazione o intolleranza nel non riuscire a possedere il proprio ‘oggetto’ di amore, aggravate da aspetti di insensibilità nei confronti dell’altro, di ipocrisia e di menzogna”. Non solo, Fabiana, Angelica, Silvana, Erika e Micaela, ultimi nomi di ragazze, mogli, madri, donne innocenti, vittime della ferocia maschile ormai quasi quotidiana, dimostrano che sono gli uomini ad essere sempre più assassini (e poi eventualmente suicidi), in un rapporto di 9:1. A puntare i riflettori su quella che è ormai diventata una strage “rosa” è Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria che – in occasione del convegno “Disturbi affettivi tra ospedale e territorio” organizzato oggi a Milano – invita i giudici ad essere severissimi e ad applicare con maggiore attenzione i sistemi preventivi, abolendo le giustificazioni, anche di natura psicologica. Anche perché nella maggior parte dei casi si tratta di un vero e proprio gesto aggressivo. Alla base dei fenomeni di violenza, i più recenti studi scientifici hanno individuato centotrenta possibili variabili, ma di fatto i detonatori sono prevalentemente i fattori socio economici, ambientali e culturali acuiti dalla crisi economica e dall’uso di alcol e stupefacenti. “Si tratta, il più delle volte, di individui con personalità antisociale – aggiunge Mencacci, che è anche direttore del dipartimento di neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano – e con una storia personale di comportamenti violenti che nulla hanno a che fare con problematiche o disturbi mentali”. Per questo gli apparati giudiziari e le forze dell’ordine non possono più permettersi superficialità, non è più possibile trovarsi di fronte ad un omicidio magari dopo anni di segnalazioni senza che vi sia stato alcun intervento serio dell’autorità giudiziaria. Occorre intervenire prima, subito, e con decisione, per evitare morti insensate. Nonostante un segnale positivo sia arrivato dalla Camera dei Deputati che ieri ha ratificato la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, le leggi da sole non bastano. Servono più decisione e meno tolleranza di fronte a questi reati. Inoltre non si deve giustificare la spettacolarizzazione o legittimare gli atti violenti che provocano emulazione. Anche di questo si è parlato in occasione del convegno ‘Disturbi affettivi tra Ospedale e territorio’ in corso oggi a Milano, che vede presenti i maggiori specialisti nazionali in psichiatria. “Sempre più donne sono preda della furia maschile – continua Mencacci – perché la spettacolarizzazione e il compiacimento che oggi ruota attorno al gesto violento e aggressivo porta all’emulazione crescente e all’acquisizione di comportamenti negativi, intesi come legittimati dalla collettività. Questo modello va stroncato, perché enfatizzare l’aspetto eroico o esibito significa invitare al compimento di atti lesivi gravi in maniera sempre maggiore”. Alla base, però, vi è anche un problema educativo, di ordine sociologico, di una intera generazione: soprattutto giovani non più abituati a tollerare alcun tipo di frustrazione, specie se viene disattesa la soddisfazione immediata dei propri bisogni. “Va dunque sfatata la convinzione – aggiunge il presidente della Società Italiana di Psichiatria – che vi sia necessariamente una connessione tra malattia mentale e violenza. Attribuire automaticamente gli atti di violenza a persone con disturbi mentali porta ancor più a stigmatizzare queste patologie e coloro che realmente ne soffrono e che si curano. Aumentare la vergogna porta ad un allontanamento dalle cure di tutti quei soggetti che potrebbero invece trarne grande beneficio. La ragione risiede in un atteggiamento comportamentale e culturale, sempre più diffuso, rivolto all’intolleranza, alla prevaricazione e alla possessività tale per cui le persone hanno perso la loro identità e sono diventate “oggetti” che appartengono ad altri e di cui non si accetta l’idea che possano essere perduti” e che si è pronti a distruggere”. Per frenare questi atti occorre prendere misure precauzionali forti. Anche da parte della Legge. “L’appello è non solo alle forze dell’ordine che devono essere messe in grado di intervenire, quando e laddove necessario, in termini protettivi, ma soprattutto ai Giudici quando si trovano a decidere se convalidare o meno un arresto per questi motivi. A loro – conclude Mencacci – chiediamo di essere severissimi e di applicare con maggiore attenzione i sistemi preventivi, abolendo le giustificazioni, anche di natura psicologica: si tratta nella maggior parte dei casi di un vero e proprio gesto aggressivo”. 01 giugno 2013 © Riproduzione riservata]

 Bimbo morto a Piacenza: i precedenti in Italia

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[LA TRAGEDIA

Bimbo morto a Piacenza: i precedenti in Italia

Lo psichiatra: «Dimenticare un piccolo in auto non è patologia, ma sintomo di malessere».

A Piacenza un bimbo di due anni è morto asfissiato in macchina.(© Ansa) A Piacenza un bimbo di due anni è morto asfissiato in macchina.

Un «meccanismo psicologico di rimozione», che non rappresenta una patologia psichiatrica ma vede alla base dei «profondi e seri conflitti irrisolti del soggetto». Così Massimo Di Giannantonio, psichiatra all’Università di Chieti e membro del Consiglio direttivo della Società italiana di psichiatria, analizza le possibili cause alla base della tragedia di un padre che a Piacenza ha dimenticato il figlio di due anni in auto, causando la morte per asfissia del piccolo.
LA DISSOCIAZIONE DELLA COSCIENZA. Non si tratta del primo caso di cronaca di questo genere. Il fenomeno tipico alla base di queste manifestazioni, continua l’esperto, è la cosiddettaSpaltung, un termine tedesco che indica «una frattura o dissociazione nella coscienza». In questa situazione, chiarisce Di Giannantonio, la persona svolge normalmente dei compiti cui è abituata, come guidare l’auto, ma al tempo stesso separa e toglie dalla sfera della coscienza un elemento importante, come il compito di accompagnare all’asilo il proprio bambino in auto.
COMPITI VISSUTI COME UN’ATTRIBUZIONE FORZATA. Pur non trattandosi di «patologia», tuttavia tutto questo «accade per delle motivazioni di grande rilevanza nel mondo psichico del soggetto coinvolto». Un’ipotesi, spiega lo psichiatra, è che «l’attribuzione del compito di portare il bimbo a scuola sia per il soggetto, cioè il padre, un’attribuzione vissuta come forzata o innaturale, poiché la sua routine non prevede tale atto; quindi, l’attribuzione di un compito non pertinente rende possibile in qualche modo che si pongano le basi per tale meccanismo di rimozione».
ALLA BASE UN MALESSERE DI COPPIA. Altra ipotesi possibile «è che il padre abbia nei confronti del figlio elementi irrisolti nella relazione affettiva, o viva una situazione di ritardato sviluppo maturativo». Ovviamente, precisa Di Giannantonio, «va però chiarito che tale meccanismo di rimozione non è un processo conscio, ma viene realizzato sulla base di un atto inconsapevole e involontario». Sempre a livello inconscio, prosegue, «il bambino può diventare un elemento di aggressione nei confronti della relazione coniugale per colpire la coniuge» o legato alle resposabilità di coppia.]

Anche questo punto di vista di Michela Marzano (lacaniana) è emblematico: sarebbe potuto succedere a ciascuno di noi !!!! La tragedia, la catastrofe è dietro l’angolo: se non accade è solo per motivi legati alla fortuna. Sta bene una persona che vive in tale stato d’animo?Mah.

Repubblica 5.6.13
Ma nessuno giudichi quell’uomo
di Michela Marzano

NON è giusto che se ne vada via così, per una malattia o una sciagura, senza aver avuto la possibilità di scoprire la vita e diventare adulto. Non è giusto, ma talvolta accade. E non serve a nulla recriminare su quello che si sarebbe dovuto o potuto fare. Soprattutto quando la morte di un figlio dipende in parte da sé, da quell’attimo o quelle ore di disattenzione, quando si è presi dai ritmi frenetici di una vita sempre più piena, e magari si pensa di aver già fatto il proprio dovere di genitore.
Il dramma di Luca, il bimbo di due anni morto asfissiato nella periferia di Piacenza perché il papà, invece di portarlo all’asilo, lo aveva dimenticato in macchina prima di andare a lavorare, non è il primo e non sarà l’ultimo. È un dramma molto contemporaneo che non ha niente a che vedere né con la presunta irresponsabilità di alcuni padri di oggi, né con il disinteresse nei confronti dei bambini. È semmai il tragico sintomo di una società sempre più frenetica e sempre meno umana, in cui siamo tutti prigionieri di un fare irrequieto e convulso. A chi non è mai successo di dimenticarsi delle persone più care, persino dei propri genitori o dei propri figli, perché tanto si era sicuri di ritrovarli a casa alla fine della giornata? Chi può dire di esserci sempre quando gli altri – cui pure vogliamo tanto bene – hanno bisogno di noi?
Certo, i bambini, a differenza degli adulti, dipendono completamente dai genitori. Hanno bisogno di tutto e ne hanno il diritto, visto che non hanno domandato nulla e spetta ai genitori proteggerli, amarli, custodirli. Soprattutto quando i bimbi sono talmente piccoli da non potersi nemmeno esprimere. Come proteggere, amare e custodire qualcuno però quando, a forza di agire in automatico, correre dietro alle cose da fare, uscire presto di casa e tornare tardi la sera, non si è nemmeno più capaci di occuparsi di se stessi?
Ci sono casi in cui giudicare non serve a nulla, anzi. Perché sarebbe potuto capitare a chiunque di credere di aver portato all’asilo il figlio prima di andare a lavorare, anche a chi si permette di giudicare severamente questo padre considerandolo un irresponsabile o, ancora peggio, un mostro. C’è qualcosa di estremamente banale in questa tragedia, banale come il male di cui ci parlava Hannah Arendt quando spiegava che ognuno di noi può commetterlo, soprattutto se si smette di riflettere e ci si lascia andare alla routine. È forse per questo che si resta attoniti e che si preferisce immaginare che a noi non sarebbe mai potuto accadere. Invece di compatire quest’uomo che forse non si riprenderà mai dai sensi di colpa che lo assalgono, e riflettere sul modo in cui cambiare le nostre abitudini quotidiane, perché a forza di correre sempre rischiamo poi di perdere di vista il senso stesso della vita.

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Psichiatria

“La follia a due” degli attentatori di Boston

Esplosione alla maratona di Boston

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Schermata 04-2456406 alle 13.02.56I due attentatori alla Maratona ed al Mit di Boston sembra fossero “lupi solitari” non collegati a cellule terroristiche .

E’ stupefacente il contrasto fra le affermazioni del padre secondo le quali i due figli, ed in particolare l’ultimo, erano due “angeli” e quelle dello zio, naturalizzato in USA, che sostiene che essi erano dei “losers” incapaci di integrarsi nella società americana. “Angeli” con cinture al plastico e dotati un vero arsenale di esplosivi ed armi automatiche? Le dichiarazioni della famiglia in Cecenia testimoniano la distanza e l’ignoranza dei genitori nei confronti della reale situazione psicologica e di vita dei due giovani. Quest’ultimi avevano difficoltà a inseririsi in un contesto culturale con cui si confrontavano oramai da dieci anni. Un problema psicologico aggiuntivo sarà stata per loro, e soprattutto per il più giovane, la malattia del padre ammalatosi di cancro cerebrale ed operato in Germania. L’uomo tornato a vivere in Cecenia appare, anche dalle sue dichiarazioni, come una figura lontana e non in contatto con la realtà dei figli.

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Parenti di vittime

Guardando le immagini delle esplosioni e delle loro conseguenze (dolore , lutto, disperazione, panico ) al traguardo della maratona ciò che risalta è l’enormità e l’assurdità del gesto assolutamente non inquadrabile in una strategia politica od in una credenza religiosa. boston2Il terrorismo sembra solo una maschera dietro cui agiscono motivazioni psicopatologiche. Gli americani hanno subito cavalcato istericamente l’onda dell’attacco, opera di una vasta organizzazione , memori delle ferite precedenti alle torri Gemelle nel 2001 ma in realtà i due ceceni ricalcano il copione noto dei mass murderers , cosiddetti “pseudocommando”.

I due fratelli si sono mossi come una “coppia criminale” condividendo deliri ed in base a ques’ultimi progettando crimini del tutto sprovvisti di un senso umano: fra loro, come di solito avviene nei casi di “folie à deux”, ci sarà stato sicuramente un incube ed un succube. La Folie à deux , descritta per la prima volta da Legrand De Saulle nel 1873. è una sindrome clinica caratterizzata da sintomi psicotici, principalmente da deliri condivisi da due

L'incube ed il succube

L’incube ed il succube

o più persone che hanno una relazione intima. Nella maggioranza dei casi riportati dalla letteratura clinica, i soggetti coinvolti nella Folie à deux sono membri della stessa famiglia o della stessa coppia (marito e moglie) e c’è generalmente una relazione dominante-sottomesso, carnefice-vittima, Secondo Scipio Sighele autore nel 1892 de “La coppia criminale”

<<(..) la follia a due non rappresenta soltanto la coesistenza parallela di due deliri simili, ma cosituisce una vera e propria società con uno scopo chiaro e determinato>>

La coppia criminale

La coppia criminale

Il delirio quindi ,come riteneva Eugene Blueler, non è autistico cioè esclusivo di una sola persona ripiegata su se stessa e fuori da vincoli sociali , ma può essere il frutto di una interazione fra due o addirittura fra più persone. Specularità, imitazione, suggestione intervengono nella formazione del delirio e ne condizionano la strutturazione e l’eventuale messa in atto come sostenuto già a partire dalla fine dell’Ottocento da esponenti della Scuola positivistica italiana.

Sulla differenziazione fra patologia mentale e terrorismo mi permetto di segnalare l’articolo “Anders Breivik e la diagnosi di schizofrenia paranoide” di Domenico Fargnoli ed altri nella rivista Il sogno della farfalla n°2(L’asino d’oro 2013)

http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4371452,00.html

Boston terrorist: My brother wanted to defend Islam

CNN reveals initial details on interrogation of marathon attacker Dzhokhar Tsarnaev, 19; ‘My brother was the mastermind behind the attack,’ says from his hospital bed

Ynet

Published: 04.23.13, 17:18 / Israel News

A questo indirizzo le dichiarazioni  più recenti dell’attentatore superstite

http://www.globalist.it/Secure/Detail_News_Display?ID=43252&typeb=0

http://www.washingtonpost.com/world/national-security/no-links-seen-between-boston-suspects-and-foreign-terrorist-groups-officials-say/2013/04/23/f08c9b7e-ac4b-11e2-b6fd-ba6f5f26d70e_story_1.html

http://tg24.sky.it/tg24/mondo/2013/04/23/attentato_boston_19enne_zhokhar_tsarnaev_collabora_polizia.html

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Psichiatria, Senza categoria

I surrealisti: l’isteria è un’invenzione poetica non una malattia

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Schermata 04-2456390 alle 20.22.55«La crisi isterica prende forma a spese della stessa isteria, con la sua aura superba e i suoi quattro periodi (di cui il terzo ci rievoca alla stessa maniera i
tableaux vivants più espressivi e più puri, la cui risoluzione è tanto semplice nella vita normale. L’isteria classica perde i suoi tratti nel 1906: “L’isteria è lo stato patologico che si manifesta attraverso dei disturbi che è possibile riprodurre per mezzo della suggestione, presso certi soggetti, con un’esattezza perfetta, e che sono suscettibili di sparire sotto l’influenza della sola persuasione (controsuggestione)” (Babinski).
Noi non vediamo, in questa definizione, che un momento del divenire dell’isteria. Il movimento dialettico che l’ha fatta nascere segue il suo corso. Dieci anni più tardi, sotto il deplorevole travestimento del pitiatismo, l’isteria torna a riprendersi i suoi diritti. Il medico resta stupefatto. Egli vuole negare ciò che non gli appartiene.
Proponiamo dunque, nel 1928, una nuova definizione di isteria:
L’isteria è uno stato mentale più o meno irriducibile che si caratterizza per la sovversione dei rapporti che si stabiliscono tra il soggetto e il mondo morale di cui egli crede in pratica di appartenere, al di fuori di qualsiasi sistema delirante. Questo stato mentale è fondato sul bisogno di una seduzione reciproca, che spiega i miracoli prematuramente accettati come suggestione (o contro-suggestione) medica. L’isteria non è un fenomeno patologico e può, sotto ogni punto di vista, essere considerata come un mezzo supremo d’espressione»

Breton è debitore della psicanalisi Freudiana (che si genera a partire dagli studi sull’isteria), ma egli va oltre: la “follia isterica” diventa il paradigma della creatività.Schermata 04-2456390 alle 20.33.15
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Augustine entra alla Salpêtrière il 21 ottobre del 1875, a quindici anni e mezzo: la ragazza cresciuta nella miseria della Parigi del Secondo Impero , poi della Comune, e successivamente della Terza Repubblica che aveva soffocato nel sangue 35 mila suoi cittadini – divenne il punto focale della ricerca di Charcot .Nel paradigma dell’isteria di Charcot potremmo veder riflessa l’immagine di una società intera. Fra il voyeurismo della documentazione fotografica del medico francese e la teatralità esibizionistica dell’ isterica si stabiliva una distanza incolmabile come se il gioco della seduzione parlasse di un desiderio sessuale destinato a rimanere insoddisfatto.20130408-162304.jpg

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<In seguito alla disfatta della Comune (1871), l’isteria esplose a Parigi con una carica di violenza inaudita. Le pazienti di Charcot, ben lontane dall’ideale di “nevrotica borghese” che avrebbe caratterizzato più tardi la psicoanalisi viennese di inizio ‘900, erano per la maggior parte prostitute, donne indigenti, criminali comuni o semplici ragazze di strada. Al ripristino dell’ordine costituito a Parigi , mentre i comunardi venivano fucilati o costretti ai lavori forzati , Charcot veniva proclamato membro dell’Accademia della Medicina francese e gli veniva assegnata la cattedra di Anatomia Patologica alla Sorbona: egli apparteneva ad un mondo che era la sponda opposta a quella delle sue malate. Augustine scappò dalla Salpetriére vestendosi da uomo nel Settembre del 1980, diventando così il paradigma del fallimento di Charcot . In quello stesso anno nel mese di Novembre Breuer fu chiamato al capezzale di Anna O la cui malattia rimase ancora una volta irrisolta. Di fronte alla crisi dell’identità razionale, scatenata dalla malattia e dalla morte del padre, i medici ottocenteschi erano del tutto impotenti.

Cosa c’è stato di poetico, cioè di invenzione estetica nella vicenda di Augustine a parte la bellezza adolescenziale di alcune sue pose che sembra essere utilizzata per nascondere la sua sofferenza?

Le creazioni letterarie , le fairy tales, di Anna O risolsero il dramma ed il dolore della sua immagine femminile negata?9788864431642_LaStoriaDiAnnaO

Breton ed Aragon propongono, nel 1928, il percorso aleatorio della trasfigurazione estetica del vissuto di malattia o della sua sessualizzazione, legato all’impotenza terapeutica, che saranno presenti nella cultura del Novecento. L’idea, falsa, della creatività della psicosi è un tema che viene introdotto dalla filosofia esistenzialista di Jaspers proprio nei primi decenni del secolo XXmo mentre le vicende del controtransfert erotico, che Freud imputava già a Breuer, tormenteranno, senza soluzione, la pratica della psicoanalisi freudiana fino ai nostri giorni.

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Film muto “La nuova Babilonia” (1928) sulla Comune di Parigi di Leonid Trauberg . Musiche Shostakovich

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La comune di Parigi (1871)

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Politica, Psichiatria

Andrea Zampi e la politica: un elettroshock per l’Italia

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One Flew Over the Cuckoo’s Nest (1975) con Jack Nicholson

 

 

Schermata 03-2456363 alle 09.41.38Domenico Fargnoli

Nella stampa si legge che Andrea Zampi,  l’imprenditore pluriomicida  e suicida umbro, aveva dato segni di grave “squilibrio” mentale. Per ben due volte , riferisce la madre  era stato sottoposto a  “stimolazioni al cervello”. Luigi Cancrini intervistato ad UNO MATTINA il giorno 7/03/2013 ha sostenuto  la necessità che l’intervento psichiatrico risponda ad un criterio psicoterapico abbia cioè un carattere di continuità, di coerenza, di fiducia . Ora nel caso Zampi sembra che la terapia sia stata discontinua ed incoerente: il ricorso all’elettroshock avrebbe inoltre minato irrimediabilmente il rapporto di fiducia medico paziente condannando quest’ultimo  ad agire un vissuto di incurabilità.

Si è parlato molto del fatto che il suicidio, come quello di David Rossi, uno dei principali collaboratori di Mussari nel MPS di  Siena o l’omicidio suicidio come quello di Zampi sarebbero  maturati nell’ambito   della situazione attuale : la crisi economico sociale,il dissesto finanziario andrebbe a sovrapporsi, come causa concomitante,  ad  una  patologia preesistente sfociando in tragedie.

Gli psichiatri non sono in grado a quanto pare di affrontare e risolvere la psicopatologia personale mentre i politici sono assolutamente impotenti ad arginare le problematiche economico sociali. Il risultato  ,devastante ,  viene amplificato in modo sensazionalistico dalla stampa cosicchè si addiviene ad una sorta di isteria collettiva che nasconde il vero senso degli eventi.

Spesso politici e psichiatri colludono nel riaffermare l’incurabilità della malattia mentale, intesa come incapacità del medico di curare ciò che è in linea di principio curabile,  che poi si traduce  in un’ idea  che ha delle ripercussioni anche ben oltre lo specifico della psichiatria:  si stabilisce  uno strano parallelismo, tutto da indagare, con l’ impotenza dell’azione politica che  interessa la  società nel suo complesso.  L’impossibilità di effettuare la  cura della malattia mentale si lega alla concezione, tipicamente cattolica,  che quest’ultima sia una malattia del cervello: l’anima spirituale, come affermato da Massimo Fagioli, in Bambino donna e trasformazione dell’uomo (1980) essendo di natura divina è sempre sana. L’anima può solo subire le perturbazioni prodotte dal cervello che si  ammala .Contro il tessuto cerebrale   si accanisce allora la psichiatria con gli psicofarmaci e l’elettroshock. Ritorna la concezione platonica del soma-sema per cui lo spirito  andrebbe liberato dalla prigione di un cervello e di un corpo malato a costo di danneggiarlo. A suo tempo si bruciava il corpo degli eretici per salvarne l’anima.

Rosy Bindi, nota esponente del PD di matrice cattolica, nel 1996 ha firmato un decreto con il quale si legittimava l’uso della cosidetta TEC ( terapia elettroconvulsivante) quella cui è stato sottoposto anche Andrea Zampi. Il Comitato Nazionale di Bioetica espresse  in quell’occasione, il suo parere ritenendo   che “non vi erano motivazioni tali da suggerire come comportamento bioeticamente vincolante la sospensione totale e generalizzata dell’uso della “TEC” e considerava anzi la “TEC” un trattamento elettivo ed adeguato per alcune specifiche patologie”. Nel decreto del 96  si sosteneva inoltre che

<<(…)in Psichiatria vi è una accreditata letteratura che partendo da una profonda attenzione per la personalità o la dignità del paziente, ritiene che la TEC costituisca uno strumento terapeutico, talora indispensabile, per la riduzione della sofferenza dell’individuo se riferita a quadri clinici ben definiti(…)>>

Va ricordato, come afferma una denuncia dell’Associazione Luca Coscioni  che negli ospedali italiani si ricorre, in virtù del decreto , all’elettroshock. Nel triennio, solo per fare un esempio,  2008-2010 sono stati eseguiti più di 1400 trattamenti.

M. Fink, uno psichiatra statunitense che ha fatto parte della Task Force dell ‘APA (American psychiatric Association) , fin dagli anni 50 del secolo scorso ha dimostrato con una serie di lavori che il cosidetto effetto “terapeutico” della TEC altro non sarebbe che il risultato di una disfunzione e di un danno cerebrale. Le modificazioni  riscontrate nel liquido cerebrospinale e nell’ EEG  dopo la TEC erano simili secondo lo scienziato, a quelle prodotte da un trauma craniocerebrale piuttosto che a quelle determinate da una epilessia spontanea. Altri studiosi intorno agli anni 90 hanno sostenuto che la risposta “terapeutica” nella TEC era proporzionale alla dose di elettricità somministrata cioè all’entità del danno e della disfunzione provocata.  La TEC fornisce un chiaro esempio di come lo psichiatra, annullando la circostanza per la quale egli sta procurando un danno al paziente, utilizza gli effetti del danno per ottenere un individuo  meno emozionalmente consapevole, meno autonomo e più manipolabile. I pazienti dal canto loro vanno incontro alla cosidetta “agnosognosia”  tendono cioè a negare o minimizzare la perdità di capacità affettivo-emozionali e cognitive. Il medico danneggia il paziente in modo tale da confonderlo e rendere impossibile la percezione del danno subito.

La strategia era già stata sperimentata, nella sua variante psicologica,  dai sacerdoti    cattolici a partire dalla Controiforma: il prete dopo aver esercitato una violenza sessuale nel confessionale assolveva la vittima così da rendere non più esistente  e quindi comunicabile ad altri, il peccato.

Rosy Bindi ha in comune con Monti, ma anche con Vendola (non dimentichiamolo)  la fede  e l’ideologia cattolica.

Rosy Bindi ha  colluso con la psichiatria organicista nel ritenere incurabile la malattia mentale e si è resa  complice di un danno iatrogeno di proporzioni gigantesche mentre Monti è stato più coerente: ha fatto un vero e proprio TEC , che si è aggiunto a tutti quelli fatti precedentemente  da ventanni di berlusconismo,  all’Italia danneggiandone il corpo sociale ed economico. Vendola aspirerebbe  a produrre dei danni a parte quelli che ha perpetrato nei confronti della regione Puglia ( vedi la connivenza con il S.Raffaele di Milano solo per dirne una).

Il risultato è stato un disorientamento generalizzato, una perdita di memoria a breve ed a lungo termine,  come nell’elettroshock,  che ha consentito una parziale affermazione di Berlusconi, al di là di conclamate menzogne e promesse non mantenute. La protesta del movimento 5stelle appare inoltre , nella fase attuale estremamente confusa, priva di una progettualità politica concreta : nella sua inconsitenza , per non dire teatralità manierata si esprime un vuoto mentale, un deficit  che è un sintomo negativo cioè  il frutto  residuale di tutte le terapie indaguate  e quindi traumatiche , praticate dalla politica nei confronti della malattia del sistema Italia.

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Arte, Psichiatria

Dialogo sull’arte. Domenico Fargnoli e Simona Maggiorelli (dal libro Arte senza memoria . 2007)

man-ray

Man Ray. Observatory Time: The Lovers, 1936

Dialogo sull’arte

di Domenico Fargnoli

(con la collaborazione di Simona Maggiorelli)

L’opera La perla fra le labbra, con la novità di immagine e di contenuto che essa propone, dovuta anche alla ricerca psichiatrica che la sostiene, invita a una riflessione sui risultati raggiunti fin qui dalla videoarte e, soprattutto, spinge a interrogarsi sugli scenari futuri di questo tipo di arte che – nonostante il rapido sviluppo delle tecnologie – appaiono ancora creativamente poco esplorati. Lasciandosi alle spalle il ciarpame surrealista, freudiano, e non solo. Ma il portato di novità di questa realizzazione artistica impone anche una rilettura della storia dell’arte del secolo scorso, nonché di quello attuale. Un lavoro di rilettura e, direi quasi, di riscrittura della storia ancora tutto da svolgere e che potrebbe cambiare di molto la statura e l’importanza data a certi artisti e movimenti nell’ambito della tradizionale scansione dei manuali. L’occasione della mostra dello psichiatra Domenico Fargnoli alla Leopolda di Pisa e la presentazione di questa opera originale offre l’occasione preziosa per cominciare ad avventurarci su questa strada.

In questo caso allora, cominciamo proprio dal principio, domandando all’autore: dove affondano le radici della videoarte?

La videoarte in senso stretto si pensa nasca intorno alla fine degli anni Cinquanta, inizio anni Sessanta, periodo nel quale comincia peraltro l’affermazione del mezzo televisivo. Nel 1952, bisogna ricordare, era stato presentato in Italia il Manifesto per il movimento spaziale della televisione ispirato dalle concezioni di Luigi Fontana in cui si affermava: «Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate sui concetti dello spazio. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti». Fontana, mi pare, era quello che aveva detto anche che si sarebbe potuto dipingere con la luce…»1.

Ma l’introduzione del “portapack” della Sony, uno dei primi strumenti portatili di videoregistrazione, è quasi contemporanea al gesto di Douglas Davis di girare i televisori contro il muro e quello di Nam June Paik di schermare i monitors e di distorcere l’emissione luminosa. Era il linguaggio televisivo nei suoi aspetti suadenti e massificanti a venire attaccato dai primi videoartisti.

Va detto, comunque, che il termine videoarte è piuttosto generico in quanto viene utilizzato per designare una serie di pratiche molto diverse, come le videoinstallazioni, la pittura digitale, le videosculture, i videoclips musicali o non, il videoteatro, la videodanza. A queste pratiche corrispondono storie e concezioni estetiche diverse. La videoarte è magmatica e sfuggente anche perché in continua evoluzione.

è chiaro però che, accettando di mantenere il discorso in termini generali, non si può eludere il nesso esistente fra ciò che storicamente è stato definito cinema d’avanguardia, cinema d’artista o cinema sperimentale degli anni Venti e la videoarte attuale, comunque la si voglia connotare. Quando dico cinema sperimentale io penso a Duchamp, a Man Ray, al dadaismo, al surrealismo.

È stato Duchamp ad avere le prime intuizioni riguardo alle potenzialità di un uso artistico della tecnologia?

Direi che il problema del rapporto fra tecnologia ed arte si era posto molto prima, al tempo dell’invenzione dei primi dagherrotipi, della fotografia e nel 1895 del cinema da parte dei Fratelli Lumiére. Non si può trascurare il fatto che fotografia, cinema e televisione rappresentano una rivoluzione radicale nella comunicazione visiva. I primi fotografi spesso erano anche pittori. In particolare l’incontro fra artisti e cinema nell’ambito delle prime avanguardie ha determinato la nascita di nuove estetiche. Richter, Duchamp, Man Ray esaltano a parole il cinema come immagine mobile, immagine protagonista in contrapposizione alla fissità della scena teatrale. Quando dopo il 1945 molti artisti visivi si sono rivolti al cinema, le opere realizzate in Francia ed in Germania dai dadaisti e surrealisti sono diventate un punto di riferimento.

Personalmente più che di Marcel Duchamp, ho compiuto un’opera di rivisitazione di Man Ray. Mi interessa di più il suo lavoro rispetto a quello di Duchamp.

Trovo quest’ultimo molto ideologico per non dire religioso nel suo tentativo di volerci imporre oggetti comuni come opere d’arte2. Nel suo credo artistico un orinatoio è una fontana. L’escamotage è tutto nel titolo dell’opera. L’aspetto verbale concettuale prende il sopravvento sull’immagine3. Man Ray mi sembra meno violento. è un pittore sicuramente non eccezionale, un fotografo che ha avuto trovate originali ed è anche cineasta avendo realizzato dei cortometraggi, come Il ritorno alla ragione, nel 1923 e Emak Bakia di poco successivo. Ho avuto modo di andare a vedere nel dettaglio queste opere che, devo confessare, mi hanno suscitato una certa curiosità.

Analizzandole, però, ci si accorge che la struttura è quasi sempre la stessa: si parte da un movimento caotico di oggetti, quasi un moto browniano di particelle. Il tema è il caso, la poetica del casuale, tipica dei dadaisti e surrealisti. Poi però, ne Il ritorno alla ragione compare una figura di donna che ha dei movimenti che corrispondono a quello che oggi si chiama loop, ripetizione di una sequenza anche invertendo l’ordine temporale. Quindi Man Ray, pur partendo da movimenti casuali e da riprese che non sono figurative in senso stretto, poi deve ritornare per forza a un nudo di donna, ad una figura che, citata in quel modo, forse anche in virtù della sua implicita seduttività però, indica proprio il ritorno alla ragione annunciato nel titolo. Ragione inscindibile dalla percezione cosciente e definita. Dopo la partenza iniziale, più informale, che lasciava presagire qualcosa di ignoto, si ritorna a ciò che è noto e conosciuto e suscita reazioni prevedibili. Tutto questo io lo leggo come un fallimento, un ritorno allo stato precedente dopo un tentativo, se vogliamo essere generosi, di accedere ad una dimensione che potrebbe essere irrazionale.

Del film Emak Bakia la critica ha spesso parlato come del film più rivoluzionario di Man Ray, quello più aderente alla proposta dada e surrealista. Vi si riscontrano elementi di originalità?

Nel film Emak Bakia, in realtà, si ritrova un modo di composizione assai simile a quello di Retour à la raison. Man Ray parte quasi dalle medesime immagini. Poi compaiono automobili e donne platinate bellissime. Emerge l’identità di fotografo di Man Ray, simile a quella che potrebbe avere oggi un fotografo di Vogue, di riviste di moda. Ecco il punto: da una parte Man Ray opera una sorta di decostruzione dell’immagine figurativa, dall’altra ricorre ad immagini fotografiche fredde, estetizzanti e seduttive in senso deteriore. è da notare anche il fatto che in Emak Bakia compare la figura del dandy Jacques Rigaut che teorizzò, a vent’anni, la libertà di suicidarsi e poi lo fece davvero a trenta. Man Ray, nella sua autobiografia, descrive così Jacques Rigaut: «[…] Rigaut era il più bello ed elegante del gruppo – una personificazione del dandy francese, così come me l’ero immaginato – benchè le labbra avessero una piega amara. Negli anni seguenti diventammo molto amici; insieme abbiamo organizzato molte scappatelle, finché un giorno appresi che si era suicidiato. Non lasciò nessuna spiegazione»4. Man Ray, che peraltro nel 1917 pensò molto seriamente al suicidio, si sbaglia perchè Rigaut la spiegazione la diede in più occasioni, e i suoi scritti stanno a dimostrare la sua aderenza totale alle ideologie dadaiste, in un certo senso specchio del successivo esistenzialismo di Sartre e del nichilismo in più larga scala. Pierre Drieu la Rochelle, grande amico di Rigaut, alla morte di questi pubblicò Fuoco fatuo, una sorta di dura biografia di Jacques Rigaut (dal romanzo Louis Malle ha tratto il film omonimo, quasi irreperibile in Italia) e Addio a Gonzague, un discorso funebre, quasi una confessione, in memoria dell’amico suicida…

Bisogna ribadire che l’essenza del dandismo consiste nel narcisismo delle sfumature fino a sfociare nel manierismo e nell’anaffettività più assoluta. La vestizione per Rigaut era un rito all’interno del quale la cravatta assumeva l’importanza centrale proprio perché il suo significato era pressoché nullo.

È stato detto che l’artista dadaista prima e surrealista poi ha una tensione verso la morte: Rigaut (come del resto fece anche Jung) dormiva con una rivoltella sotto il cuscino.5 Il suicidio è l’atto attraverso il quale il dandy vuole appropriarsi definitivamente della morte, riprendere in mano la propria esistenza recuperando la propria libertà…

… viene in mente il caso Ellen West di Binswanger e l’affermazione dello psichiatra svizzero che il suicidio della paziente era una festa… un atto di libertà…

Nel filmato Emak Bakas compare anche un’altra figura storica del surrealismo, Kiki de Montparnasse, era una spogliarellista, amante dell’artista americano e fu ritratta da lui nella famosa fotografia Le violon d’Ingres.

A trent’anni Alice Rin, il vero nome di Kiki, è distrutta; a cinquanta diventata enorme e muore per emorragia cerebrale dopo vicende di droga e carcere.

Kiki è stata un’icona, se pensiamo, appunto, alla celebre immagine in cui è ritratta di spalle con le chiavi di violino disegnate sulla schiena. Ma in certo senso una musa passiva, decorativa…

Nell’ Autoritratto di Man Ray c’è un passaggio in cui sembra trasparire anche un mal celato senso di colpa… musa passiva ma in quanto donna anche oggetto di una sottile violenza.

C’è un particolare interessante: Kiki compare nel filmato ad occhi aperti. Poi, però, si nota che sono occhi dipinti sulle palpebre chiuse. C’è un allusione al vedere, ma tenendo gli occhi chiusi. In un certo senso, se vogliamo usare una terminologia più psichiatrica, è un annullamento. Annullamento di chi l’ha ripresa in questo modo?

Questo tipo di approfondimento compare anche nel forum che ha preso vita sul sito dell’associazione Senza ragione?

Sì, addirittura nel forum c’era una brano che mi aveva ispirato la ricerca su Man Ray:

L’uomo nuovo dipinge con la mente

ma il suo non è un sogno faustiano

che condanna l’arte al ritorno della ragione(…)

Oltre a questo nel mio intervento nel forum ho cercato di dire che in realtà sia Man Ray che Duchamp, sia poi anche René Clair, si limitarono a introdurre delle trovate non rimanendo estranei ad un atteggiamento “goliardico”. Per goliardico intendo una ribellione fine a se stessa non esente da una certa fatuità.

In un certo senso il cinema sperimentale surrealista e dada cercava di opporsi al modo narrativo del cinema commerciale, perché sarebbe stato una gesto meramente goliardico ?

Basta pensare a film come Entr’actein cui René Clair pratica un umorismo all’insegna dell’assurdo e dello sberleffo. Emblematica la sequenza del funerale nella quale il barcollante carro funebre è trascinato da un cammello a vertiginosa velocità. Il carro funebre attraversa le montagne russe di Magic City trasformandosi in un ottovolante, prima di arrivare al cimitero. Dietro il carro un gruppo di persone cerca di seguirlo, ma solo un paralitico riesce a tenere il passo. Alla fine il carro funebre si rovescia; cadendo la bara si apre, ne esce un prestigiatore con un costume splendido, coperto di medaglie, che dopo aver fatto sparire con la sua bacchetta magica il paralitico e gli altri che lo hanno raggiunto, fa sparire se stesso. Nel 1924, Francis Picabia e Erik Satie misero in scena il loro balletto Relâche, durante il quale venne proiettato Entr’acte (alla lettera “intervallo/intermezzo”). Lo spettacolo, poi ripreso dalla Compagnia dei Balletti Svedesi di Rolf de Maré per il Théatre des Champs Elysées, cominciava con la proiezione di un breve prologo di pantomima nel quale Picabia e Satie, ripresi a rallentatore, saltellavano sulla scena per sparare un colpo di cannone contro lo schermo e il pubblico. Il cortometraggio di Clair mette insieme situazioni che fanno il verso ora al cinema astratto ora a quello delle comiche, legate tra loro da nessi analogici e casuali: una ballerina ripresa dal basso (che in realtà è un signore barbuto), una partita a scacchi bruscamente interrotta, cacciatori che si sparano tra loro, un carro funebre trainato dal dromedario di un parco giochi, un ottovolante e un prestigiatore che esce da una bara.
Per evitare la totale confusione dell’insieme Clair attraverso un montaggio veloce e accurato riesce comunque a omogeneizzare e amalgamare il tutto. Per fare questo si avvale di numerosi espedienti tecnici: dissolvenze, movimenti di macchina continui (carrelli vertiginosi e panoramiche) e alternando campi, piani e soggettive. Picabia era solito dire che Entr’acte era un film che riproduceva perfettamente i nostri sogni più nascosti e gli eventi non materializzati che si creano nella nostra mente: «Perché raccontare quello che tutti vedono o che si può vedere ogni giorno?».

Ecco personalmente pur riconoscendo al film un valore formale e tecnico in senso stretto, dubito che i nostri sogni più nascosti siano analoghi alle scene di Entr’acte e trovo molti accostamenti volutamente casuali come il cammello che tira il carro funebre. L’atmosfera di assurdità, l’umorismo, sono il risultato di un procedimento intellettualistico poco spontaneo e molto attento ad “épater les bourgeois”. I dadaisti e i surrealisti avevano concepito un’arte fondata sul frammento, lo schock, la sorpresa: il cinema porta a compimento le loro intuizioni. Le inquadrature colpiscono lo spettatore con la stessa rapidità di uno schock, ciò ha conseguenze rilevanti sulla struttura psichica. Ogni sguardo gettato sullo schermo diviene simile ad un microtrauma che vorrebbe eludere la forza assimilatrice della coscienza ed arrivare all’inconscio. Se l’intera esperienza della visione assume sempre più un carattere traumatico Il mondo intero diventa enigmatico e sfuggente. È il carattere dell’allucinazione non del sogno. L’allucinazione è un fenomeno cosciente non inconscio com’ è scritto nei testi classici della psichiatria. Pertanto ritengo un po’ fatua (per non usare l’aggettivo “goliardico” che potrebbe determinare uno schock) e non innocua una poetica che si risolve in una provocazione fine a se stessa, magari non grossolana come quelle di Marinetti, ma sempre più spostata sull’effetto che sul contenuto. In questo film mi pare compaia Duchamp, giocatore di scacchi quasi a tempo pieno (forse per avvicinare l’inconscio?) e, mi pare, anche Man Ray.

È istruttivo quello che quest’ultimo racconta, per esempio nella sua autobiografia, a proposito di com’è diventato cineasta. Egli comprò per curiosità una cinepresa e la tenne da una parte per un certo tempo. Ad un certo punto un suo amico organizzò una serata in cui lui compariva come cineasta. L’americano corse allora a comprare pochi metri di pellicola, li condì con sale e pepe, l’impressionò con l’aiuto di chiodi ed aggeggi vari e poi, senza neppure sapere il risultato, si presentò alla proiezione della prima. Nessuno si accorse della brevità del film perché durante lo spettacolo ad un certo punto esso fu interrotto per una rissa scoppiata tra i dadaisti presenti ed il resto del pubblico!6

Per me in questa particolare forma d’estemporaneità del gesto artistico c’è un elemento di dissociazione. L’estemporaneità, l’improvvisazione le ritroviamo negli atteggiamenti e nelle problematiche dei surrealisti che in nome dell’automatismo mentale proponevano pratiche artistiche che sfociavano in risultati assurdi. Basta dire che i surrealisti, da un lato, si dicevano comunisti, dall’altro si rifacevano a Freud e in più valorizzavano la follia come elemento di creatività. L’irrazionalismo per loro s’identificava con il mondo della pazzia, da cui poi nasce tutto un movimento d’avvicinamento all’art brut di Dubuffet, con tutti i problemi che essa poi ha creato. Esaltando la pazzia, quella vera, i surrealisti attaccavano la propria creatività, la propria fantasia.

A questo tipo di percorso è assimilabile anche il Chien andalou, girato nel 1928 da Luis Buñuel ?

Il film di Buñuel mi sembra avere, per certi aspetti, una qualità diversa. Il regista spagnolo fa un percorso che forse andrebbe analizzato separatamente. L’opera in questione, a cui collaborò anche Salvador Dalì, è caratterizzata dal fatto di non avere una trama in quanto avrebbe voluto essere una visualizzazione di processi inconsci, di associazioni mentali, di immagini oniriche assemblate casualmente con un effetto di schock sullo spettatore. Si tratta sicuramente di un’opera di grande interesse: però il punto da discutere è l’adesione esplicita di Buñuel alla poetica surrealista che fa riferimento a Freud oltre che a Marx. Come questi due ultimi autori possano essere messi insieme è veramente, per me, un rompicapo senza soluzione. Dico questo perché noi non possiamo considerare solo gli aspetti formali ma anche i contenuti ed eventualmente la dialettica o la dissociazione fra forma e contenuto. Naturalmente non pretendo di esprimere un giudizio di valore, che da un punto di vista storico non avrebbe senso, ma segnalo semplicemente una differenza nel modo di concepire l’arte e l’immagine. Anche se mi lascia perplesso il fatto che l’attore protagonista Pierre Batcheff si suicidò pochi mesi dopo la fine delle riprese.7 A parte questo va sottolineato che il riferimento alla concezione freudiana non è esente da rischi perché implica la confusione sistematica, ancora una volta, fra sogno ed allucinazione. L’allucinazione, in psichiatria, è un fenomeno cosciente mentre il sogno no. Ciò che ci viene allora presentato come immagine onirica ed inconscia potrebbe essere invece l’assemblaggio di scene, in base ad un criterio e ad una simbologia precostituita (come il taglio dell’occhio) “come se” provenissero dall’inconscio. Il “come se” è rivelatore di una strategia creativa molto cosciente che persegue un obiettivo ben preciso che è quello di sconcertare ed impressionare lo spettatore. Qui possiamo dire che le libere “dissociazioni” potrebbero essere molto perturbanti.

A mio avviso, comunque, la videoarte attuale non si riferisce tanto a Buñuel o a René Clair quanto a Duchamp e soprattutto a Man Ray. Proprio perché spesso essa non ha una complessità simbolica ma è il risultato di un sovrapporsi intellettualistico di geometrie, un alternarsi di effetti ottici molto elaborati e spesso fini a se stessi senza uno spessore semantico.

La critica all’aspetto estetizzante di certa videoarte, al suo vuoto formalismo, è doverosa. Così come, d’altro canto, alla videoarte che sulla scia delle performance mediatiche della body art tende a parcellizzare il racconto visivo appiattendosi ossessivamente su dettagli di cronaca fisica, amplificati e proiettati in gigantografia. Penso, per esempio, a tutta la videoarte derivata dalle performances estreme di Rudolf Schwarzkogler per arrivare poi, attraverso Luigi Ontani, Gina Pane, e molti altri, alla videoarte degli ultimi anni, ben esemplificate nel loro orizzonte ripetitivo da una mostra come In to me/Out of me8 prodotta dal Moma di New York e che poi è stata ospitata in alcuni dei maggiori musei d’Europa. Vedendo lo spettacolo La perla fra le labbra, però, appare chiaro che nel vostro lavoro non vi siete limitati a svolgere una critica astratta a tutto questo, non vi siete accontentati della pars destruens del discorso. È misurandovi concretamente con la pratica artistica che siete approdati a una critica così serrata delle radici surrealiste della videoarte e a mettere a punto una vostra proposta, completamente originale?

Questo discorso non nasce solo da considerazioni storiche. Nasce dal fatto che nel corso dell’elaborazione dello spettacolo La perla tra le labbra era stata suggerita l’idea di riprendere il loop finale del filmato di Man Ray per alludere ad una realtà mentale vuota, senza senso. Al videoartista con il quale avrei dovuto collaborare era piaciuta questa proposta. Lui sosteneva che tutta la videoarte nasce con Man Ray, che sarebbe stato anche l’inventore dei videoclips. In quest’ultima affermazione ho avvertito un campanello d’allarme. Tanto che poi i rapporti con questa persona si sono interrotti. E così ho girato un loop completamente diverso. Solo apparentemente ripetitivo: di fatto, nei contenuti e nella forma, completamente diverso da quello in cui avevamo inserito le sequenze di Retour à la raison.

Dalla ricostruzione di quel periodo e dall’analisi del lavoro di Man Ray, andando più a fondo, emergeva una serie di aspetti da rifiutare: oltre all’ambiguità del dandy, oltre ai travestimenti di Duchamp, diventava evidente l’anaffettività e, a tratti, la fatuità dell’americano. Tutto questo non mi corrispondeva.

Che si lascia intendere anche da celebri ritratti en travesti. Il più celebre, forse, è quello scattato dallo stesso Man Ray e in cui Duchamp appare come Rose Sélavy9. In questo contesto, di indifferenza, di travestismo, di fatuità, anche l’arte che vi si produce finisce per risentirne e per avere queste stesse connotazioni di scarsa o nulla creatività?

Di più, direi che quella di Duchamp e Man Ray è un tipo di arte che distrugge le persone. La poetica dadaista e surrealista, così traumatofilica, anche se non sempre apertamente, ha un legame diretto con le prime produzioni dei videoartisti negli anni Sessanta e Settanta. Le performances, in quel periodo, erano altamente spettacolari, ma con dei contenuti spesso masochistici. L’obiettivo era prevalentemente scioccare lo spettatore…

Ecco nel forum di Senza ragione ad un certo punto si è sviluppata proprio questa discussione. Il tema era: un’arte che si nutre della sofferenza e della morte altrui può essere considerata tale?

Andy Warhol, tanto per fare un nome, è un esempio perfetto di “disumanità” dell’artista: basta analizzare tutta la storia della collaborazione “vampiristica”, ispirata dalla tecnica del cadavre exquis del surrealismo, con Basquiat e Clemente. Storia finita tragicamente con la morte per overdose di Basquiat dopo quella di Wahrol.10

La pop art è un caso evidente di riproduzione meccanica dell’esistente, di esaltazione del mondo delle merci, di rappresentazione delle persone come oggetti. Vedi le varie Marilyn e Liz Taylor raffigurate con la stessa immobilità e lo stesso stile con cui si rappresenta una scatola di zuppa Campbell’s. Nelle opere di Warhol appare chiara questa violenza e la totale assenza di creatività. Anche se, curiosamente, una larga parte di critica, anche quella engagé 11, di sinistra, continua a celebrarla…

Assenza di creatività, ma anche totale anaffettività nei rapporti, basta vedere la storia del giovane Paul America12. Quella di Wahrol è la poetica del vuoto, dell’annullamento che io vedo in perfetta continuità con i dadaisti ed il ready made: in lui c’è più questa volontà di umiliare l’artista cancellando dai disegni, dai dipinti ogni traccia del “fatto a mano”. Il ready made si contrappone all’hand made. La creatività della mano viene occultata, fatta sparire attraverso l’esposizione reiterata di un infinità di oggetti di consumo, anonimi, senza significato. Non c’è più differenza fra artista e consumatore, imprenditore.13

È la “povertà”cristiana dello spirito, l’azzeramento della soggettività e del pensiero: l’artista sa di essere un nulla così come un nulla è il consumatore.

Tutti siamo un nulla di fronte a Dio: la pop art mentre allude alla società tecnologica, schizofrenicamente, ripropone una concezione medioevale dell’uomo.

Ma non possiamo dimenticare che nelle avanguardie di inizio Novecento, compresi i futuristi, ci fu un tentativo nuovo, anche se forse da subito fallito, di mettere insieme sperimentazione figurativa, cinematografica e teatrale. Penso per esempio agli esperimenti con il dinamismo di Giacomo Balla, al tentativo di Severini con quadri come Dinamismo di una danzatrice di visualizzare le sensazioni della danza e le sue ripercussioni emotive sull’ambiente, ma anche al teatro e al cinema di Anton Giulio Bragaglia, che nel Manifesto Fotodinamismo futurista del 1913 stigmatizza i tentativi di rappresentare il movimento umano attraverso le tecniche  di “cronofotografia”14, come tentativi di una «precisa, meccanica, gelida riproduzione della realtà». Tentativi di fotodinamica ripresi, poi, anche da Boccioni in Materia, Valori orizzontali e altre opere. Insomma i futuristi erano arrivati a elaborazioni, almeno apparentemente, originali. Ma alla luce di quanto abbiamo detto finora possiamo riconoscere un valore a queste prime ricerche sulle immagini in movimento?

Le poetiche futuriste senz’altro sono state importanti per l’influenza e la risonanza che esse hanno avuto in campo internazionale. Il futurismo è un fenomeno molto complesso con numerose sfaccettature che non si possono esaurire con poche parole. Mi permetto comunque di dire che, a tutt’oggi, non capisco e non condivido, pur con tutte le attenuanti storiche, l’esaltazione della guerra e della violenza di Marinetti, il suo darwinismo sociale, il suo entusiasmo incondizionato per Nietzsche che traspare dalla sceneggiatura inedita di un suo film: Velocità.

Anche se il termine futurismo, che risale agli inizi del Novecento, apparteneva al linguaggio politico della sinistra hegeliana: si supponeva che l’avvento del futurismo svolgesse in campo artistico lo stesso ruolo del comunismo nascente nell’ambito del sociale. Questa matrice marxista, che ecletticamente si accostava ad un nazionalismo di derivazione risorgimentale, non impediva a Marinetti nel suo romanzo Mafarka il futurista di creare il mito di un alato superuomo meccanico: la macchina poteva liberare l’individuo dal determinismo della catena genetica e garantire l’irreversibilità nella storia. Anche se poi l’artista tiene nel 1909 una conferenza a Napoli dal titolo Necessità e bellezza della violenza in cui afferma: «Solo attraverso la violenza possiamo far emergere la nozione di giustizia compromessa per il futuro, non verso la fatale accezione del passato, quella della legge del più adatto, ma nuovamente all’igienica salutare legge del più coraggioso e del più altruista, e cioè alla nozione di eroismo».15 In questo ultimo passaggio l’autore è addirittura freudiano ante litteram teorizzando la violenza-sadismo come motore della storia senza rendersi conto che nell’atto violento è connaturata la coazione a ripetere ed il ritorno allo stato precedente…

Quanto a Giacomo Balla, egli contribuì alla realizzazione del film Vita futurista che è un insieme di gags, di trovate, per lo più nate dall’improvvisazione, che intendevano provocare violente reazioni negli spettatori. Egli era inoltre interessato a dare all’immagine pittorica una configurazione quasi fotografica che ricostruiva il divenire della forma nello spazio.

Noi, oggi, aprendo al massimo l’obiettivo della telecamera digitale, possiamo ottenere effetti simili a quelli contenuti nel quadro Dinamismo di una cane al guinzaglio del 1912… simile anche se diverso ovviamente, nel soggetto, da “Nudo che scende le scale” di Duchamp. Nei miei primi video ho usato sistematicamente questo procedimento noto come slow-shutter…

Bragaglia ebbe un rapporto piuttosto ambivalente con il cinema al quale, intorno al 1916, cominciò a dedicarsi dopo un periodo di iniziale disprezzo. Di lui ci rimane Thais, del 1917, che è la storia di una femme fatale la quale alla fine s’innamora e si suicida dopo il suicidio della rivale… un drammone! Forse l’aspetto futurista è nei costumi geometrizzanti della protagonista che creano un movimento di figure che rimanda alla pittura. Quando Thais decide di uccidersi, appare in una scenografia prospettica fatta di quadrati inseriti gli uni negli altri e poi di rettangoli. Le pareti trasudano fumi e nebbie da cui traspaiono gufi, gatti, simboli egizi, la bocca della verità…!!!16

È difficile quindi trovare un nesso fra le mie immagini e quelle di Bragaglia.

Comunque egli proponeva un qualcosa che mi è congeniale e che si vede anche nei miei video: una scenografia come spazio pittoricamente progettato credo nel caso specifico da Enrico Prampolini, anticipando Il Gabinetto del dottor Calligari (1920) di area espressionista e L’Hinumaine (1924) di Marcel Herbier realizzato in collaborazione con l’architetto Maller-Stevens ed il pittore Fernand Léger. L’intenzione, in questi film citati, era quella di artisticizzare il cinema togliendolo dall’ambito della mera stupefazione percettiva e della meraviglia.

Però, per quello che posso aver letto e per quello che dicono gli storici, il rapporto del futurismo con il cinema in senso stretto non si è sviluppato oltre un certo punto. Anche se dobbiamo in generale presupporre un’assimilazione dell’esperienza visiva cinematografica presente nella ricerca degli effetti spettacolari e sbalorditivi, nella manipolazione dello spazio e del tempo. Il cinema però, più che come arte, è visto come strumento di dissoluzione dell’arte nel tumulto dell’azione, come documentazione del gesto futurista. Anche se qualche critico un po’ malevolo ha detto che la poetica di Marinetti della simultaneità delle azioni era visibile nel peggior film americano. Ed anche molto rozzo mi pare il tentativo di realizzare effetti di musica cromatica da parte di Arnaldo Ginna e Bruno Corra che stendevano i colori direttamente nella pellicola. Sarebbe stato meglio il sale ed il pepe di Man Ray? A me del futurismo interessa comunque di più un altro aspetto: quello di essere stato un coacervo di tendenze apparentemente inconciliabili. Mi spiego. Tutti sanno che c’è stata una costola fascista del futurismo, quando appunto esso dette appoggio al governo messo in crisi dall’assassinio Matteotti nel 1924, come una costola che si è innestata nella corrente rivoluzionaria del comunismo.

Nel 1920, al terzo congresso dell’Internazionale socialista, Marinetti fu definito un “intellettuale rivoluzionario”. Anche Gramsci scrisse di Marinetti e del ruolo vitale di protesta innovativa rappresentato dal futurismo nella società borghese. La rivista gramsciana Ordine nuovo organizzò un’esposizione internazionale futurista.

In Russia, Malevitch e, credo, anche Majakovsky subirono l’influenza delle poetiche cubofuturiste.

Sì, anche se va detto che accolsero, per usare un eufemismo, in modo assai tiepido Marinetti. Proprio Majakovsky organizzò un’accoglienza decisamente ostile al leader futurista italiano che arrivò a Mosca nel 1914.

Certo Marinetti aveva proclamato la guerra «sola igiene del mondo» e «collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo», mentre il poeta russo dichiarava il suo «schifo e odio per la guerra».

Resta il fatto che due ideologie apparentemente opposte si riconobbero ad un certo punto nella poetica futurista. Anche se i fascisti ebbero spesso non pochi moti di rigetto, frenati dall’amicizia di Marinetti per Mussolini, dall’adesione alla guerra di Etiopia.

Nel futurismo, potremmo chiederci, ci fu una prefigurazione della babele delle lingue e della sovrapposizione delle ideologie tipica del 68?17 Ed allora, mi domando, la confluenza nel fascismo di Marinetti fu l’aborto di una iniziale intuizione oppure, fin dall’inizio, c’era una negazione dell’umano che rese possibili questi salti dall’una e l’altra parte? C’era un annullamento di quell’identità umana, di quella nascita che non appartiene al dominio della ragione e della coscienza?

Senza il riferimento a questa identità non cosciente, le parole e le azioni artistiche si svuotano di significato e diventano slogan mentre i gesti di ribellione sono solo velleitarismo rivoluzionario.

Inoltre, i futuristi, come i dadaisti, avevano l’idea di fare tabula rasa dell’arte del passato. Erano ossessionati dall’imperativo dell’originalità. Non volevano accordarsi in nessun modo alla tradizione precedente. Però io sono d’accordo con Luc Ferry quando, nel suo libro Homo Aestethicus, afferma che la volontà intransigente di rompere con la tradizione e creare un nuovo radicale, rimane impigliata in una contraddizione molto difficile da risolvere.

Scrive Ferry:

«Letteralmente obnubilato dalla sua consapevolezza storica, dall’imperativo d’una originalità da affermare di fronte alla storia dell’arte, l’artista cessa di essere un “genio” un creatore libero ed inconsapevole. Sempre costretto a confrontarsi con il dovere dell’originalità egli deve sempre integrare nella sua opera una riflessione sulla tradizione che rischia di portarlo a privilegiare la coscienza sull’inconscio, il controllo sulla libertà geniale; la sua opera diventa una metaopera, la sua riflessione estetica una metaestetica».18

Mi sembra che questo discorso sia fatto apposta per i futuristi e per i dadaisti.

L’irrazionale ridiventa razionale forse perché, come dicevo, ci si era illusi di aver trovato quella libertà di agire e di creare che nasce nel rapporto con una dimensione non cosciente. Ma spesso la coscienza è una falsa coscienza e l’irrazionale solo una razionalità mascherata…

Qui vorrei aggiungere che quello delle avanguardie è stato un tipo d’arte che non solo ha allontanato l’inconscio mentre sembrava valorizzarlo, ma ha portato ad atteggiamenti sempre più razionali.

Bisogna ricordare che quella che avrebbe potuto essere, almeno nelle intenzioni, una ricerca su una realtà non cosciente, fu stroncata intorno agli anni Venti anche dalla teoria freudiana dell’istinto di morte, che decretava che nell’uomo era ineluttabile la coazione a ripetere, il ritorno allo stato precedente, alla quiete del narcisismo senza stimoli, sotto l’egida del principio del piacere.

Come dire che i futuristi perdevano tempo con la loro enfasi, con le innovazioni, con l’anticlassicismo e con gli slogan secondo i quali un’automobile era più bella della Battaglia di Samotracia: tanto tutto sarebbe tornato come prima. Ed in effetti Malevitch dopo la fase astratta, suprematista, tornò al figurativo, a dipingere le contadine che falciavano il grano nei campi. Il pensiero-azione, di derivazione mazziniana, di Marinetti, pensiero-azione che avrebbe dovuto portare alla libertà ed alla rivoluzione del proletariato, lo fece finire sotto lo stivale di Mussolini.

Se Freud, intorno agli anni venti, che costituiscono un vero punto di svolta nella storia del Novecento, fu malefico, Jaspers, in quello stesso periodo, non fu da meno: nel 1919 pubblicò Psicologia delle visioni del mondo19, primo testo esistenzialista, in cui crolla ogni distinzione tra malattia e salute, perché centrale diventa il rapporto tra l’individuo e il suo mondo. Le manifestazioni psicologiche non sono più ricondotte alle loro cause né comprese attraverso l’Einfühlung, il sentire empatico, come avveniva nella Psicopatologia generale, ma esaminate in quanto rivelatrici dei modi essenziali in cui un’esistenza riceve, trasforma, si progetta nel mondo. La malattia non è più malattia ma una forma di esistenza particolare da descrivere con precisione ornitologica.

Proprio negli anni Venti, quando il futurismo imbocca una strada senza sfondo, prende corpo un’operazione molto singolare: si comincia a valorizzare la regressione che si attua nelle più gravi malattie mentali come stimolo, mezzo per arrivare ad una creatività eccezionale. Se con Jackson, Janet e Freud regressione era tout court sinonimo di allucinazione, delirio o, nel quadro protetto del sonno, dissociazione onirica, a partire da un certo momento la regressione psicotica fu considerata come un possibile accesso a capacità personali fino a quel momento misconosciute dal soggetto.

Nel 192120 Morgenthaler, psichiatra svizzero, fa spesso riferimento, in una sua celebre monografia, a Jaspers, per avvalorare la sua convinzione secondo la quale Adolf Wolfi, schizofrenico pedofilo, è un artista di prima grandezza. Jaspers, rispetto a Van Gogh, sosterrà tesi analoghe sbagliando anche diagnosi… Scrive il medico svizzero: «Talvolta in Wolfi, la forma emerge in maniera straordinariamente chiara. Il processo morboso ha dissotterrato in lui una struttura meravigliosa. Si tratta di una parte di quella struttura all’interno della quale Raffaello dipinge la sua tenerissima Madonna ed Holder i suoi soldati più brutali. Wolfi riempe tali forme con un contenuto che ha costituito originariamente un’esperienza profonda; si tratta tuttavia di un’esperienza malata».21

Secondo Morghenthaler ci sarebbe stata una analogia fra le opere di Adolf e quelle del cubismo in base ad un comune geometrismo.

Qui, appunto, la scissione fra forma e contenuto è particolarmente evidente anche se non ci si rende conto che i risultati di tale dicotomia possono essere tragici. Da allora anche con l’aiuto di Prinzhorn, Jaspers (il suo saggio su Van Gogh è del 1922) e di artisti come Klee, Ernst, Breton, Dubuffet, si è data nuova vita ad una tradizione che sostiene si può essere artisti e pazzi.

Klee conosceva bene la collezione Prinzhorn quando formulò il suo credo creativo che comincia “L’arte non riproduce il visibile, rende visibile”. Questo principio indicava lo statuto speciale del primitivo, del bambino, del malato di mente, “una visione spirituale diretta”, dotata di eccezionale potere di espressione.

Però la visione originaria non è innocente, come pretendeva l’artista svizzero, ma semplicemente allucinatoria. Klee inventò sistemi fantastici che mescolavano forme di scrittura e disegno del tipo che Kraepelin designò come “macedonia d’immagini e di parole”. Ernst, da parte sua, nei primi collage, immaginò il corpo in forma quasi schizofrenica. Successivamente creò opere ispirate alle scene primarie freudiane, come “fantasie da trauma” con l’intento di desublimare l’arte: un ideale allucinatorio sembrava sotteso alla rappresentazione “schizofrenica”.

L’idea di una creatività della malattia mentale era il ritorno alla dottrina platonica dei furores, a Marsilio Ficino, a Schopenhauer, a Lombroso? A Freud? Si riproponeva comunque uno dei luoghi comuni della nostra cultura occidentale all’esame del quale Rudolf e Margor Wittkover hanno dedicato un ampio capitolo della loro famosa opera Nati sotto saturno. I due autori in questione scoraggiano però qualunque conclusione semplicistica: l’immagine dell’artista “pazzo” (dove pazzo può essere sinonimo di folle, stravagante, eccentrico e non necessariamente mentalmente sconvolto come Wolfi) sorta con il Rinascimento, quando gli artisti conquistarono un loro posto nella società ed ancora radicata nella mentalità comune, è composta di molti elementi eterogenei e non si poteva ridurre alla convinzione che il genio fosse malato di mente.22

Mentre ad un certo punto, sembra negli anni Venti, è venuto fuori che proprio il malato di mente, lo schizofrenico con eclatanti sintomi clinici, può essere un genio della portata di Raffaello.23

Non si tratta allora più allora della riproposizione di un luogo comune vecchio di secoli, genio e follia, ma di un vero e proprio slittamento di significato, un salto verso qualcosa di nuovo anche se inquietante.

Un’operazione culturale di lunga durata. Che per certi versi si potrebbe considerare attiva ancora oggi. Prima parlavamo della body art che propone happening, montaggi di sequenze fotografiche, perfomances, in cui la malattia mentale è esibita come unica condizione dell’umano. Da Orlan per arrivare alle ultime derivazioni di oggi dei superquotati Hirst e Quinn24 abbiamo assistito al dipanarsi di tutta una produzione artistica – se di arte si può parlare – in cui, come dice Lea Vergine, “le azioni risultano piene di spunti nietzschiani, espressionisti, esistenzialisti, sicché varie ideologie e metodi coesistono nell’ambito di questo fenomeno”. Ideologie e metodi, aggiungerei, spesso antinomici, che fanno coincidere le parole ricerca e rivolta con qualcosa di estremamente regressivo, distruttivo della creatività e della persona. Spesso con un tratto feticistico e religioso. Basta pensare a Luigi Ontani e al suo uso di tableaux-vivant, di autorappresentazione come San Sebastiano. E di ricerca del dolore, di esperienze crudeli con l’idea di far emergere l’inconscio. Un inconscio freudianamente pensato come perverso.

Un esempio particolarmente eclatante è proprio la cosiddetta body art, che si è avvalsa anche di documentazioni video: l’esibizione della malattia, non solo fisica ma anche psichica, diventa il tratto più evidente. Si ha a che fare con veri malati, anche organici, che in preda alla disperazione ed all’horror vacui si camuffano da artisti. Ed esiste tutto un apparato istituzionale che li valorizza e consente loro di tenere in piedi tale operazione. Credo che questo non sia altro che l’esito estremo di una deriva del pensiero a cui ha condotto la concezione esistenzialistica dell’uomo. L’allucinazione, in base a tale punto di vista, può diventare arte: e noi sappiamo che Wolfi era quasi sempre in preda ad allucinazioni che poi regolarmente dipingeva. Questa affermazione dell’allucinazione come arte non è un reperto archeologico: noi la ritroviamo ancor oggi in artisti che si rifanno alla tradizione futurista, dadaista o surrealista, i quali evidentemente ignorano completamente il fatto che l’allucinazione è assenza di pensiero, di immagine, di creatività per l’annullamento di ciò che non è coscienza. E non si concede alla parola allucinazione neppure un alone semantico di incertezza, come storicamente è accaduto per la parola pazzo: incertezza per la quale essa potrebbe essere visione interiore od illusione, quindi in qualche modo rapporto con la realtà.

Scriveva Dubuffet: «È solo il nichilismo ad essere costruttivo. Perché il nichilismo è l’unica via che conduce l’uomo a stabilirsi nella chimera. Viene definita chimera una posizione derivante da dati di cui almeno uno non sia reale. Vengono definiti reali i dati proposti ed enunciati dalla cultura. Vengono definiti irreali, aberranti, chimerici quelli che non figurano nella cultura. Da ciò deriva che soltanto la chimera può condurci extra muros e fornirci l’ossigeno rigenerante (…) la perforazione, l’apertura verso nuovi spazi nasce dalla chimera, che è la secrezione del nichilismo, il suo uovo».25

Una ribellione, quindi, alla cultura dominante basata sulla chimera, su di una irrealtà. Una ribellione basata sul nulla e non su di una realtà umana semplicemente diversa da quella che si vuole combattere.

Quello di Dubuffet è un discorso senza senso e, in quanto tale, violento.

Ora io credo che un’arte la quale propone un contenuto di violenza psichica di questa portata, violenza che in alcune circostanze diventa anche fisica, confonde, delude e contribuisce pesantemente a distruggere le persone. Il contributo è tanto maggiore quanto più il messaggio è veicolato da un cosiddetto genio che dovrebbe essere l’espressione di un’umanità superiore, diversa qualitativamente dalle persone normali.

Questo confronto con il passato fa emergere con ancora maggiore nettezza la radicale originalità del lavoro prodotto da Senza ragione. Anche nel modo di mettere insieme i differenti linguaggi e, in particolare, pittura e video. Forse a questo punto meriterebbe fare un accenno alla novità del Cubismo, di cui fin qui non abbiamo espressamente parlato. Nel 1907 le Demoiselles d’Avignon rappresentano una grande novità. Come valutare la grande svolta che nell’arte si compì tra Ottocento e inizi Novecento e che rapporto c’è fra il tuo percorso personale, originale, e il passato ? Picasso, in particolare, sperimentò ad ampio raggio con vari linguaggi, dalla pittura, al disegno, alla scultura, alle ceramiche. Appare anche in un film Le Mystère Picasso (1964) del regista francese Clouzot. Che significato ha avuto quell’esperimento?

Cézanne, Matisse, Picasso, Modigliani, Schiele, Klee, Mirò, solo per fare alcuni nomi, sono addirittura entrati nel nostro patrimonio genetico. Però questo è il punto: bisogna raggiungere un’identità personale che ti rende immune dalla paura di imitare. E ciò, io credo, può dipendere dal fatto di avere una propria immagine interna che ci consente comunque di creare immagini pur avendo presente e talora attingendo anche all’immaginario storico e collettivo. Tu parlavi di “radicale originalità”. Sicuramente non spetta a me dire se questo è vero o meno: sicuro è però che la mia formazione artistica non assomiglia a quella di nessun altro. Per i tempi, per i modi, dei quali ho parlato ampiamente in altri miei libri, anche se i contenuti li ho derivati dalla ricerca sulla realtà umana dell’Analisi collettiva (lascio aperto il problema, che ho ben presente, se ad una originalità della forma non debba corrispondere anche una sia pur minima originalità dei contenuti). Senza questo particolare iter terapeutico-formativo dell’Analisi collettiva non avrei mai raggiunto la mia attuale capacità di creare immagini e soprattutto di scrivere.

Però anche nei confronti dell’Analisi collettiva e di Massimo Fagioli, rispetto al quale nutro stima incondizionata e grande affetto, mi sento libero di essere quello che sono e di esprimermi artisticamente come meglio credo. Alcuni, direi pochissimi, ritengono che Fagioli abbia un atteggiamento totalitario e totalizzante. Per quello che mi riguarda niente è più falso. Ognuno è libero, soprattutto se sano, di impostare il rapporto con lui come meglio crede. Io, come dico nel mio testo teatrale, “ho cercato la distanza che mi rendesse più vicino.” Ho sempre perseguito una verità oltre ciò che appare, convincendomi progressivamente che il consenso e l’appoggio esplicito, l’investitura, alla lunga non serve a niente se uno non ha capacità proprie.

Certo, mi assumo la personale responsabilità di quello che faccio nella mia vita privata: se, in totale autonomia, propongo una realizzazione d’artista, che mi viene largamente riconosciuta, come sembra emergere dalla storia di questi ultimi nove anni e soprattutto negli ultimi tempi, non credo che nessuno possa contestarla od attaccarla in alcun modo per il fatto in se stesso. Salvo esprimere pareri e preferenze del tutto soggettive: il che è legittimo ed auspicabile.

E neanche temo di essere criticato se il mio essere artista cerco di metterlo in relazione al mio essere contemporaneamente ed inevitabilmente psichiatra.

Qualcuno mi ha chiesto se per me le arti figurative erano un hobby. Io ho risposto che il mio vero hobby, l’attività che mi dà maggiori soddisfazioni, la ricerca che più mi appaga, era la psichiatria. Come ho scritto, l’arte non è fuga, consolazione per “anime afflitte”. L’arte sconvolge il senso comune, soprattutto se non è un malato ma uno psichiatra che nella sua vita non ha niente di “strano” o di perverso, che la propone. Anche la mia in fondo è una “forma di esistenza”, anche se contraddice l’estetica esistenzialista.

Quindi, ritornando al confronto con la genialità di Picasso o con la “genialità” in generale, non ci può essere con essa un rapporto di dipendenza depressiva e neppure di idealizzazione. L’originalità e l’universalità della ricerca e delle scoperte altrui va riconosciuta, ma ciò non può impedirci di cercare, con i propri mezzi e possibilità, una strada autonoma che non può fare tabula rasa, come facevano i futuristi, di tutto ciò che ci ha preceduto e che magari ci accompagna tutt’ora. Tenere una posizione del genere è mentalmente molto difficile ma è l’unica strada per non cadere nella logica del giudizio che crea le gerarchie e blocca il movimento e la vitalità.

Tu mi chiedi di Clouzot: quando si tenta di coniugare il cinema con l’arte, specie con la pittura, si va nel biografismo, tipo i film su Pollock, su Ligabue, su Van Gogh, su Frida Khalo, eccetera, che raccontano la storia di pittori del presente o del passato; ma si tratta di opere che dicono poco dal punto di vista della ricerca artistica in se stessa. Sono interessanti come elaborazioni di vicende più o meno note. In questo senso, mi sembrava che il film Le Mystère Picasso di Clouzot fosse diverso perché escludeva l’aspetto biografico e cercava di fare un rapporto diretto fra la macchina da presa e il fare artistico. Con un problema, però: che Clouzot dirige Picasso e gli impone dei tempi e delle tematiche che forse non gli appartenevano… Voglio dire che non possiamo pensare che il grande Picasso sia quello che dipingeva satiri, che parlava delle corride o cercava di trasformare un pesce in un clown. Ad un certo punto si assiste al fatto che Clouzot, poiché aveva solo pochi metri di pellicola, chiede al pittore di fare qualcosa in 5 minuti: piega l’altro ad esigenze tecniche, cinematografiche.

Inverosimile mi sembra anche l’episodio in cui Picasso fallisce nel fare un quadro. Si vede benissimo che è una trovata. Un uomo con una creatività come la sua non è credibile in quella situazione. Nel film di Clouzot, insomma, c’è un tentativo di mettere insieme cinema e pittura che però fallisce sul fatto che c’è una sostanziale differenza di livello creativo fra il regista, Clouzot ed il suo personaggio.

A mio avviso Clouzot è una “mosca cocchiera”, ha preteso di dirigere Picasso come la mosca nell’orecchio di un cavallo, ma non era alla sua portata….E ritorna il discorso che facevamo prima: uno deve sapere esattamente ciò che può fare e ciò che non è capace di fare, ma soprattutto non può mettersi al posto di un altro. A mio avviso l’unico regista possibile della pittura di Picasso è Picasso medesimo. Per Clouzot la creatività del catalano rimane appunto un mistero: egli innesta nella psicologia dell’inventore del cubismo, la problematica del bene e del male, della morte e del fallimento che, secondo me, appartengono al regista. Questo è un atteggiamento violento, lesivo dell’immagine.

Mi domando perché Picasso abbia accettato di fare quel film.

Pare che sia stato Picasso a stimolare Clouzot, si conoscevano da vent’anni. Picasso aveva scritto anche tre o quattro piéces teatrali, di cui una Il desiderio preso per la coda non è assolutamente all’altezza della sua statura.

Recentemente è stato ripreso in un teatro a Roma. Curiosamente è un testo che continua ad avere una sua circolazione

È uno dei pezzi più deboli del suo fare arte. Sicuramente Picasso è stato un grandissimo artista, ma c’è anche tutta una parte del suo lavoro, quella teatrale o dei nani, dei satiri, dei minotauri o della favola di Frenhofer di cui sinceramente farei a meno.

Tornando al discorso sulle avanguardie storiche e sul loro sviluppo successivo: la poetica impostata dai surrealisti, dunque, sembra aver avuto effetti di lunghissima durata.

Certamente questo è il senso di quanto ho detto finora. Dalla nostra ricostruzione emergeva che, da un lato, c’era tutto un filone che attraverso Man Ray, Duchamp, Breton, eccetera, arriva fino a John Cage e ai videoartisti moderni, che non fanno che ripetere le poetiche dadaiste e surrealiste esasperandone gli aspetti negativi, facendo una spettacolarizzazione fine a se stessa, dall’altra c’è una ricerca come quella di Picasso, fuori da ogni scuola o regola, che senz’altro ha uno spessore umano completamente diverso. Con questa stranezza, però: che se prescindiamo un attimo dal fatto artistico ed andiamo a vedere gli aspetti personali vediamo che la vita di Picasso, come quella di Man Ray, è stata segnata dal suicidio. Nonostante non sia episodio molto noto, noi sappiamo da una annotazione nel Quaderno catalano che il pittore fece uso di droghe (oppio, zafferano, alcol, laudano) dalla primavera del 1906 a quella del 1908. Un uso interrotto bruscamente per il suicidio del pittore Wieghels, uno dei seguaci del circolo degli oppiomani, il 1 giugno 1908.26

Restano però differenze sostanziali fra Man Ray e Picasso, dal punto di vista dell’inventiva, della proposta artistica, della stessa biografia. Oppure no?

Certo, differenze sostanziali, anche se le vicende biografiche sembrano, per certi aspetti, avere dei punti di contatto.

Intorno a questa domanda, che tu mi poni, si è svolta una discussione nel forum di Senza ragione. In tale contesto veniva riportato come nel suo libro Mio nonno Picasso, la nipote Marina parla del pittore come di un mostro di insensibilità, di un genio che si è nutrito del sangue della sua famiglia, amanti, figli, nipoti, morti per alimentare la sua grandezza. Però l’autrice dopo averci raccontato di essere entrata in possesso dell’eredità e aver comprato quattro macchine, fra le quali un fuoristrada ed una Ferrari (anche se dice di non averla tenuta per molto), giunge verso la fine della sua opera (che tutto è fuorché “geniale”) ad una stupefacente conclusione: “Adesso [scrive] – ed è la ragione di questo libro – ho scoperto che siamo stati derubati. Avremmo potuto tranquillamente partecipare alla vita di nostro nonno, se l’irresponsabilità di un padre e di una madre, ma anche quella di una moglie possessiva, non ci avesse privati dell’affetto che Pablito ed io attendevamo con impazienza ad ogni visita»27.

Picasso, considerato un dio in terra e circondato dal servilismo, era completamente concentrato nella sua arte. Aveva perso, secondo Marina, ogni contatto con la realtà e si era rifugiato in un impenetrabile mondo interiore.

Del resto «Già da bambino si era rinchiuso in un universo autistico». Comunicava solo con i suoi disegni.

«Picasso ha attraversato un secolo ma non viveva come i suoi contemporanei. E del resto non li vedeva neppure (…)»

Poi aggiunge: «Sezionava la propria anima, la analizzava. Le sue opere potevano esprimere castità e impudicizia, vitalità e morte, crudeltà e tenerezza, essere provocatorie e ingenue: sapeva far vibrare ogni corda con un’intensità che si trasmetteva a tutti quelli che l’avvicinavano. E li folgorava».

A parte la diagnosi di autismo infantile (idiot savant, sindrome di Asperger?) per cui la genialità si sarebbe sviluppata, alla Lombroso, su di un terreno difettuale, bisogna decidersi fra due opposte alternative: se Picasso era chiuso in un mondo autistico, schizoide, come faceva a far vibrare i sentimenti altrui con tanta abilità e maestria? O l’autismo o la capacità di sviluppare un linguaggio universale.

È su questo punto che il pensiero di Marina e di chi l’ha aiutata a ricostruire la sua storia, si inceppa clamorosamente, come del resto quando si chiede:

«In definitiva, chi è stato più egoista? Io o Picasso?».28

A me, francamente, quest’ultima sembra, alla luce di quanto è stato affermato precedentemente, una domanda senza senso…

Picasso, in due epoche successive della sua vita, ha dipinto quadri come Les Damoiselles d’Avignon e come Guernica, quadri che si inserivano perfettamente nelle dinamiche storiche del tempo. Non credo che si possa dire, semplicisticamente, che egli non fosse in rapporto con la realtà, essendosi ritirato in un mondo solipsistico. Si tratta di affermazioni forti ma anche scarsamente credibili, considerando anche la lunga influenza che Picasso ha avuto sull’arte del suo tempo. Basta pensare all’influenza su Pollock, Gorky e moltissimi altri.

Talmente interessato a ciò che avveniva nel mondo e nel suo paese, tra l’altro, che decise di dare Guernica al Moma di New York a condizione che lo restituissero alla Spagna quando, abbattuta la dittatura di Franco, nel Paese si fosse aperta una stagione di vera democrazia. Cosa che gli americani hanno fatto, poi, anche se con notevole ritardo.

Appunto, si trattava di un pittore che si era impegnato, che aveva avuto una partecipazione politica, aveva fatto la Resistenza.

Però, per cercare di penetrare nella sua psicologia, è interessante quanto di lui scrive la sua ex moglie Françoise Gilot, l’unica donna che, pare, gli abbia resistito. La Gilot subentra a Dora Maar che subisce un colpo durissimo, viene ricoverata in clinica psichiatrica, sottoposta a elettrosschockk e di seguito presa in cura da Lacan che la sottopone ad analisi e la porta con sé. «Tutti pensavano che mi sarei uccisa – dichiarò la donna – dopo il suo abbandono: anche Picasso se lo aspettava e il motivo principale per non farlo fu di privarlo di questa soddisfazione»29. Leggendo il libro della Gilot, Life with Picasso, emergerebbe che a partire dal settantesimo compleanno di Picasso il terrore di quest’ultimo per la morte si accentuò. Inoltre, vedendo tutto il tempo una persona giovane che si muoveva intorno a lui, ciò appariva come un costante rimprovero per non essere più giovane lui stesso. Non solo, ma tale circostanza diventava un’accusa contro la giovane donna…

Picasso si sentiva in una condizione analoga a quella di Chaplin (incontrato agli inizi degli anni Cinquanta) che in vecchiaia andò incontro ad un declino artistico.

«La vera tragedia – diceva il pittore – risiede nel fatto che Chaplin non può più assumere l’aspetto del clown perché non è più magro, giovane e non ha più la faccia e l’espressione del suo “piccolo uomo”, ma quella di un uomo che è invecchiato. Il suo corpo non è più lo stesso: il tempo lo ha conquistato e lo ha trasformato in un’altra persona. E ora è un’anima persa»30. Trovava ridicolo il sentimentalismo e l’atruismo di stampo cristiano espresso nel film Limelight di Chaplin. Cerco di capire, anche se la tesi della senescenza di Françoise Gilot non mi convince affatto… Paura della morte… Paura di impazzire… Mi sembra troppo banale ed anche molto strumentale detto da una donna giovane.

Una piccola coltellata?

Nel libro della Gilot viene riportato un episodio curioso. Nel ‘53 a Picasso, in occasione della morte di Stalin, fu commissionato un ritratto dello statista sovietico per il giornale dei comunisti francesi diretto da Aragon.

Picasso lo eseguì di malavoglia ed ad operazione terminata si accorse che assomigliava più al padre di Françoise che a Stalin. I comunisti reagirono violentemente alla provocazione.

Ma la domanda che mi pongo, cercando di comprendere il significato latente di questo episodio, è la seguente: chi era più razionale, il pittore o la donna? Forse il catalano alludeva (intuizione) ad una identificazione della donna con il padre? E noi sappiamo che l’identificazione è alla base dell’assetto razionale.

Sono domande alle quali non sappiamo se potremmo mai rispondere con certezza.

Strano a dirsi, ma la crisi fra la Gilot e Picasso, il rapporto dei quali aveva coinciso con la militanza comunista del secondo, tocca il suo culmine nel periodo della morte di Stalin… pura coincidenza? Non saprei.

L’ipotesi è affascinante. Così come quando supponi una Francoise Gilot particolarmente razionale. Mi facevi tornare in mente il periodo della seconda guerra mondiale, quando Picasso è ad Antibes e dipinge la Joie de vivre. Si parla di lei come di una giovane donna che “illuminò con la sua libertà e la sua fiorente bellezza il dopoguerra dell’artista”, racconta Jean Jacques Aillagon nel catalogo della mostra Picasso la joie de vivre; ma fu realmente così? O era un’immagine che Picasso le regalava, un’idealizzazione? In quegli anni, però, da parte di Picasso comincia anche quella certa costruzione della propria immagine d’artista da tramandare, con il fotografo Bressai che, convalescente, a sua volta aveva trovato rifugio nel castello dei Grimaldi e era stato autorizzato da Picasso a ritrarlo. Una decisione fredda, razionale? Un caso? La ripresa di una tradizione antica, addirittura rinascimentale, dell’artista che, alla Leonardo, tramanda consapevolmente una certa immagine di sé come genio universale?

A questo proposito è capitato però di imbattermi in una critica che è molto più seria di quelle riportate fino ad ora.

Ho letto, con mia sorpresa, nella documentata e certo non superficiale opera Picasso, a cura di Ingo F. Walther, che Picasso si è accreditato come «il genio del secolo» non solo per la sue capacità artistiche e la sterminata produzione, soprattutto dell’ultimo periodo, ma anche perché perseguiva una precisa strategia. Assecondava con il suo comportamento privato e pubblico, quello che la leggenda vuole ci si aspetti da un artista: quest’ultimo viene considerato un essere fuori dalla società e può permettersi libertà vietate all’uomo comune, che deve sottostare a convenzioni sociali. “Quod licet Jovi non licet bovi”, sentenziavano i latini. «Soprattutto nelle opere degli ultimi anni un Picasso eternamente potente si presenta ad un pubblico sfacciatamente voyeuristico: l’artista inesorabilmente produttivo, che agisce quasi in stato di ebbrezza, che sprofonda interamente nel suo lavoro, fu il camuffamento che lo aiutò a vivere tanto a lungo (…). Interessante, ai fini della valutazione dell’importanza da attribuire a Picasso nella storia dell’arte, è il momento della strategia che qui si palesa. Riconoscere questo momento significa contraddire la generale convinzione che l’artista agisca inconsciamente e seguendo la sua immaginazione. La produzione picassiana si mostra invece del tutto razionale…».31

Ammesso e non concesso che quanto riportato nella citazione risponda a verità, potremmo dedurre di trovarci di fronte ad un manierismo, come dire ad una anaffettività, molto abilmente occultata, che contraddirebbe le dichiarazioni esplicite di una poetica antirazionalista che noi troviamo nel libro di Gilot. Un manierismo che consisterebbe nel produrre citazioni ed imitazioni di se stesso.

Saremmo arrivati ad una conclusione senza dubbio sorprendente per chi prediliga giudizi aprioristici e manichei.

Trovo sempre, a partire dalla stessa fonte, quest’altro pesantissimo giudizio: «La serie delle parafrasi tradiscono però quello che sarà il tratto predominante dell’arte di Picasso verso la fine degli anni cinquanta: un tratto sempre più tautologico, quasi autistico, che si nutre di un vero e proprio collage di motivi rivisti un’infinità di volte (…). Molti dei dipinti e degli studi di questo periodo non hanno evidentemente altra ambizione che quella di riempire le tele e spostano così l’attività creativa su di un piano triviale: il loro scopo è puramente commerciale».32

È un’affermazione pesante, formulata a partire da un’analisi molto attenta e circostanziata dell’opera del pittore catalano.

Ciò che nel libro di Marina Picasso appare mal espresso e dissociato, e quindi scarsamente attendibile, con Walther sembra acquisire plausibilità: una crisi degli ultimi anni.

Questa ipotesi farebbe capire anche qualcosa di più della crisi a cui andò incontro l’ultima, giovane, compagna di Picasso, Jacqueline, che nel 1986 si è suicidata. Ma qui forse ci spingeremmo troppo oltre.33

Picasso diventa, a partire dagli anni sessanta e suo malgrado, un classico, legato ad una forma di figurazione e di rivisitazione del passato…

Picasso, a mio avviso, rimane un genio indiscusso, dotato di un’eccezionale vitalità e creatività. Il problema diventò, ad un certo punto, che lui voleva essere riconosciuto come genio o temeva di non essere più considerato come tale per il fatto di fare pochi quadri di meno all’interno di una sterminata produzione? A mio parere sfugge a Walther che quand’anche fosse stato vero che Picasso metteva in atto delle strategie per essere trattato come un genio, egli era ugualmente un genio per motivi che non dipendevano dalla sua intenzione cosciente di esserlo. Era un genio, anche se molte sue opere non sono geniali. Rimane aperta la domanda se il manierismo di un genio non sia anch’esso “geniale”. Quanto poi allo scopo commerciale l’opera di Walther, in versione lusso, costa 79 euro: non mi sembra che lui stesso sia dedito ad opere di beneficenza. Picasso ha fatto fare soldi a molta gente e probabilmente anche a lui.

Qui però possiamo fare riferimento di nuovo al tema di cui parlavamo prima: noi cerchiamo una verità oltre ogni timore reverenziale, oltre ogni idealizzzazione. E vorrei aggiungere, però che cento quadri di un artista immortale non valgono una vita umana. Ho detto cento quadri, ma mi sarei potuto riferire a qualunque ambito dell’attività dell’uomo.

Detto questo, rimane da aggiungere una curiosità dal punto di vista storico: il primo ad aver accusato Picasso di razionalità, anche se dobbiamo chiederci da quale pulpito predicasse, è stato Boccioni, attraverso un’analisi dei procedimenti compositivi. Scriveva il futurista nei primi decenni del secolo scorso «(…) l’analisi dell’oggetto si fa a spese dell’oggetto stesso: cioè uccidendolo. Di conseguenza se ne estraggono elementi morti coi quali non si farà mai una cosa viva (…). Picasso dunque arrestando la vita nell’oggetto uccide l’emozione».34 Ed insiste: «I cubisti assurgono alla generalizzazione riducendo l’oggetto ad un’ idea geometrica cubo, cono, sfera, cilindro (Cézanne) e ciò ha fondamento nella ragione».35 La teoria cubista avrebbe costretto l’oggetto in una ideografia a priori.

Sono le parole di un grande pittore e quindi credo che un minimo di attenzione vada loro rivolta, anche se l’argomentazione secondo la quale essendo il cubo geometrico ed essendo la geometria razionali, anche Picasso sarebbe stato razionale, è un po’ pretestuosa per non dire semplicistica. Invidia?

Non è del tutto improbabile dal momento che, per esempio, si sa che Boccioni realizzò le sue prime scomposizioni in forma di scultura nel 1912 dopo aver visto a Parigi le prime opere cubiste di Picasso. Ma l’artista italiano sostenne sempre di averle fatte prima, retrodatando le sue, per poter gareggiare in intuizioni e scoperte con il genio spagnolo…36

Dunque i futuristi non sempre erano originali. Inoltre, non riesco più a capire Boccioni quando dice che bisogna dipingere la sensazione pura. A questo punto è doveroso ricordare Merlau-Ponty in Fenomenologia della percezione, quando asseriva che la sensazione pura non esiste: se esistesse sarebbe la sensazione del nulla.37 Se poi si aggiunge che lo stato d’animo plastico, secondo Boccioni, si determina nell’artista nella sua “caratteristica fatalità drammatica”, allora sono costretto ad abbandonare la sua teoria anche se per un momento la denuncia di un metodo compositivo aprioristico in Picasso mi aveva sedotto.

Come si può notare, districarsi in un labirinto di concezioni estetiche talora contrapposte è tutt’altro che semplice: però non suona affatto bene sostenere che la pittura debba esprimere il fato ed il dramma anche se infarcito di formule verbali come “stato d’animo plastico”. Non sarebbe anche questo un a priori? Anche perché, se si prosegue con Boccioni, incontriamo l’affermazione assurda e misticheggiante secondo la quale “la materializzazione medianica è una certezza”38. La sensazione, poi, sarebbe la veste materiale dello “spirito”? Latente, in queste parole, è la mentalità religiosa, la credenza nell’aldilà. Quindi la critica della razionalità porterebbe allo spiritismo. Dalla padella nella brace. Per noi lo stato d’animo plastico è quello dell’immagine inconscia non onirica (vedi la teoria di Fagioli a proposito) che ha in sé una potenzialità e una intenzionalità espressiva. Senza scissione fra non cosciente, coscienza e comportamento o fra mente e corpo. Comportamento che in questo caso si traduce nella creazione materiale di una forma.

Ma, d’altro canto, non ci può essere stata, nell’ultima fase, una forma di autoironia, una presa in giro volontaria del “mito Picasso”?

Certo, immagino di sì, e sarebbe l’ipotesi migliore. Ma resta il fatto che egli è rimasto, ad un certo punto, imprigionato in una coazione a produrre, senza un grande approfondimento, paragonato al passato, né formale né di contenuto…

Però c’è un aspetto dell’ultima produzione del catalano che mi attira e con la quale entro in sintonia: egli non era interessato all’opera compiuta, ma al fatto di generare minime variazioni dello stesso tema… come se fossero fotogrammi di una immaginaria pellicola… come se il movimento incessante della forma verso qualcos’altro fosse più importante dell’immagine stessa, come un tutto compiuto e punto di arrivo definitivo di un percorso (vedi, per esempio, le serie Il pittore o quella della Testa di uomo).

È un atteggiamento che risente di una mentalità che potremmo definire cinematografica?

Qui il discorso diventa veramente interessante, perché siamo di fronte a quello che è stato chiamato lo “sguardo mobile” della pittura che cattura un momento qualunque e fuggitivo. “Sguardo mobile” che si oppone allo “sguardo pregnante”, che invece vuole fissare per sempre l’immagine essenziale.

Negli ultimi tempi, per me, la pittura, il disegno, hanno un interesse in relazione ad una creazione video ed io li vedo come parte d’immagini in movimento. Non riprendo con la telecamera ciò che ho dipinto, ma dipingo ciò che voglio riprendere con la telecamera. Mutatis mutandis era ciò che accadeva nel film di Clouzot. Lo stesso avviene per la fotografia digitale: mi colloco all’opposto di Man Ray che dipingeva ciò che non poteva fotografare39.

Io dipingo ciò che voglio fotografare.

Però si può proseguire dicendo che è lecito differenziare il problema del rapporto fra pittura e il film dal rapporto fra la pittura e il video. Sono due cose assolutamente diverse. Nel film c’è una base materiale, la pellicola. Con la videoarte non c’è più questa dimensione di supporto materiale, siamo nell’immaterialità assoluta, l’immagine viene ridotta a un contenuto numerico. Questo aspetto, apparentemente tecnico, in qualche modo io credo influenzi la creatività.

L’arte digitale ti permette di utilizzare lo schermo come fosse una tela?

Dà una possibilità di elaborazione dell’immagine prima impensabile, come gamma di colori, permette di fare una pittura in movimento che per i futuristi era solo uno slogan. Molta della videoarte, proprio perché ha questo fondamento matematico, è molto astratta, molto fredda, basata su modalità fatte di ripetizione, un po’ come la musica dodecafonica, basata su criteri costruttivi che danno una coerenza formale, ma lasciano un senso di distanza emotiva. Io invece, da un certo punto in poi, ho cominciato a usare un procedimento diverso. Mentre prima, intorno al 1999, ho fatto dei video che entravano nello spettacolo, in parte, come scenografie, in parte come narrazioni autonome e, accanto a questo, ho sviluppato un’attività figurativa di sculture e pitture (utilizzate per questo video), successivamente ho cominciato a dipingere, a disegnare e a scolpire per poi trasportare questi elementi dentro la realtà del video. Ho fatto questo per non perdere completamente l’aspetto di materialità, di rapporto concreto con gli oggetti, e con i gesti che lasciano un segno. Quindi, in un certo senso, tutto ciò toglie al video quell’elemento di astrazione e di freddezza che si ottiene… disegnando su delle tavole speciali. Disegnare con una punta di peltro su una superficie di vetro non è la stessa cosa che incidere il legno o usare pastelli su di una tela. Praticamente ho fatto un’operazione che mi consente di non annullare completamente l’aspetto pittorico e artigianale. Bisogna pensare che questo processo di smaterializzazione del video ha avuto un contraccolpo nella Transavanguardia che, secondo me, si è costituita come l’annullamento di tutte le sperimentazioni della videoarte. Scrive Bonito Oliva: «L’opera smaterializzata naviga su rete, sganciata dalla stanzialità spaziale del muro e del pavimento, slitta velocemente sotto gli occhi dello spettatore con una accelerazione che produce piuttosto una vaporizzazione del senso».40 Sarebbe la tecnica a produrre lo svuotamento di senso (riferimento ad Heiddeger?), che si combatte con la proposta di un ritorno a un fare artigianale, alla concretezza delle tele e dei di pennelli . Come dice Achille Bonito Oliva l’artista della Transavanguardia, anche lui, è, un nichilista compiuto, disarmato di qualunque ancoraggio e direzione. È un “traditore manierista”, che usa la “citazione deviata” per passare ecletticamente da Duchamp a De Chirico, da Boccioni a Picasso. La Transavanguardia, nella visione ideologica che ne fornisce Bonito Oliva, annulla del tutto l’ aspetto più fortemente innovativo del video. Il video riduce l’immagine a qualcosa che non è materiale. Non è un oggetto che noi possiamo collezionare, non è qualcosa di statico, ma qualcosa di sostanzialmente differente. L’arte visiva, secondo me, ed in particolar modo la videoarte, potrebbe subire un processo di trasformazione, andare incontro a qualcosa di nuovo non contrapponendosi al passato ma includendo in sé quella ricerca che, storicamente, è appartenuta alla pittura. Questa intuizione è stata capace, anche quando il rapporto era ancora fra pittura e cinema su pellicola, inspiegabilmente, di determinare grandissime crisi.

Per esempio, sono stato molto colpito da un episodio della vita di Pollock. Nel 1950 Hans Hamuth cominciò a fotografare il pittore impegnato nel suo lavoro. Espresse infine l’intenzione di documentare in un film la specifica tecnica pittorica di Pollock. Namuth propose un filmato a colori, in cui l’artista avrebbe dipinto su una lastra di vetro al di sotto della quale veniva posizionata la cinepresa. L’evento costituì un punto di svolta nella vita di Pollock, caratterizzato da un aumento del consumo di alcool e da un continuo calo di creatività. Naturalmente le interpretazioni di questo episodio possono essere le più svariate, ma l’idea delirante di fondo potrebbe essere che la cinepresa distrugge l’immagine dell’artista. Ma in che senso la distrugge? In quanto fa scattare, in quel preciso momento, la percezione di un qualcosa di “nuovo” a cui non egli riesce a dare un significato?

Pollock affermò in un’intervista ad una radio nel 195141 che l’inconscio, secondo lui, freudiano e junghiano, è un elemento importante nell’arte moderna e che le pulsioni hanno grande significato per chi guarda un quadro. Ma quando tentò di distruggere con la macchina una scultura di Larry Rivers, in preda a quali pulsioni era? È calzante a questo punto la testimonianza di Motherwell il quale sosteneva che ciò che lo colpiva maggiormente di Pollock era «(…) la potenza creatrice della furia e della negazione»42 che lo aveva portato a cancellare la figura umana. L’americano avrebbe fatto quadri per annullare: un paradosso schizofrenico. Come se ci fosse stato un lato “distruttivo” nell’espressionismo astratto, i cui protagonisti erano morti tutti prematuramente. Cancellando la figura e non trasformandola come faceva Ricasso, si entrava in un irrazionale “dionisiaco”, in cui la pazzia che devastò la mente di Nietzsche era in agguato. D’altronde non aveva senso dire che l’inconscio freudiano e junghiano, era importante perché in entrambi, come tutti sanno, sono presenti idee innate. “Fantasmi originari” per Freud e archetipi per Jung. Ora: un artista crea in base ad idee innate? Ha immagini preformate, inscritte nel codice genetico che esteriorizza? Quanto poi alle pulsioni, se si tratta di pulsioni parziali perverse come nella psicoanalisi freudiana, esse o vengono sublimate o, se vengono agite, desublimate come voleva fare Max Ernst, danno luogo ad un comportamento psicotico. E noi sappiamo proprio da Freud (vedi la monografia di Leonardo) che la sublimazione (termine coniato da Nietzsche), è un meccanismo quanto mai ballerino oltre che, aggiungo io, un concetto estremamente confuso e contraddittorio.

Dunque la frontiera che apre la videoarte è vastissima?

Le potenzialità della videoarte credo non siano state ancora sondate. E di fatto non sappiamo neanche esattamente cosa sia la videoarte.

In campo teatrale che cosa ha portato la videoarte? Ovviamente non riferendomi alle banali riprese teatrali di uno spettacolo che hanno più a che fare con il documentario e che non hanno un’autonomia di opera creativa.

In generale ha portato alla scenografia. Cioè a sostituire il dipinto con il video. Oppure ha portato a creare un’illusione virtuale allo spettatore, ipertrofizzando gli elementi descrittivi con sonorità intense, con immagini virtuali pervasive, con una molteplicità di schermi, con un senso di inquietante estraneità. Io invece non uso affatto lo schermo come una scenografia. Tanto è vero che nel primo allestimento di questo spettacolo c’erano sia lo schermo che delle scenografie. In quest’ultima messinscena non compare più la scenografia dipinta accanto allo schermo per la retroproiezione. Perché, nel frattempo, si è capito un fatto fondamentale: che lo schermo non è una scenografia. Ciò che appare nello schermo non è un elemento che crea l’illusione di uno spazio entro cui avviene l’azione scenica, ma lo schermo è un generatore di senso. Quello che è il rapporto tradizionale fra azione scenica, scenografia, eccetera, qui si ribalta. è ciò che avviene sullo schermo a generare il senso e ad essere virtuale (dove il concetto di virtualità qui lo uso come sinonimo di potenzialità) e gli attori in un certo senso reagiscono a questi contenuti, a queste immagini, a queste parole. È come se lo schermo fosse un quarto attore. C’è un ribaltamento dell’uso tradizionale di questo mezzo, che è stato caratteristico di tantissime compagnie di artisti.

Penso che siamo andati oltre anche “Le scene in cambiamento” di Josef Svoboda, che si sostituivano al tradizionale “cambiamento delle scene”.

Svoboda ha usato la luce, le tecnologie digitali, i filmati proiettati su schermi dalle forme inconsuete in uno spazio definito “psicoplastico”, capace di trasformarsi secondo le situazioni emotive suggerite. Poliproiezione, teatro totale suggestivo, quello di Svoboda, che rimane a mio avviso però a livello di una ricerca formale. Io penso che la novità deve arrivare fino a toccare il contenuto, proponendo una ricerca su una realtà umana diversa da quella fino a questo momento rappresentata.

Nello spettacolo si ha la sensazione che la rappresentazione passi dal video e poi passi alla scena senza soluzione di continuità e poi di nuovo passa alla musica e così via, raggiungendo una fusione di linguaggi che ha una sua profonda coerenza.

Esattamente. Ma con il particolare che l’elemento generatore non è l’attore, ma il video. L’attore reagisce a ciò che accade sullo schermo. E in questo si può vedere un aspetto positivo, ma anche un aspetto negativo. Se qualcuno volesse fare una critica potrebbe dire: ma in fondo nel video c’è un’assenza, è un protagonista, ma manca la presenza umana concreta. Ma diciamo che quella è un’interfaccia dalla quale traspaiono non solo delle forme ma dei contenuti. I significati racchiusi nel fatto artistico hanno un’importanza fondamentale. Sono quelli, che generano poi movimento scenico. Io propongo comunque un teatro nel quale la tecnologia viene usata in modo essenziale. Se si pensa a tutta la sperimentazione che è stata fatta nei concerti, ad esempio quelli dei Rolling Stones con schermi megagalattici e un’enorme potenza di watts, noi siamo all’opposto, tendiamo a un uso minimale dei mezzi tecnici. La riduzione all’essenziale del mezzo tecnologico, è il contrario della tendenza ad ipertrofizzare la tecnologia, tendenza generale di certa sperimentazione. L’ipertrofia dei mezzi genera quello che potremmo definire un “manierismo digitale”, supplendo così a una carenza di contenuti. Lo stimolo potente non è l’amplificazione o la qualità percettiva delle immagini (cosa che per altro fa piacere). Il problema è il contenuto, è il messaggio non cosciente, è l’elemento irrazionale. È quest’ultimo che tocca profondamente, per cui non c’è bisogno di mettere dieci schermi in un teatro per avere un effetto dirompente. È dirompente il contenuto stesso di ciò che viene proposto.
Anche se nelle locandine sono indicati l’allestimento e le scenografie, in realtà sono arrivato a capire che il nostro è uno spettacolo senza scenografie.
Lo schermo, lo ripeto, è un generatore di senso ed è come se fosse un’interfaccia all’interno della quale si combinano linguaggio scritto ed immagine, (con una involontaria citazione, spero non deviata, delle sperimentazioni futuriste a proposito del rapporto fra cinema e poesia), però rielaborate alla luce di una nuova costruzione irrazionale.

I linguaggi qui tendono a intrecciarsi, a fondersi.

Il multimediale, di per sé, tende a una unificazione delle varie forme espressive, che tradizionalmente venivano separate – la scrittura, la musica eccetera; chiaramente in un video ci può essere la musica, ci possono essere la pittura e il cinema, nelle riprese più realistiche. Oltre che la parola.

Qui si apre un discorso molto complesso al quale posso solo accennare: quello del rapporto fra le varie espressioni artistiche43. Ricordo la poetica della Gesamkunstwerke di Wagner, cioè della convergenza di tutte le arti sotto la guida della musica. In Wagner c’era la nostalgia della tragedia greca nella quale si sarebbe realizzata un’unità originaria fra parola suono e gesto.

Ricordo il teatro delle attrazioni di Eisenstein, che voleva essere una rivoluzione estetica definendo regole di convergenza fra i vari linguaggi artistici per giungere ad un insieme monistico fatto di suggestioni plurisensoriali.Ricordo il Blaue Reiter, all’interno del quale le strutture musicali venivano utilizzate come parametri per l’organizzazione della materia pittorica e per la coreografia.

E naturalmente non posso fare a meno di parlare del mio rapporto con Stefano Lentini, il musicista che ha composto per La perla tra le labbra le musiche originali.

Con lui, la collaborazione è stato senz’altro complessa: più che suggerire temi od imporgli la mia sensibilità musicale, ho cercato di favorire la comprensione del testo ed il familiarizzarsi con un metodo di lavoro che non procede per schemi o nel rispetto di punti di vista precostituiti.

Però, tornando a quella parola così difficile Gesamkunstwerke, non solo da pronunciare ma anche da pensare, devo confessare che il mio punto di partenza non è stata affatto una poetica del genere. Diciamo piuttosto che, concretamente, mi sono trovato a collaborare con artisti di formazione diversa ed a costruire con loro, progressivamente, uno spettacolo all’interno del quale la fusione dei vari linguaggi espressivi si è realizzata spontaneamente, per il rapporto reciproco, conscio ed inconscio, che eravamo riusciti a costruire.

Diciamo che utilizzare le tecnologie digitali può rendere più facile integrare le varie componenti artistiche, perché il codice binario digitale è una sorta di lingua universale, adatta ad accogliere tutte le materie.

Ma resta al fondo una differenza sostanziale fra cinema e videorte? Al di là, concretamente, della durata dell’opera.

C’è una differenza fondamentale fra il tempo del cinema e il tempo della videoarte, ma in questo senso: la videoarte tende a mettere fra parentesi la durata temporale, mentre l’elemento narrativo nel cinema ha un’importanza il più delle volte primaria.

Mette in pratica una sorta di sincretismo più vicina a quella del sogno, a quella che lo psichiatra Massimo Fagioli ha chiamato “immagine inconscia non onirica”?

Se per sincretismo si intende conciliare aspetti eterogenei sicuramente sì. Forse l’immagine onirica non è molto sincretica in quanto è immagine visiva e non suono.

Per l’immagine non onirica vale il fatto che le immagini acustiche integrano un elemento sonoro ed uno visivo: potrebbe essere appropriato attribuire loro l’aggettivo sincretico… o sinestesico.

Però vorrei tornare un attimo sul rapporto fra video arte e cinema.

È vero quello che diceva Pirandello, cioè che il cinema si è allontanato dalla letteratura. Ma se il cinema si è allontanato dalla letteratura di cinquanta chilometri, la videoarte può allontanarsi di mille chilometri. Quindi, ha potenzialità grandi, ma è un terreno che non è esplorato, perché è presente una mentalità generalizzata, un atteggiamento che ipertrofizza il significato della macchina. Ma il punto è questo: non è la macchina che fa la novità, non è la bellezza della macchina che appare all’inizio del secolo scorso con le poetiche futuriste e poi anche nei primi videoclips; è fondamentale, invece, l’uso che si fa della tecnica.
Per esempio, io ho fatto delle mostre di pittura che hanno avuto un ampio riconoscimento di pubblico e di critica, ma attualmente non sono più interessato a questo tipo di pittura, perché attraverso un video in pochi minuti posso fare migliaia di quadri. La potenza del movimento, la continua elaborazione che ti permette il computer, non è consentita dall’attività manuale. Io non sono d’accordo con Bonito Oliva quando dice che la rapidità di successione toglie di senso ad un’immagine. Non possiamo pensare che sia la persistenza della percezione, nei confronti di un quadro tradizionale attaccato al muro di un museo, ad attribuire più significato di una veloce apparizione di un’immagine su di uno schermo. Questo è un modo di pensare molto razionale. C’è una significatività intrinseca in alcune rappresentazioni che le rende avvertibili anche attraverso quelle che Leibniz chiamava piccole percezioni.

Il non cosciente lavora su questa zona subliminale delle sensazioni appena avvertite, dei suoni lontani o dei segni che velocissimamente attraversano il nostro campo visivo periferico, ma lasciano ugualmente una traccia profonda, suscettibile di ritornare inconsapevolmente nei sogni, nelle fantasie diurne. Riprendendo per un attimo quanto dicevamo a proposito di Picasso, forse nella videoarte lo “sguardo mobile” non necessariamente è in contraddizione con lo “sguardo pregnante”, perché essa non è obbligata al realismo cinematografico, che cattura spesso anche ciò che non ha valore estetico. In poche frazioni di secondo si possono comunicare contenuti essenziali: sguardo mobile e pregnante insieme. La mobilità della rappresentazione non deve decadere nella casualità di riprendere oggetti qualsiasi, che assumerebbero valore artistico solo per il fatto di essere inquadrati, come nelle videoclips di Man Ray. Saremmo allora di fronte all’equivalente cinematografico del ready made. In questo tipo di atteggiamento c’è una anticipazione del “Grande Fratello”: appaio in televisione quindi sono un artista. Un artista già fatto.

I media digitali possono consentirci di strutturare un messaggio di estrema complessità che cortocircuita la coscienza, che spesso si concentra sugli aspetti macroscopici ed evidenti, persistenti nel tempo. Noi andiamo ad esplorare, tramite la strutturazione di codici artistici inediti, dei mondi nuovi, nella misura in cui non ricadiamo in una poetica positivista o futurista di celebrazione della macchina. Ci ricadiamo nella misura in cui la tecnica è quello che diceva Spengler, cioè un mondo faustiano. Invece, noi dobbiamo usare la tecnica capendo che questi nuovi mezzi ci consentono di esprimere forme che, pur collegandosi a tutte le problematiche del passato, sono nuove per il movimento a cui possono dare vita. Il lavoro teatrale che abbiamo fatto corrisponde a questo tipo di poetica, a questo tipo di tentativo. E soprattutto corrisponde alla costruzione di un’opera che, come moltissimi altri lavori multimediali, si modifica continuamente. Questo è l’aspetto interessante: noi non siamo incatenati in un testo o nelle scenografie già fatte. Noi possiamo modificare un video all’infinito, possiamo adattarlo a nuove situazioni. E questo, per un autore o per un attore, significa un percorso di ricerca continuo; un’esplorazione delle possibilità di questi mondi. Oggi, credo ci sia una disparità evidente: abbiamo dei mezzi e non li utilizziamo a fondo, come se gli artisti non avessero idee sufficienti per sfruttare la tecnica. È come se una persona si ritrovasse ad avere una Ferrari, ma senza patente.
Perché questa incapacità di utilizzare in modo creativo i mezzi che la tecnologia mette a disposizione. Cosa è successo?

È successo… che è stata demonizzata la macchina. Di fronte a questa enorme espansione della potenzialità espressiva, non abbiamo il coraggio di proporre una creatività diversa, idee nuove. C’è chi si spaventa davanti a questo. Ecco perché io ho passato anni a studiare i sistemi digitali di montaggio, che non sono quelli tradizionali del cinema.

Se penso a Bill Viola, che è uno dei videoartisti più noti e conosciuti, nella sua opera si notano la tecnica, la seduzioneestetica e estetizzante delle immagini, i riferimenti alla storia dell’arte. Ma è come se l’artista americano svuotasse di significato e di spessore le immagini. Emerge quando i protagonisti sono persone e Viola racconta una condizione umana disperata. E anche quando protagonista è l’arte, pensiamo per esempio al video dedicato alla Visitazione di Pontormo. Viola ne ha fatto una specie di teatrino delle figure in movimento. Cercando di rendere in tridimensionale il doppio movimento di Maria e Sant’Anna che Pontormo realizza sulla tela, Viola finisce, in realtà, per farne un fatto solo di animazione meccanica. È come se la videoarte, anche ai suoi livelli più alti, avesse qualcosa di disumano. Perché?

In Bill Viola c’è una religiosità manifesta, come nell’installazione dedicata ad un carmelitano scalzo del ‘500, San Giovanni della Croce44. San Giovanni è l’espressione di un nichilismo mistico, di una poetica negativa che si annulla nella trascendenza… in San Giovanni ci sarebbe inoltre l’eco di un cristianesimo rivisitato attraverso la spiritualità orientale. La videoistallazione con Viola diventa liturgia o meditazione zen, ricerca del sacro e credenza della liberazione dell’anima attraverso la morte. «La morte è nascita».45

Al di là quindi della tridimensionalità dello schermo, nulla di nuovo sotto il sole, ma soltanto l’estetizzante celebrazione dell’assenza di pensiero.
Ripeto, il fatto è che parallelamente allo sviluppo dell’espressività artistica attraverso le tecnologie digitali, bisogna arrivare a una concezione diversa dell’umano. Il soggetto che crea poi resta al centro di tutto questo processo. Non è protagonista la macchina, protagonista è l’uomo nella sua completezza. È chiaro che la differenza fondamentale fra me ed un altro è che io faccio riferimento ad una ricerca sull’uomo che è completamente diversa. Una ricerca sull’uomo che non solo modifica i contenuti espliciti della poetica, ma che, secondo me, dà vita a un sistema dell’arte completamente nuovo. Sistema nuovo che da alcuni – pur condividendo questa stessa ricerca – viene solo proclamato, da altri invece viene realizzato. Ecco il punto, una cosa è affermare come intenzione la scoperta della trasformazione umana, della nascita che modifica anche il fare artistico. Un’altra cosa è realizzarlo nell’espressione artistica o poetica. Dunque, il problema è che bisogna concepire diversamente anche la formazione dell’artista. Non si può diventare artisti per solo intuito e disposizione naturale, od apparizione in televisione: ci vuole anche un processo formativo, che è molto complesso. La piena creatività artistica può anche arrivare a un certo punto di questo percorso.

Per essere creativi occorre essere sani?

Una persona può essere sana ma non creativa artisticamente. Mentre non è vero il contrario. Non è necessario avere un’esigenza artistica di un qualunque tipo. È un fatto individuale. Oltretutto noi non possiamo creare categorie di valori basate sul fatto di essere o non essere artista. Ci può essere una persona che non è interessata a questo tipo di creatività, ma poi, magari, fa un’altra cosa. Anche più interessante o più bella.

Certo, non tutti per forza devono fare gli artisti

Anzi, io rifiuto il termine artista perché mi lega troppo a Man Ray, mi lega troppo a una visione tradizionale del fare arte. Io non sono artista perché il mio avvicinamento all’arte non ha seguito i canali tradizionali. Ma rivendico il fatto di avere una formazione molto complessa che mi porta a creare anche se in un modo diverso da quello tradizionale.

Come psichiatra?

Più che come psichiatra, come sviluppo di una mia realtà umana, come esigenza di espressione e di comunicazione di contenuti che non vanno solo enunciati, ma vanno espressi in forme che non siano solo quelle del codice scientifico nell’ambito del quale, peraltro, mi trovo molto bene. Personalmente non pretendo che l’arte venga valutata solo in base ai contenuti che esprime. Qui mi permetto di ribaltare il discorso sul rapporto fra il contenuto e la forma che ho svolto fino ad ora. L’arte deve essere considerata per quell’elemento di comunicazione peculiare che possiede: è capace di trasmettere emozioni, è capace d’ essere fruibile anche da un pubblico che magari non si avvicinerebbe ad un testo di psichiatria. Quindi, io sono contro l’arte ideologica. Contro sia un’arte ideologica di tipo tradizionale, sia un’arte che potrebbe essere ugualmente ideologica pur facendo riferimento a teorie di per sé innovative.

Non hai un’ideologia però, positivamente, hai una tua poetica.

Una poetica che si trasforma. In fondo io alcune cose le scopro strada facendo. Mai avrei pensato di fare dei video. Solo qualche decennio fa consideravo la televisione come un soprammobile o un mezzo per vedere qualche film nel tempo libero. L’idea di comparire in tv o fare delle cose per la tv, era quanto di più lontano ci fosse per me. Mai avrei pensato di fare questo. Mentre per esempio, il mio fimato La danza del drago giallo, dove recito anch’io, è stato più volte trasmesso in televisione.

Come ci sei arrivato allora?

Diciamo che sono stato costretto. L’idea di fare il video non è stata mia, per esempio. Nel primo spettacolo teatrale accadde che una persona comprò un telo gigantesco e disse: facciamo un video. Da lì nacque questa collaborazione con un videoartista, che in realtà è uno scenografo che si considera un videoartista. Ma sentivo un’insoddisfazione in questo rapporto, nella differenza che c’era fra noi nel modo di lavorare le immagini, nel modo di sentire l’arte. Anche successivamente, le vicende che mi hanno portato a La danza del drago giallo, il video che ho girato nel 2003, sono state simili. Anche in quella circostanza, con le persone che mi hanno aiutato tecnicamente, ci sono stati molti problemi. Addirittura ci fu una crisi e uno scontro molto duro. Allora capii che l’uso di questi mezzi non potevo demandarli ad altri se io avevo un’altra idea di realizzazione delle immagini. Ci fu un episodio che mi decise a cambiare modo, quando durante un montaggio fatto da un’altra persona mi resi conto perfettamente che non sarebbe stata la stessa cosa se l’avessi fatto io direttamente. Così ho passato anni a studiare i programmi di montaggio computerizzati, con molti che non capivano perché. Poi, però, alcune delle realizzazioni che ho potuto fare in questo campo sono dovute a questo mio impegno. Dentro di me è stato abbastanza pesante, ma poi mi ha ripagato. Mi sono detto: io non posso dipendere da nessuno nella costruzione di un qualcosa di così personale. Questa è la grande differenza con il cinema.

La videarte, in questo senso, ha più autorialità del cinema?

La videoarte è l’espressione di un soggetto che autonomamente può creare forme. Diciamo che, anche nella manipolazione più sottile di certe immagini, nella creazione di certi effetti, non ci può essere una sostituzione di persona. Dunque la videoarte ha una sua specificità rispetto al cinema. Il cinema è un lavoro d’équipe, un lavoro industriale, più asservito al carattere economico però, per questo provvisto allo stesso tempo di maggiori capacità di arrivare ad un grande pubblico. La videoarte è più legata a una persona che riunisca diverse competenze, per arrivare a dei livelli espressivi a cui il cinema non arriva.

C’è più libertà nella videoarte?

Più libertà ma anche più soggettività. I videoartisti non sono tutti “registi di matrimoni”.

Prima si parlava di Bill Viola, dell’America. Ma si potrebbe parlare anche dell’Inghilterra, del Belgio, dell’Olanda, paesi dove la videoarte è una ricerca avanzata da una ventina di anni a questa parte. Mi domandavo se anche in Oriente o in altre aree culturali diverse ci sia una sperimentazione in questo senso. Mi parlavano di molta sperimentazione in Cina, ma il portato della videoarte cinese ancora fatica a circolare da noi. In Cina, in particolare, pare che i videoartisti siano tanti, anche perché il video è il mezzo che sfugge meglio alla censura e può avere una circolazione più underground. Dall’altra parte si dice che Teheran sia un luogo fiorente di sperimentazioni. Mi vengono in mente, per esempio, i lavori di un’artista che ora vive Oltreoceano, che si chiama Shirin Neshat, che poi lavora con la scrittura araba come fosse un elemento pittorico nei video e nelle fotografie . Potrebbe venir fuori un confronto di ricerche?

Sicuramente frequentando la rete s’incontrano artisti sui quali vale la pena di soffermarsi . Oggi c’è un grandissimo fermento in questo campo. Ci sono però siti come You tube anche troppo interattivi, in cui tutti si confrontano con tutto. Forse dovremmo scegliere dei criteri di selezione, ma è difficile di fronte ad elaborati che non sempre hanno una caratteristica estetica di un qualunque tipo.

Ti è capitato di vedere cose interessanti?

Shirin Neshat è sicuramente una fotografa ed una videoartista di grande talento. Non vorrei entrare nei particolari della sua opera, veramente complessa. Tu alludi alla sua scrittura calligrafica sulla pelle… mi viene in mente Pillow book (1996) di Greenway, ambientato in Giappone: film multimediale e “televisivo”, fatto di schermi dentro schermi, di immagini incastonate dentro immagini, di frenetici cambi di scena, di testo e video combinati (i sottotitoli sono parte integrante del film). Lo schermo esterno e quello interno talvolta rappresentano la stessa scena, soltanto con qualche secondo di asincronia. La protagonista, ossessivamente, doveva farsi scrivere ideogrammi sulla pelle per realizzare un rituale feticistico. Mi ricordo che, al tempo in cui ho girato La danza del drago giallo (2003)46, questo tema della scrittura sulla pelle mi aveva molto colpito, indipendemente dal contesto, più o meno perverso, in cui lo colloca Greenway. Il tema, molto al di sopra delle possibilità di affrontarlo del regista, alludeva alla violenza di un linguaggio imposto dall’esterno e che non si riesce a trasformare in una realtà propria. Devo dire che Neshat propone immagini di grande efficacia, anche se l’accenno al corpo e quindi indirettamente al body painting, rispetto alla quale io nutro sempre qualche sospetto, mi fa sorgere un dubbio.

Nel caso di Neshat, però, ben diversamente dall’astratto e cervellotico Greenway, si tratta di una risemantizzazione di una tradizione femminile antica che esiste in molti Paesi del Medioriente e che è tipica, per esempio, delle donne berbere, che usano e usavano decorarsi le mani, in quel caso con geroglifici d’invenzione, per ognuna diversi. E i berberi, si sa, sono dei popoli pagani, pre-islamici, più antichi del Marocco.47

Non so se è un mio chiodo fisso, ma nella body art io vedo, quando non è sadomasochismo puro, esibizionismo, autoreferenzialità. In Neshat mi sembra che quest’ultimo aspetto non sia prevalente: scrivere sul proprio corpo e su quello di altre donne forse, per lei, significa non tanto denuncia di una sofferenza, ma affermazione di una realtà culturale contro chi la nega, testimonianza di una presenza nella storia. Gli arabeschi sulla pelle del volto velato e su quella delle mani, potrebbero alludere ad una ricerca che non sappiamo se è andata a buon fine. E se quest’accostamento diretto, però, fra figura, corpo e scrittura poetica, sicuramente di grande efficacia sul piano estetico, saltasse un passaggio e segnalasse un’assenza? O, se non proprio un’assenza, una piattezza?

Assenza o mancanza di spessore dell’immagine interna che nella vera poesia, invece, appare e scompare in una continua trasformazione che non si immobilizza mai in una figura.

È la nascita, la capacità di immaginare, a renderci uomini e donne quando ancora non abbiamo visioni definite e la parola. La scrittura, non imposta dall’esterno, ma come emergenza interna spontanea e trasformazione di immagini, ci consente di andare oltre la superficie dei corpi, di regredire in un mondo già umano quando ancora non è comparsa la visione del volto.

Mi colpisce comunque quello che Neshat ha detto sulle donne iraniane in una intervista che ho trovato sul web: «Le donne islamiche sono un mistero per l’Occidente, sono indescrivibili secondo i criteri occidentali; ma l’errore più grande è commiserarle come vittime. In Iran sono le donne che protestano, sono pericolose e per questo il governo cerca di opprimerle. Credo che le donne creino una rete, un movimento. Non sono per nulla rispondenti all’immagine proiettata all’esterno che le vuole immobili, passive: le donne dell’Islam hanno un’incredibile capacità di resistenza. Ma è profondamente sbagliato cercare di giudicare il rapporto uomo-donna nell’Islam con i criteri occidentali: le donne musulmane non vogliono competere con gli uomini, anche se vogliono avere una loro voce nella società».

Credo che su questo tipo di contenuti, scrittura e immagine femminile, la mia ricerca si incrocia con quella di Neshat.

Quanto alla nuova arte multimediale cinese, vive un momento di una grande vitalità produttiva, anche perché la videoarte è quella che meglio sfugge alla censura di governo non avendo bisogno, a differenza del cinema, di produzione e distribuzione in sala. Ma dalla ricognizione che si legge in Arte contemporanea cinese,la prima guida manuale in italiano uscita di recente da Electa, il quadro non pare creativamente così entusiasmante, mostrando molta arte che gioca con l’immaginario commerciale e pop. Ma mi sono chiesta se il taglio corrispondesse al gusto dei tre curatori, Jones, Salviati e Costantino.48

Per quello che riguarda la Cina: ho visto alcune opere di videoartisti presenti nel web, come He Jia o Quan Yang, che francamente mi sono sembrati molto freddi e concettuali. Più interessante mi sembra “My Sun” di Wang Gong Xin, esposta per la prima volta nel 2002 al Multi Media Art Asia Pacific, dove ha avuto un impatto enorme sul pubblico, costituendo il primo riconoscimento ufficiale della videoarte cinese. L’installazione rappresenta un panorama di 12 metri per 3 (tre proiezioni affiancate), all’interno del quale si sviluppa la storia di un’umile contadina cinese. La donna, che lavora nei campi, si ritrova all’improvviso in un mondo fantastico: viene clonata infinite volte (l’esercito di donne tutte uguali richiama l’iconografia socialista e allo stesso tempo affronta il tema del rapporto tra massa e individuo), trova una misteriosa fonte luminosa (il sole, Mao nella mitologia rivoluzionaria), che fa presagire la scoperta di sublimi tesori. La vecchia contadina si impossessa di un pezzo di sole che subito le sfugge dalle mani… Wang, produce opere per un pubblico ampio, formalmente semplici (pochi minuti di registrazione, un editing minimo e sequenze che funzionano in loop).

Molto curiose sono alcune tendenze dell’arte figurativa come lo stile popi, che ritroviamo nel cosiddetto Realismo Cinico di un gruppo di artisti che usa varie modalità espressive, dopo i fatti di Tiennammen. Tale stile, che per la deformazione delle figure ricorda l’espressionismo, ha una lunga, molto rispettata, tradizione. Durante le dittature imperiali esso consentiva un po’ di libertà. L’artista si fingeva pazzo e accettava di vivere ai margini della società come lo scemo del villaggio (il “fool” shakespeariano, che poteva dire impunemente la verità senza temere ritorsioni).

Appunto, si fingeva ma non era pazzo come Wolfi… mi sembra che questa potrebbe essere una lezione per noi occidentali…

Vivace appare anche il nuovo cinema cinese che ha avuto grandi riconoscimenti internazionali (Venezia e Berlino) e che utilizza effetti particolari di rallentamento dell’immagine…

Rispetto alle poetiche, per quello che posso capire, non ci sono sostanziali novità. Ci troviamo di fronte ad un miscuglio di pop, espressionismo e concettuale, in percorsi di ricerca dove predomina, fra ribellione, tradizione ed innovazione, l’effetto di un’accelerazione vertiginosa del cambiamento imposta dalla globalizzazione. Sfogliando cataloghi d’ arte cinese contemporanea si rimane colpiti dalla varietà, ma anche dalla drammaticità delle immagini, come quelle del political pop di Feng Zhengjie, 49 in cui compaiono enormi facce di donne con occhi quasi senza pupille o dalla pittura fotografica dalla quale si nota che il realismo socialista ha lasciato la sua traccia. Nella pittura fotografica50 i pittori cercano di imitare la fotografia, copiando da ingrandimenti realizzati senza alcun ausilio tecnico e lasciando solo piccoli segni d’ attività manuale! Come costruire un’automobile in legno, dipingerla e farla tirare da un asino!

Evidentemente, il passaggio dal moderno al postmoderno in soli dieci anni, qualche danno l’ha prodotto.

In questo panorama, a volte inquietante, ho trovato però un artista, Wang Wei,51 che crea istallazioni molto particolari. Alcune di queste sono realizzate con tubi da costruzione e legno, mentre quella per me più interessante e fatta con mattoni. All’interno di una galleria e con l’aiuto di operai nomadi, egli costruisce e demolisce in 20 giorni una stanza che non si può in alcun modo utilizzare come stanza. È il processo di apparizione e sparizione di un antispazio, che contrasta con lo spazio usuale e crea un effetto di disorientamento fisico e psichico… anche ne La perla tra le labbra,  viene costruito un muro con libri come mattoni. Esso poi viene decostruito ed i libri-mattoni diventano un binario. Questo processo serve ad orientare un movimento interno, una trasformazione e non un ciclo ripetitivo accompagnato da un vissuto di depersonalizzazione…

Comunque direi che più che altro io ho cercato di perseguire la mia ricerca autonoma, basandomi su una teoria e su un modo personale di creare immagini… quello che posso rivendicare è un iter formativo assolutamente originale. L’altro elemento da considerare certamente è che il mondo di internet, la rete, permette di immettere questi prodotti video nei circuiti web. E questo modifica sostanzialmente il significato del fare artistico, perché salta completamente tutto il sistema delle gallerie. Io, per esempio, ho una galleria virtuale nel mio sito, “Senza ragione” che, per altro, è anche molto frequentato. Credo che questo cambi molto il modo di fruizione del fatto artistico, soprattutto nella comunicazione globale. Forse in questo caso si dà un significato positivo della globalizzazione, che di solito ha invece un significato negativo. Anche se la globalizzazione dell’arte tende ad imporre i modelli concettuali di derivazione dadaista e surrealista. Tu, mi pare di capire, alludi a ricerche di videoarte di paesi lontani che la rete rende raggiungibili e fruibili da tutti.

La tecnologia digitale annulla le distanze e ci può avvicinare a linguaggi che differentemente potrebbero rimanere sconosciuti.

Credo sia difficile fare a meno non solo della tecnologia digitale, ma della tecnica in generale.

Anche una penna è tecnologia. Ne ho comprata una nei giorni scorsi che mi sembra più complicata di un computer. Questo per dire che non ci si può opporre per principio ad una dimensione tecnologica, perché la scrittura stessa è una tecnologia, non ci illudiamo. La stampa è una tecnologia. Per la concezione negativa della tecnica siamo molto malamente influenzati dall’antimodernismo del pensiero di Heidegger.

Tant’è che l’Istituto nazionale della grafica a Roma, già riunisce una collezione che va dai disegni di tradizione toscoemiliana del ‘500 alla videoarte passando per le matrici antiche e le calcografie…

Quando uno di noi accende uno schermo, deve ricordarsi che le prime rappresentazioni teatrali venivano fatte intorno al fuoco. È sempre luce. Deriva da fonti diverse, ma il principio dell’illuminazione è sempre lo stesso. Ed accendere il fuoco è una tecnica ben precisa. Questo lo dico per i sostenitori del teatro puro, quello in cui ci dovrebbe essere solo l’attore. Di notte l’attore non lo vedi: allora devi accendere un fuoco, una candela, una lampadina. Perché non si potrebbe accendere anche un computer?

È anche difficile, per te, prevedere che evoluzioni possa avere la tua ricerca. Questa della videoarte, del resto, è arrivata inaspettata rispetto alla pittura. E prima ancora, inaspettata era la pittura stessa…

Mai avrei pensato di fare della pittura a questi livelli e con questa continuità. E neppure della videoarte. Non ritornerò su un argomento che ho già sviscerato, proprio insieme a te, in altra sede. Dirò solo che questo’ultimo, quello della videoarte, è stato un percorso obbligato, come reazione al fatto che in questo ambito noi vediamo operare persone che hanno delle idee inaccettabili sul piano artistico ed umano. Questa loro mancanza di sensibilità e di idee, questo vuoto che hanno, li porta poi a essere incompetenti. Per cui tu fai un’opera teatrale, una di queste persone fa un video e te la rovina.

Il videoteatro poi, come si diceva, è punitivo, non esiste…

Al contrario, ci può essere un uso creativo anche del videoteatro, ma il discorso sarebbe troppo difficile e so anche di andare contro corrente rispetto a certe formulazioni di altre persone e di altri autori, ma questo è il mio percorso e la mia ricerca. Dove andrà non lo so: andrà dove mi portano i rapporti umani, perché non è che io sia interessato, di per sé, a mettermi davanti a un cavalletto a fare un quadro o ad un computer e fare un video. Se questo corrisponde a un’esigenza di rapporto lo faccio, diversamente vado a  fare una passeggiata e mi diverto parecchio di più…

Fino a questo momento abbiamo parlato più dell’aspetto figurativo. Però una parte importante de La perla tra le labbra è costituita dalla presenza della danza sia nella scena che nel video. La coreografa e danzatrice Brunella Baldi mi pare abbia dato un apporto fondamentale sotto questo aspetto.

Certo, non solo ballando lei stessa con grande maestria e raffinatezza, ma anche impostando in senso generale la coreografia ed i movimenti insieme a Bruno Cortini e Daniela Morozzi. Anche qui devo dire che sono state una serie di circostanze fortuite a portare ad inserire la danza in questa spettacolo anche se poi, a dado tratto, si è dimostrata una mossa determinante, che ha fortemente caratterizzato la messa in scena.

A posteriori molto interessante, almeno per me, è l’elaborazione che può derivare dall’intersezione della parola del testo, del video e della danza.

Innanzitutto va segnalato che la coreografia dei gesti rituali degli attori e la danza intervengono nel momento in cui si cerca di alludere ad una dimensione irrazionale: immagini e movimento senza parola. Inevitabile, per comprendere, il riferimento ad una prospettiva storica.

Nel 1908 Kandinskij cominciò a comporre alcuni interessanti piccoli pezzi teatrali a cui dovevano concorrere diversi elementi. Fra questi la musica, la voce umana come canto o nella lettura di un testo poetico e quella che chiamava “suono corporeo-psichico”, attraverso danze e poi il suono del colore, espresso da luci, costumi, scene. Ecco si è parlato molto del rapporto fra la pittura di Kandinskij e la musica. Meno del suo rapporto con la danza.52  Mi sembra che possa avere a che fare, seppur parzialmente, con un tipo moderno di teatro totale in cui s’incontrano differenti linguaggi.

Agli inizi del Novecento c’è un movimento di rinnovamento del teatro tedesco, che parte da alcuni artisti come George Fuchs, Von Laban53 e altri. E questo rinnovamento avviene in un clima culturale di tipo espressionistico. Fra questi personaggi c’era anche Kandinsky, che faceva parte di questo movimento insieme agli altri artisti riuniti intorno al Der Blaue Reiter. Kandinskij, in particolare, collaborò con un danzatore che si chiamava Sacharov. Molti di questi artisti cercavano di rinnovare l’arte in generale e in modo particolare la danza, la quale assume un ruolo fondamentale. Sia come danza in senso stretto che come danza legata al teatro. Teatro fatto essenzialmente di danzatori che portavano maschere. La maschera, ma in particolare la marionetta, diventava per loro il simbolo universale dell’umanità.

In questo senso si era mossa anche la letteratura, da Kleist a Hofmannsthal, che avevano dato a marionette e maschere un ruolo centrale nell’immaginario simbolista. Fino poi a Gordon Creig, che fondò la rivista The mask arrivando, addirittura, a teorizzare una supermarionetta… Ma, tornando allo spettacolo, nel tuo caso come è nato il rapporto con la danza che, nel precedente Notte d’amore, non c’era?

Il mio rapporto con la danza è nato in modo assolutamente casuale, recandomi in questa scuola di danza, il Florence Dance Center, dove avrei dovuto fare una mostra. Lì ho incontrato il coreografo e danzatore Keith Ferrone, il quale agli inizi non era affatto intenzionato ad affidarmi lo spazio per un’esposizione. Siamo rimasti a parlare per un’ora e venne fuori l’idea di una collobarazione con il suo Florence Dance Festival, al Teatro Goldoni di Firenze e in altri spazi. Io avrei dovuto fare le scenografie e lui le coreografie. Successivamente, siccome Ferrone non poteva più partecipare direttamente al progetto, ci ha presentato Brunella Baldi, danzatrice e coreografa, che insegna da molti anni.

E che ha alle spalle un lavoro molto importante con una delle formazioni di danza più importanti degli anni Novanta, il Balletto di Toscana.

Certo… torno un attimo indietro. Quelli storici, cui accennavamo prima, sono aspetti relativi alla danza che io ho conosciuto dopo. In quel momento il progetto dello spettacolo aveva avuto inizio da alcuni video sottotitolati che in parte avevo già realizzato. In essi c’erano elementi figurativi, quadri, in più uniti alla musica ed alle parole. Il video iniziale, intitolato Arte senza memoria, è la sintesi di un altro video che avevo fatto in precedenza su musiche dei coniugi Schumann (vedi il sito http://www.senzaragione.it). Tutto lo spettacolo procede a partire da una proposizione iniziale di un’arte che ha un rapporto con una dimensione irrazionale. In essa non ci sono ricordi, ma ci sono immagini e sensazioni. L’arte senza ragione determina, dopo uno smarrimento iniziale, una progressiva destrutturazione della coscienza, quindi delle possibilità di raccontare, di intervenire con ricordi. Il balletto inizia appunto dopo una poesia, nella fase in cui c’è un ingresso, simbolicamente, in un mondo irrazionale. Se si va studiare l’origine della danza moderna si nota un fatto interessante: agli inizi del secolo scorso, in Germania, c’è l’esperienza di una ballerina che si chiamava Magdaleine G. Secondo Eugenia Casini Ropa54 essa, insieme alla Duncan, precorre le tematiche espressioniste ed i tentativi connessi di “riteatralizzazione”, cioè di rifondazione del teatro a partire dal balletto e da quella che veniva chiamata “cultura del corpo”. Magdaleine G. era una donna che aveva una certa formazione artistica e musicale, anche se non si poteva considerare tout court un’artista. Un giorno decise si recarsi da un ipnotizzatore di nome Magnin per delle cefalee ricorrenti. Lui la ipnotizzò e sembra che lei riuscì a liberarsi dei mal di testa. Fortuitamente, nel corso di queste sedute sonnamboliche, la donna scoprì anche una propria capacità di reagire alla musica con delle pose plastiche, con movimenti spontanei, non suggeriti. Da lì nacque l’idea di fare delle performances. Magnin e la donna girarono tutta la Germania, diventando un’attrazione notevole. Sul suo caso dibatterono scienziati e intellettuali dell’epoca per capire la natura di questo fenomeno. Alcuni parlavano di uno stato di coscienza alterato, monoideico. Ma il fatto importante che emergeva, al fondo, era la scoperta che una persona normale possa celare una dimensione artistica, che può venire fuori nel rapporto con una pratica che oggi rientrerebbe nel campo della psichiatria. Sono riuscito a procurarmi il libro di Magnin Art et Hypnose, un vero reperto d’antiquariato. Il libro è interessante e solleva non pochi problemi pur avendo il pregio di non far riferimento a Freud. Per esempio il titolo è una contraddizione in termini nel senso che l’artista è per antonomasia libero ed autonomo al massimo grado. L’ipnosi, o il magnetismo, come sembra preferire Magnin, metterebbe però in condizioni una persona di accedere ad una creatività altrimenti nascosta. Come e perché non ci è dato capirlo, nonostante tutte le complicate dissertazioni del francese. Anche la valutazione di quanto di realmente artistico ci fosse negli spettacoli della Magdeleine è un discorso che, a distanza di tanto tempo, è difficile da fare. Viene però il sospetto che i sentimenti suscitati dalla musica in una donna in stato sonnambulico appartenessero alla meraviglia, allo stupore, come sembra suggerire Gallini con il suo libro La sonnambula meravigliosa55 piuttosto che alla dimensione estetica. In Art et hypnose, poi, fra vari pareri è riportato anche quello di uno studioso che mette in dubbio che le performances avvenissero in uno stato di sonno: si sarebbe trattato di uno stato di coscienza alterato, ben diverso dal sonnambulismo. Come dire che ciò che appare come manifestazione inconscia potrebbe non esserlo stato, anche se si faceva di tutto per avvalorare la tesi che lo fosse.56 Non si tratterebbe di una differenza da poco.Ci si riferiva all’inconscio od al subcosciente, nella terminologia di Janet, senza però sapere esattamente cosa fosse e cadendo in plateali, è il caso di dirlo, contraddizioni nel momento di evocarlo. È la solita storia che abbiamo già visto con i dadaisti ed i surrealisti. Sicuramente, però, il fenomeno del balletto sonnanbolico colpì molti artisti come George Fuchs. Fuchs, che scrisse La rivoluzione nel teatro, si riferisce direttamente all’esperienza di questa ballerina, perché il movimento della danza significava per lui la liberazione di forze “inconsce”, delle quali il movimento andava a rappresentare la parte più intima e profonda. Contro tutta la tradizione accademica dell’arte e della danza classica, contro i costumi della danza classica. In quegli anni emersero così una serie di danzatrici che operarono un rinnovamento di quella che era la tradizione della danza, nel senso di un tentativo di rapporto con una dimensione non cosciente, irrazionale. Per loro l’irrazionale, al meglio, era quello nietzschiano, per cui finivano nel dionisiaco, attraverso il riferimento alle danzatrici greche e alle baccanti. Ma si finiva anche nel grottesco e nel tragico. Questo tipo di espressività, in cui la libertà del corpo era istericamente esibita, risentiva fortemente di presupposti religiosi. George Fuchs fu uno degli interlocutori teorici privilegiati di Laban che è stato il vero grande innovatore della danza moderna, quello che ha creato un sistema di notazione dei movimenti dei danzatori in base ad un ideale inscrizione del corpo in un icosaedro. Con questo autori nasce l’utopia i di un rinnovamento dell’uomo attraverso una cultura del corpo. La danza, l’attività fisica, come presupposto per accedere a determinati stati mentali, come propedeutica a una trasformazione personale. Nascono comunità utopiche come quella famosissima di Ascona.

Anche Isadora Duncan, una figura che sembra in questi ultimi anni al centro di una certa riscoperta, parlava esplicitamente nei suoi scritti della necessità di andare oltre la danza classica “innaturale”, “che produce movimenti sterili, illudendo che la legge di gravità non esista”. Ma, soprattutto, Duncan parlava della danza come strumento di rivoluzione umana, di un “piacere (della danza, nda) che oltre a essere una gioia momentanea sia anche un inconscio progredire”, come scriveva nelle Lettere dalla danza, che però restano scritti frammentari, che non avevano la forza di una trattazione teorica strutturata57…

Certo, Duncan ha precorso in un certo senso le performances di Magdeleine G. Dal punto di vista teorico, Laban ha scritto libri di una certa profondità come Analisi del movimento e Analisi del rapporto del ballerino con lo spazio: egli si situa in una linea di continuità con due danzatori, Kurt Joss e Mary Wigmann, che creano delle coreografie in cui l’elemento espressionistico era anche nell’accentuazione dei costumi, in scene tragiche, fortemente cariche di emotività. Aspetto interessante, a partire da Laban,58 la creazione di coreografie collettive che potevano essere scritte per migliaia di persone. Nonostante il nazismo vedesse nella danza espressionista l’aspetto della degenerazione e la condannasse, ad un certo punto ciò non impedì che esso facesse propria l’idea di progettare un movimento che desse alla massa un’omogeneità di comportamento. Tale idea fu poi sfruttata, oltre che nelle rituali parate, anche nelle Olimpiadi del ‘36 organizzate dai nazisti.

Un tipo di ricerca che arriva, poi, fino ai nostri giorni, con Pina Baush.

Certamente, anche se credo che Bausch fece proprie anche le poetiche surrealiste da cui potrebbero essere derivate le atmosfere esasperate, assurde, tipiche di alcune sue scenografie. Essa si riallaccia idealmente anche a Laban e Wigmann, tenendo conto che nel rapporto fra questi teorici della danza e l’arte c’era certamente un riferimento alle avanguardie, ai dadaisti, oltre che agli espressionisti e poi, dopo gli anni venti, al Surrealismo. Kandinskij si situa in una linea di ricerca diversa da quella di Laban. Laban e Wigmann concepivano il teatro soprattutto come danza, ritmo e suono, dove la danza aveva la preminenza. Essi si rifacevano al versante più teso e drammatico dell’espressionismo, al Die Brucke, a Nolde, e realizzavano una danza assoluta dove il ballerino, con la violenta espressività del volto, esprimeva il suo conflitto con uno spazio ostile. Nella coreografia compariva l’antitesi fra urlo e geometria, fatta di una forma astratta, rigida e deformata. Kandinskij invece concepiva il teatro come danza, balletto e dramma, uniti insieme per realizzare una Gesamkunstwerke fondata esclusivamente sulla necessità interiore. L’accostamento, il contrasto, la predominanza dei vari mezzi espressivi, seguiva solo un criterio soggettivo. Per quanto riguarda la danza, Kandinskj rifiutava la mimica e l’espressività del volto: gli attori indossavano maschere in tinta con le calzamaglie assumendo l’impersonalità di un manichino. Anche nel teatro danza dada, troviamo manichini metafisici e balletti meccanici. Il motivo ispiratore è rappresentato dalla marionetta. Per Schlemmer59, il teatro totale è un modello esemplare di struttura comunitaria e la marionetta rimanda ad una condizione originaria che si esprime nel corpo umano o senza coscienza o con una coscienza infinita, come quella di Dio. Anche Kurt Jooss, maestro di Pina Bausch, è una figura particolarmente importante nel panorama della danza contemporanea, poiché a lui risale l’attuale Tanztheater, essendo state sue allieve le massime esponenti della rinascita coreografica tedesca. Secondo Jooss, alla base del lavoro coreografico deve esserci una sintesi significativa delle idee e dei sentimenti, ma perché ciò avvenga è necessario partire da un nucleo, cioè un messaggio da comunicare. È quello che lui chiama essenzialismo, che poi è il termine con cui si definisce il suo stile. Esempio prezioso della sua tecnica è la coreografia Tavolo verde, composta nel 1932, una danza della morte, come lui stesso volle definirla. Con la massima semplicità scenografica e coreografica ci presenta un balletto politico: individui-fantocci decidono la sorte altrui intorno ad un tavolo verde, e la morte compare in scena sottoforma di un gigante che si muove meccanicamente. Intorno agli anni sessanta in Germania si riannodano i fili con la tradizione espressionista. È in questo contesto che troviamo Pina Bausch, di cui tu parlavi. Nei balletti di quest’ultima troviamo la denuncia di un disagio, un tentativo di conciliazione del conflitto uomo donna destinato ad infrangersi sul muro dell’incomunicabilità. Siamo di fronte ad una contaminazione evidente con tematiche esistenzialiste. I materiali scenici usati dalla Bausch rimandano spesso alla natura, però spesso con un effetto di estraneità rispetto ad un corpo che lotta contro il suo stesso peso, in una tensione frustrata di un impossibile volo. Senza addentrarmi oltre in dettagli, volevo dire che, paradossalmente, è come se ne La perla tra le labbra ci fosse una citazione involontaria di tutta questa storia. La presenza stessa di Brunella Baldi, costituiva un richiamo vivente al percorso di ricerca al quale, in modo quanto mai lacunoso, da profano, ho accennato. Anche per me, come per gli espressionisti, la danza viene concepita come movimento senza parola, come qualcosa che esprime direttamente, e certo non mimeticamente, stati non coscienti. Anche se il mio irrazionale è piuttosto diverso dal loro! Sono stato molto colpito da una frase di Laban: «Sembra che il ritmo sia un linguaggio a sé e che il linguaggio ritmico trasmetta significati senza parole. Le popolazioni europee moderne appaiono del tutto prive di questa capacità intellettuale che permette di cogliere il significato espresso dai movimenti ritmici dei primitivi (…). La ricezione di questi ritmi di tamburo o di tamtam è accompagnato dalla visione del movimento del suonatore ed è questo movimento, una sorta di danza ad essere visualizzato e compreso». Nella “Perla” c’è una scena con una musica africana fatta solo di tamburi… il movimento senza parola, che è quello di un irrazionale sano, può comunicare un significato…Ma ci si rende conto di quale ricerca si possa effettuare partendo da questa idea? Comunque, non posso trascurare di esprimere il mio dissenso rispetto ai presupposti spiritualistici di Laban, Kandinskj e nei confronti delle contaminazioni surreali, implicitamente religiose, della Bausch. Secondo alcuni, il suo inconscio assomiglia a quello felliniano…..rendiamoci conto che non le fanno un complimento…

Elemento religioso che Kandinskij esprimeva chiaramente ne Lo spirituale nell’arte del 1912.

In quel saggio c’è anche il riferimento al genio solitario al vertice del triangolo della storia: concezione eroica dell’avanguardia. Comunque, nel pittore russo erano già presenti da prima riferimenti alla pratica del Sufismo. Ma un elemento religioso, come si diceva, c’era anche in Laban e in Fuchs. Per cui questi tentativi di rinnovamento o di ritrovamento di quello che loro chiamavano l’Urmensch, l’umanità originaria, erano destinati al fallimento… Quanto questi artisti, con un elemento religioso, riuscissero poi realmente ad accedere a una dimensione non cosciente e irrazionale, alla luce della psichiatria attuale e di tutto quello che sappiamo, è molto da discutere, come abbiamo già detto. Ma colpisce il fatto che, senza che fossi a conoscenza di tutta questa storia, io abbia costruito uno spettacolo teatrale come se, invece, questa storia l’avessi conosciuta e mi ci fossi riferito. Con delle varianti. Perché, ad esempio, la marionetta la considero come qualcosa da superare, non certo come un elemento addirittura “iperumano”. E poi, sicuramente, con una visione diversa del rapporto con la dimensione non cosciente, con l’irrazionale. La cosa interessante al fondo mi sembra questa, però: che a partire dalla vicenda di Magdaleine, viene fuori l’idea quasi utopica che in ogni uomo normale ci sarebbe un artista nascosto. Un’idea poi ripresa dal ‘68. E starebbe poi allo psichiatra liberare l’artista nascosto.

Può la psicoterapia far emergere questo essere artista in una persona che non sapeva di averlo?

Qui c’è anche la mia esperienza personale, perché io non pensavo affatto di poter fare quadri o della videoarte. Anche in base a tali considerazioni, questa vicenda mi colpisce molto.

Tu non parli di una possibilità rimossa, come dicono i freudiani, ma anche di una possibilità di crearla ex novo, di far fare al paziente una nuova nascita?

Se ci riferiamo al caso di Magdeleine G., l’ipnotizzatore (o meglio il magnetizzatore, come lui preferiva definirsi) non suggeriva alcunché alla donna, era lei che aveva la possibilità di esprimersi in quel modo; ma, per farlo, aveva bisogno di essere messa in uno stato di “sonno”. Come dire che accettava la propria capacità artistica, ma aveva bisogno di una messinscena, non saprei come definirla diversamente. Nel libro Arte e ipnosi scritto da Magnin, a proposito del rapporto con la danzatrice, ci si rende conto che l’ipnotizzatore non arriva mai al punto cruciale di comprendere la natura dei fatti creativi.

Essi possono emergere nel momento in cui ciascuno di noi scopre una dimensione irrazionale. La scoperta, può essere ricreazione di un qualcosa che è si perduto e che si ritrova. O, forse, il processo di ricreazione dà una forza ed una capacità espressiva nuova; potrebbe essere determinate il rapporto all’interno del quale il processo di ricreazione del primo anno di vita avviene. Qui ci sarebbe da fare un discorso molto complesso, ma anche interessantissimo, che riguarda la teoria della regressione… sono costretto però, in questo ambito, a lasciarlo da parte.

Ma questa Magdeleine riflettè, fece un’elaborazione, su quanto le era accaduto o, “femminilmente”, realizzò questo suo essere artista solo nel rapporto con lui?

Tutto rimaneva nel rapporto con lui. Aveva fatto danza, era una bella donna, però fuori da quel contesto di magnetizzazione non riusciva a produrre niente. Come dire, l’elemento creativo è femminile, però questa donna doveva chiudere gli occhi sulla propria realtà. Di fatto era lei, non lui, ad avere una sensibilità particolare, una capacità di interpretare la musica. Ma aveva bisogno, per farlo, di essere messa in uno stato che non era neanche sonnambolico, anche se lei credeva lo fosse.

Un tema che la tua ricerca ha incrociato…

Questo per dire che, senza accorgersene, in questo lavoro ci siamo riferiti a elementi chiave della ricerca che ci ha preceduto. Come, del resto, il riferimento all’opera totale, che era di Wagner, di Einsenstein…

Ma anche della ricerca dei simbolisti.

E poi di Kandinskij. Come se, in un certo senso, io avessi colto dei nessi che poi sono riuscito a esplicitare solo a posteriori, attraverso un’analisi storica. Fermo restando che chiaramente, secondo i teorici della danza moderna, la danza riusciva a esprimere qualcosa che la parola non riusciva a esprimere. Anche l’intenzione di Kandinskij, nel Suono giallo, era quella di esprimere qualcosa che non avesse un significato specifico. L’interesse era per il preverbale, ritenuto dimensione privilegiata. E anche quando la voce umana interveniva, lo faceva come suono, come poesia. Più che un significato, aveva un senso.

Pur indirettamente ricollegandoti a questo tipo di ricerche, però, nel tuo lavoro usi il linguaggio verbale, per quanto in forma di poesia.

Sì, il linguaggio c’è e la poesia consente di seguire un binario ben preciso. Anzi. Riconosco alla parola una capacità di regressione che forse – senza nulla togliere – né l’arte figurativa né la danza riescono ad esprimere

Come scrittura o come parola detta sulla scena?

Come entrambe perché, in realtà, certe ricerche possono rimanere dei fatti puramente formali. Mentre invece qui si fa riferimento ad un contenuto umano che è specifico: il contenuto della nascita, il contenuto della trasformazione, il contenuto dell’immagine femminile. Infatti c’è un passaggio, nello spettacolo, che dice: il desiderio, la fantasia, senza il linguaggio morirebbero.

Come se non ci fosse un elemento di identità?

Come se non ci fosse un elemento di resistenza. Il punto è che, chiaramente, i vari elementi devono concorrere tutti nel produrre un effetto artistico, senza però che il linguaggio concettuale blocchi altre espressioni.

Il linguaggio verbale deve essere fuso emotivamente con il resto?

Esatto, deve essere fuso a tutto il resto. Questa è una linea di ricerca importante. Come dire, uno costruisce un’opera, ma essa non gli appare immediatamente chiara nel suo senso più profondo. È come se uno fosse obbligato, in un secondo momento, a interpretarla per cercare di capire gli elementi di coerenza e i riferimenti storici che vi appaiono impliciti. Questo è accaduto specialmente per la danza, che avevo sempre seguito e apprezzato, ma sulla quale non avevo mai fatto studi approfonditi, né mai ero sceso nei dettagli teorici, di significato, e di differenza fra vari generi di danza e relative teorie.

Forse è proprio lo specifico della videoarte che consente di fare passi avanti in questa direzione? In fin dei conti, all’epoca di Kandinskij, non c’era la possibilità di superare la spazialità fisica, teatrale, dell’happening, la separatezza fra i vari elementi. Che, invece, in un’opera di videoarte arrivano a fondersi in un qualcosa di nuovo che li sussume e li trasforma…

Certo: aggiungendo che la videoarte, sicuramente, è stata molto anche videodanza.

Certamente. Basta pensare a tutta la produzione degli anni Ottanta in Inghilterra, realizzata da Channel 4, oppure alla ricchissima esperienza, in questo senso, dell’Olanda e del Belgio, con il lavoro di Jan Fabre ma, soprattutto, con quello straordinario di danzatrici e coreografe come Anne Teresa De Keersmaeker…60

Ma, provando a rispondere alla domanda di prima, non so se il video da solo sia unificante. Potrei dire che, per me, unificante è innanzitutto l’ideazione e l’esplicitazione dei nessi fra i vari aspetti della rappresentazione. L’elemento di coesione, anche se può essere più facile ottenerlo usando certi strumenti tecnici piuttosto che altri (come ho già accennato), per me rimane l’immagine interiore, quella che tu hai chiamato immagine inconscia non onirica. Con un paradosso: che la diversità dei linguaggi può essere uno stimolo aggiuntivo che ti spinge a sviluppare al massimo grado la coerenza dell’insieme.

Qui, nel video, nelle immagini in movimento, perfino il corpo che danza diventa segno grafico.

Questo si ritrova nella teoria della danza moderna, che non è un tipo di danza mimetica che racconta la favola di Cappuccetto Rosso. È simbolica. Esprime degli stati d’animo, ma che non sono riconducibili ad azioni concrete.

D’accordo, non è una narrazione, ma in questo caso non c’è neppure l’astrazione idealizzante del balletto classico che congela ogni emozione in un codice gestuale di elevazione…

No, diciamo che la danza moderna va nella direzione diametralmente opposta, nel senso della caduta, del rapporto con il terreno, nel senso della scomposizione dei movimenti…

Ma anche questa operazione di scomposizione dei movimenti, a me pare, conserva un elemento di passionalità, diversamente dal balletto classico, ma anche diversamente dagli ultimi esiti della danza contemporanea americana che, con coreografi come Merce Cunningham, è arrivata ad un’estrema dissezione intellettuale del gesto e del movimento, sempre più rarefatto, rendendo la danza sempre più astratta. Una passionalità che in Europa, invece, seppure in chiave di dramma, si ritrova nel Tanztheater di Pina Bausch che, nonostante certi parossismi di origine espressionista, esprime una sua poesia visuale, ha un suo ritmo fluido, e una ricchezza e complessità di racconto, cercando in lavori come Orfeo e Euridic,e ma anche nell’autobiografico Cafè Mueller, di esplorare la vita interiore e il rapporto uomo donna, anche se spesso raccontato come una sanguinosa schermaglia…

Forse è qualcosa di radicalmente diverso da questo tipo di atmosfera depressiva, sottesa nelle rappresentazioni di Pina Bausch. È il suo stesso aspetto, la sua figura, prima ancora delle coreografie, a far trasparire un elemento tragico, anche se mascherato in una ricercatezza formale all’interno della quale si fondono elementi di danza, di non danza, di inconsueto realismo. Penso ai balletti nei quali compare la pioggia battente ed i danzatori si spruzzano acqua addosso da bottiglie di plastica o dalla bocca: tristezza ed euforia dionisiaca sapientemente mescolate insieme. Penso a certe scene in cui una ballerina viene baciata sui seni e sulle labbra, con un rumore di schiocco che sembra negare ogni coinvolgimento, da due uomini uno di seguito all’altro: la donna poi si allontana volgendo le spalle, rigida nella figura, inorridita e stupefatta nell’espressione.61 Riguardo alle cadute della nostra danzatrice, per esempio, nella La perla tra le labbra il fatto interessante è che, ad un certo punto, la ballerina cade due volte, la terza volta è una capriola. È stata introdotta nell’ultima parte: la capriola rappresenta una nascita. E la nascita non è un cadere nel mondo, nell’angoscia, nello spaesamento, avrebbe detto Heidegger. Nel movimento di Brunella, nella careografia che essa stessa ha elaborato, si può leggere molto della storia della danza moderna, in particolare della danza espressionistica. Anche se, nel contenuto della danza nel nostro spettacolo, l’elemento espressionista cambia di significato, per non dire che scompare. Viene meno quell’elemento tragico, disperato, meccanico nel senso di disumano, legando molto di più la danza ai temi del rapporto uomo donna. Rapporto uomo donna che non finisce, lo sottolineo, nella disperazione e nell’impotenza. Anche se si tratta di linguaggi, appunto, non mimetici. Si parla di sessualità, ma le figure sono spesso decostruite, i movimenti della danza non sono solo movimenti del corpo, ma sono movimenti nello spazio, nello spazio scenico non pensato, però, come facente parte di una natura estranea ed ostile. Cioè, detto in altri termini, noi facciamo allusione ad un dimensione che va oltre la nascita, quando il bambino vive la realtà materiale non umana come estranea ed ostile. L’urlo, il grido primordiale del neonato, non si perde in un mondo incapace di ascoltarlo. Potrebbe essere un grido di speranza e non di disperazione

Questo andare più in profondità, non è dovuto anche al fatto che lo sguardo del regista, qui, è anche lo sguardo di uno psichiatra, di uno scienziato che ha una più profonda conoscenza dell’umano? In termini concreti, assistendo allo spettacolo, mi sembrava che tu, in quanto regista e psichiatra, aggiungessi alla coreografia e all’insieme dello spettacolo calore là dove doveva essere, tridimensionalità là dove le immagini risultavano un po’ piatte, e così via.

Io penso che il discorso psichiatrico non intervenga direttamente. Interviene, semmai, l’abitudine all’elaborazione. In altri termini, partendo da elementi separati, come un videoclip o la ripresa di una sequenza di danza, si riesce a costruire un insieme attraverso la scoperta dei nessi che tengono unite le varie parti di quest’insieme. La capacità, forse, è quella di aggiungere qualcosa quando il messaggio non è sufficientemente comprensibile.

Forse la mia percezione non è esatta, ma avevo come la sensazione che tu gli dessi come una particolare coloritura, uno spessore, un movimento a volte. Che ci fosse quest’aggiunta che non è giustapposta o violenta ma, al contrario, dà maggiore morbidezza alle immagini.

Questo non so. Ma certo io faccio un percorso completamente diverso da quello della danza. I coreografi come Laban, partivano dal corpo per arrivare alla trasformazione mentale. Io penso che la trasformazione mentale debba essere a monte, per ottenere dei movimenti corporei diversi.

In questo caso, naturalmente, le difficoltà sono state notevoli, perché la danzatrice, per quanto sia una eccellente coreografa e colta anche dal punto di vista della teoria, non ha una formazione nel campo psichiatrico. Anche se si occupa di “danza terapia”62. Però, in questo caso, non c’è stato nessun indottrinamento, quindi il rapporto è stato un rapporto assolutamente non cosciente. Anche la regia non è mai stata una regia fatta di imposizione. Io ho lavorato più che altro sull’elaborazione dei contenuti impliciti nei video e nelle varie scene, cercando di trovare un collegamento fra azioni sceniche che fossero congruenti con il suggerimento che derivava dai video. Fermo restando che, in un lavoro teatrale dove l’elemento visivo è predominante, la parola non riesce a essere cancellata.

Anche perché una parola poetica…

È una parola che fa immagine. È poetica, ma allo stesso tempo ha dei contenuti che si riferiscono a una precisa concezione della mente, a una precisa teoria. Anche se non vengono mai messi in primo piano. Sono suggeriti indirettamente. Forse questa, è la sua forza. Noto che ad uno spettacolo del genere si avvicinano tantissime persone.

Arriva anche a chi non ha una conoscenza diretta della teoria o non conosce l’abc del lavoro psichiatrico. Lo spettacolo ha un potere di penetrazione maggiore?

Esatto. L’interpretazione artistica, per me, è interessante proprio per questo, perché ci consente di avvicinare le persone senza passare attraverso l’elemento teorico dichiarato e esplicitato in una maniera fredda o concettuale. Ha un potere di penetrazione maggiore, anche perché ha un potere di espressione maggiore, per una trasformazione che è già avvenuta a monte. Quindi, non è che di per sé il teatro sia terapeutico. Il teatro esprime una ricerca, qualcosa che deve essere già avvenuto a monte.

Da questo che dici si deduce il fallimento completo del metodo Grotowski, che è stato preso a riferimento di tanta ricerca sperimentale dagli anni Sessanta in poi, nel tentativo di superare un teatro di tipo borghese, razionale, incentrato sulla parola. Il polacco Jerzy Grotowski 63, l’ideatore del teatro povero, come è noto, aveva messo a punto una teoria delle azioni fisiche che, ripetute infinite volte, avrebbero portato l’attore-danzatore a far emergere una sua realtà più profonda, irrazionale. Prendendo elementi dal teatro e dalla meditazione orientale, in realtà, questo metodo, al più, riesce a portare a uno stato modificato di coscienza, niente di più.

Grotowski teorizzava un antiteatro e, per una fase, rinunciò anche alla rappresentazione. Era più che altro un tentativo personale, una ricerca su di sé, che assomigliava molto al teatro danza… ma egli rimaneva impigliato, come unico orizzonte, nella realtà materiale del corpo.

Ma più razionale. Il teatro danza, se penso a Pina Bausch, per esempio, ha un elemento più emotivo…

…bisogna tornare a quel discorso fatto altre volte: siamo di fronte a una forma artistica completamente nuova; anche se, ripeto, ha un legame con una tradizione culturale e una serie di ricerche che altri hanno fatto. Anche per quanto riguarda la videoarte, è chiaro che altri abbiano fatto della videoarte, ma è altresì chiaro che nessuno ha un riferimento ad un concetto di immagine interna come quella che posso avere io. Salvo ovviamente chi l’immagine interna l’ha scoperta. Ma si può fare lo stesso discorso per la pittura. Vedo i quadri di Pollock e mi domando: cosa sono? Immagini interne o allucinazioni? Paradossalmente, viene fuori un aspetto che questa ricerca artistica, che sul piano del linguaggio ha un’assoluta autonomia, ha però un retropensiero, una ricerca psichiatrica che è assolutamente rigorosa. Non a caso il precedente Homo Novus 64 presentava una riflessione sull’arte, in particolare dei primi decenni del Novecento e, contemporaneamente, una parte di questo libro ripercorreva la storia di centocinquanta anni di psichiatria, la quale non era riuscita mai a dialogare con gli artisti. Forse, in un primo momento, questo aspetto psichiatrico è sfuggito. Però esso determina la circostanza per la quale, quando vado a fare un’immagine, io ho già fatto una ricerca sul significato dell’immagine stessa. Ho già elaborato una teoria, per cui posso distinguere l’immagine dall’allucinazione, dalla pseudoallucinazione, dall’illusione, dalla percezione della figura. Ma, soprattutto, posso distinguere i sogni o dal falso ricordo o dall’allucinazione, la quale è un significante vuoto. Molti, invece, teorizzano che l’arte nasca dall’allucinazione, con un significato di vuoto, senza senso. Come, ripeto, a me appaiono significanti vuoti le tele di Pollock e chi danzava su queste tele.

In un certo senso, Pollock è il corrispettivo di Grotowski. Che altro l’action painting e in particolare il dripping, se non azione fisica senza un immagine?

È un agire fisico che non ha contenuto psichico. Mentre, invece, anche il montaggio del video, paradossalmente, presume un’immagine interna, una reazione di vitalità. Dunque, non è la stessa cosa. I video apparentemente si assomigliano. Anche nel nostro teatro, per esempio, c’è un video in cui sono fotografate delle mura. Le mura sono tutte uguali. Pietre, mattoni, calce… In realtà, se le fa uno o le fa un altro, queste fotografie hanno un significato diverso, perché si inseriscono nella ricerca con significati diversi. È evidente che, sul piano formale, certi quadri o certi video possono avere analogie con altri, ma è anche vero che, sul piano dei contenuti, noi abbiamo una presunzione enorme, che vale la pena di specificare, che in realtà noi siamo portatori di un’arte completamente nuova rispetto a chi non ha fatto una ricerca come la nostra sulla realtà psichica. Si può giocare sull’ambiguità, molti si avvicinano a questo tipo di linguaggi artistici perché, apparentemente, assomigliano ad altri. Apparentemente trovano un elemento rassicurante, poi, però, si trovano di fronte a qualcosa di ben diverso. Una persona mi ha detto di essere venuta a vedere il mio spettacolo e di aver capito tutto. Mi viene da pensare che non abbia capito granché. Io stesso per capire che cosa era stato fatto, ho dovuto studiarci su. Così, o quella persona è particolarmente intelligente oppure è piuttosto paranoica. Dunque il rapporto con l’elemento artistico è il punto di partenza di una ricerca. Una ricerca che va verso la scoperta di contenuti che, magari di primo acchito, non vedi o non presupponi.

Questo implica che ci saranno degli sviluppi ulteriori, imprevisti.

Sì, immagino che ci saranno sviluppi ulteriori; rifarò alcuni video. Una delle caratteristiche della videoarte è proprio questa: la continua trasformazione. Trasformare gli elementi visivi, quindi accettare una estrema mobilità. Lavorare con gli strumenti della tecnologia digitale dà la possibilità di un cambiamento molto rapido. La tela, una volta che è stata realizzata, resta quella. Anche se l’ultimo Picasso, come ho già detto, faceva dei disegni fra loro molto simili, che sembravano quasi dei fotogrammi. Era più interessato al movimento dell’immagine che all’immagine stessa: però il supporto su cui viene realizzata, cambia radicalmente anche il significato dell’opera. Il fatto di lavorare con delle immagini che non hanno una matrice materiale è solo un fatto tecnico? Oppure rispecchia una mentalità di persone che fanno una ricerca che si trasforma con una rapidità notevole e dunque ha bisogno di mezzi adeguati. Non c’è bisogno della materialità della tela o della fissità della figura. Che è rassicurante. C’è bisogno di qualcosa che possa cambiare nel giro di poco tempo in relazione al progresso di quella ricerca che si sta conducendo.

Ho notato che, cosa del tutto nuova per il teatro, lo spettacolo è completamente sottotitolato…

Il progetto originale di Daniela Morozzi prevedeva di affrontare tematiche dei non udenti, ma poi io ho pensato che non potevamo fare un’opera su di un handicap fisico. Abbiamo affrontato il problema della sordità tangenzialmente e focalizzato soprattutto la sordità psichica. Essa è una forma d’incomprensione e d’insensibilità dei cosiddetti normali, che rende le difficoltà dei disabili insormontabili. Spesso, invece, si tratta di persone le quali, con i dovuti accorgimenti ed interventi medico-diagnostici, possono avere uno sviluppo psichico e linguistico del tutto sovrapponibile a quello delle persone fisicamente sane.

I sottotitoli, appunto, rendono fruibile lo spettacolo anche per i non udenti, che in questo modo possono partecipare come tutti gli altri.

Il sottotitolo, spesso, rimane un elemento antiestetico, estraneo alla rappresentazione, come si vede bene nei dvd multilingue: nel nostro caso ci siamo accorti che il pubblico reagiva al sottotitolo come se fosse una parte essenziale del video. Non aveva poi importanza se lo scritto era seguito in toto o parzialmente. Così, nella rielaborazione video dello spettacolo (videoteatro “non punitivo”), che ho proposto il 2 dicembre 2006 al Florence Dance Center di Firenze, esso compariva non in basso ed a margine, ma come movimento di parole, all’interno ed al centro delle scene e delle immagini pittoriche. Successivamente, è venuta l’idea di tendere delle strisce di tela, che attraversano il palcoscenico nella parte finale, con sopra scritte frasi tratte dal testo: come dire che il sottotitolo si è trasformato ed ha generato quella che non so se si possa chiamare una scenografia di parole. Mi verrebbe di dire un’antiscenografia. Antiscenografia perché, di solito, le scenografie sono fatte di immagini ma non di parole e, ora che ci penso, anche inizialmente, sul tappeto rosso della danza, sono stati, nelle ultime rappresentazioni, posti tanti libri aperti come uno stormo di uccelli dalle ali bianche. Libri che, poi, vengono chiusi per formare mura di parole e vengono allineati a suggerire la presenza di un binario, cioè una capacità teorica e linguistica ben precisa che si deve avere per giungere alla trasformazione. È il testo il vero generatore delle immagini? Esso esce dallo schermo ed entra autonomamente nella scena.

Da ciò deriva che io non attribuisco al preverbale uno statuto privilegiato, come Kandinskj, ma propongo la dialettica continua fra preverbale e verbale. L’uno senza l’altro non avrebbe senso. Inoltre, questo processo per il quale il sottotitolo che segnalava lo stigma e la differenza del non udente si integra nell’insieme dello spettacolo, suggerisce la possibilità di un altro processo: quello dell’integrazione e della possibilità di comunicazione fra udenti e non udenti i quali, anche se alcuni stentano a crederlo, sono esseri umani come tutti gli altri.

1 Nel 1953 Fontana in una mostra personale al Naviglio espone alcuni buchi appositamente retroilluminati. La superficie pittorica rimane cancellata dal controluce e i quadri si trasformano in “schermi” forati che infrangono ed irradiano la luce. Già i futuristi avevano affermato che il movimento e la luce distruggono la materialità dei corpi cfr Fontana a cura di Flalminio Gaddoni Sate Bologna 1994.

2 L’arte concettuale richiede un atto di fede, la credenza che la Ruota di bicicletta(1913) è l’O di Giotto. L’artista diventa il sacerdote di una metamorfosi religiosa dell’oggetto.

3 Concettualità vuota. Nel 1915 compone un testo dal titolo The in cui l’articolo è sistematicamente sostituito da un asterisco ed i verbi devono essere privi di senso. “è soltanto una forma di gioco” in Marcel Duchamp, Scritti, Abscondita, Milano, 2005 p. 223.

4 Man Ray, Autoritratto, Se, Milano, 1998, p. 222.

5 Scrive Man Ray che anche lui fu sul punto di suicidarsi con una rivoltellla a causa dell’obesità, della cirrosi epatica e dell’’insonnia, cfr. op.cit. p. 204-205.

6 Man Ray, Autoritratto, op.cit., p. 222.

7 Nei primi numeri della rivista La revolution surrealiste, le cui pubblicazioni iniziarono nel 1924, ci fu tutto un dibattito in cui si sosteneva che ci si suicida come si sogna. Come dire che a chiunque può accadere di sognare ma anche di suicidarsi. Scriveva Antonin Artaud: «Il suicidio non è che la conquista favolosa e lontana degli uomini che pensano bene (…)», in La rivoluzione surrealista, a cura di Antonio Bertoli, Giunti Citylights, Prato, 2007, p. 66.

8 In to me/ Out of me, a cura di Klaus Biesenbach, catalogo in edizione italiana edito da Electa.

9 C’è una celebre foto di Man Ray, in proposito, che ritrae Marcel Duchamp come Rose Sélavy. La foto fu ritoccata da Duchamp stesso che assottigliò le mani. In questa foto del 1921 Duchamp en travesti indossa il cappello di Germane Everley di cui Picabia fu amante. Vedi Lea Vergine, Body art e storie simili, Skira, Milano, 2000,p. 13.

10 Per la collaborazione Warhol e Basquiat vedi Collaborazioni. Riflessioni ed esperienze con Basquiat, Clemente, Warhol di Bruno Bischofberger in Emanuela Belloni (a cura di), Basquiat, Charta, Milano, 1999, pp. 141 et ss. La collaborazione con Warhol danneggiò notevolmente Basquiat per le forti reazioni negative dei critici.

11 Per lo stesso Achille Bonito Oliva, pur acuto critico engagé: “La pop art è quel linguaggio che, dando statuto d’arte alle immagini e agli oggetti di consumo della società di massa americana, ha indicato le vie di un linguaggio sperimentale capace di dare rappresentazione al nostro quotidiano ormai globalizzato dalla telematica”, dal catalogo della mostra American pop art (catalogo edito da Nuova Tavolozza, Palermo, 1998). Anche se in altra occasione afferma: “Se la pop art era un’apologia dell’artificio e del mondo della produzione e se feticizzava la vita nei suoi particolari, questo vuol dire che non possedeva e non poteva avere una capacità di giudizio sul mondo che non fosse anche un’adesione pragmatica e ottimista al mondo stesso”.

12 Il riferimento è al fimato My Hustler di Andy Warhol. Nel film del 1965 si racconta la storia di un “ragazzo a noleggio” invitato a passare un weekend nella bella casa al mare di un anziano scrittore misogino. Tutti gli ospiti della casa tenteranno a turno di sedurre il ragazzo diventato in breve il loro oggetto dei desideri più morbosi. Warhol metteva dell’Lsd nel succo d’arancia che bevevano i protagonisti . Paul America raccontava che Warhol che lo aveva ribattezzato America, eleggendolo a simbolo della bellezza americana tutta fisico e senza testa, non gli rivolgeva mai direttamente. Gli parlava sempre attraverso interlocutori, anche in sua presenza. Sfruttato come puro oggetto sessuale, Paul, il cui vero cognome, era Johnson, finì nel tunnel dell’eroina.

13 “Un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha alcun bisogno, ma che lui – per qualche ragione – pensa sia una buona idea dargli. è molto meglio fare della Business art che della Art Art” in Andy Warhol, La filosofia di Andy Wahrol, Bompiani, Milano, 2006, p. 114.

14 Il bersaglio di Bragaglia sono i tentativi di cronofotografia, che attraverso una serrata successione di scatti consequenziali e attraverso la loro fusione, tentano di rivelare gli infinitesimali modi di essere di una forma vivente in un certo lasso di tempo. Fra i pionieri di questa tecnica, che prometteva di realizzare il sogno leonardiano di visualizzare il movimento umano, c’erano l’americano Eadweard Muybridge e il fisiologo francese Etienne J. Marey. Bragaglia contrappone loro la fotodinamica, che nelle sue intenzioni servirebbe a riprodurre “quella parte di movimento che produce la sensazione, dalla quale ancora palpita, nella nostra coscienza, il ricordo”. Alla cronofotografia di Marey sembra rifarsi anche Balla, intorno al 1912, quando dipinge La bambina che corre sul balcone. E alle stesse fonti di Balla guarda anche Severini con i dipinti Dinamismo di una danzatrice e Ballerina a Pigalle, realizzati dopo che nel 1906 si era trasferito in una Parigi dove il ricordo di Marey era ancora vivo. In questi quadri, in particolare, Severini dice voler rendere visibile “la sensazione” della danza e le sue ripercussioni emotive.

15Giovanni Lista (a cura di), Futurismo, Rusconi, Genova, 2005, p. 41.

16 cfr. Angela Madesani, Le icone fluttuanti, Mondadori, Milano, 2002.

17 vedi Luc Ferry, Alain Renaut, Il 68 pensiero, Rizzoli, Milano, 1987.

18 Luc Ferry, Homo Aesteticus, Costa, Genova, 1991, p. 296.

19 Karl Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Milano, 1950.

20 Nel 1919 fu uccisa Rosa Luxemburg appartenente al movimento Spartacus da cui sarebbe nato il partito comunista tedesco. Nel 1921 fu fondato il Partito comunista e nacque il costruttivismo che sanciva la fine dell’arte subordinandola al principio di utilità. Il 1921 è anche l’anno in cui Ellen West, pseudonimo di una giovane donna ebrea, si suicidò con l’aiuto del marito che le fornì il veleno, su istigazione del famoso psichiatra esistenzialista Binswanger, che seguì i consigli di un altro psichiatra Hoche, ideatore dell’eutanasia dei malati di mente in Germania.

21 Walter Morghenthaler, Arte e follia in Adol Wolfi Alet, Padova, 2007, p. 168.

22 vedi R. M. Wittkower, Nati sotto Saturno, Einaudi ,Torino, 1996.

23 Alla luce di questo discorso appare diversa la valutazione e l’analisi da condurre sull’opera di Virginia Wolf che nel 1924 pubblicò Mrs Dallaway  (in cui Septimus, un reduce della guerra, si suicida), a cui la malattia, secondo alcuni una psicosi maniaco depressiva, impediva di scrivere. Sta di fatto che prima di suicidarsi nel marzo del ‘41, ella scrisse una lettera al marito in cui confessava di soffrire di allucinazioni. Sembra che questo sintomo, patognomonico della schizofrenia, si sia presentato fin dall’adolescenza quando durante un episodio psicotico la donna sentì degli uccelli cantare in greco. Al marito, poco prima di morire, si rivolgeva con queste parole: “Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi, faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare (…)”. Nel caso della Wolf si vede bene che la malattia mentale non è la chiave d’accesso alla produttività artistica. La Wolf si uccide durante la guerra dell’Inghilterra contro i nazisti per un’idea di incurabilità, per liberare il marito dal fardello che essa stessa avrebbe, con la sua malattia, costituito. Il suo personaggio, Septimus, si suicidava con l’idea che la morte fosse un abbraccio, cioè un gesto d’amore, si uccideva per non cadere nelle mani degli psichiatri che Fritz Lang rappresenterà come complici di un pazzo criminale, nei suoi film sul dott. Mabuse, il primo dei quali è del 1922.

24 Scrive Lea Vergine in Body art e storie simili, Skira, Milano, 2000. p. 8: “Al pari di Artaud vogliono provare tutte le possibilità che ci sono date di conoscerci per mezzo del corpo e della sua perlustrazione. La messa a nudo di questo diventa l’estremo tentativo di metterci al mondo di nuovo. Le esperienze sono il più delle colte autentiche e dunque dolorose, crudeli. Coloro che sentono dolore hanno bisogno di aver ragione”. E la stessa autrice in L’arte in trincea, Skira, Milano, 1996, p. 199: “La body art non si manifestò sobriamente; mise allo scoperto l’organizzazione mostruosa del reale e di tutte le infermità e sofferenze. I body artisti non sceneggiarono la storia dei personaggi, divennero essi stessi la storia e i personaggi… si scatenarono in un’incalzante drammatizzazione isterica, conflitti fra desiderio e difesa, licenza e divieto, pulsioni di vita e di morte, fantasie distruttive e catartiche. Tutto venne elaborato: un qualunque evento di una qualsiasi giornata: le radiografie al torace e al cranio, la registrazione della propria voce, il travestismo, cerimoniali e affabulazioni psicopatologiche”. Tratti che non riguardano, va detto, solo il passato, cioè la body art nata nel ’68 e dintorni. Basta pensare ad artisti che oggi vanno per la maggiore, tra i più quotati del mercato internazionale dell’arte: come Damien Hirst, con le sue visioni tanatofiliche che lo hanno reso l’artista più ricco al mondo dopo Jasper Johns o come Marc Quinn, approdato al successo internazionale con opere schock come la scultura Self, realizzata con cinque litri di sangue congelato che l’artista si è tolto nel corso dei mesi, o come le statue realizzate utilizzando modelle focomeliche o con amputazioni. Su Quinn, in particolare, vedi Danilo Eccher, Marc Quinn: come nella terra di nessuno, in Marc Quinn, Milano, Electa/Macro, 2006.

25 Jean Dubuffet, Asfissiante cultura, Ascondita, Milano, 2006, p. 76.

26«Il 1 giugno nel Bateau-Lavoir si suicidava il pittore tedesco Wieghels, che occupava uno degli studi situati di fianco alla porta di entrata di Place Ravignana. Fernand Olivier dice che Wieghels era di quelli che partecipavano alle riunioni nelle quali si provavano le droghe – «le meravigliose sessioni di oblio – come Fernand le chiama – che allora si tenevano nello studio di Picasso», in Fabre Joseph Palau, Picasso (1907-1917), Rizzoli, Milano, 1991, p. 84.

27 Marina Picasso, Mio nonno Picasso, Archinto, Milano, 2004, p. 54.

28 ibidem, p. 97.

29 dal quotidiano La Repubblica del 15 aprile 2007, Dora musa inquieta dietro il capolavoro, di Concita de Gregorio. Articolo insidioso perché parte dalla verità che le donne sono state sfruttate e sottomesse intellettualmente dagli uomini per negare l’evidenza che non basta avere un abbozzo d’ idea per essere capaci di realizzarla. “Il segreto di Guernica è una donna. C’era lei, quei giorni. È scesa lei in strada il pomeriggio del primo maggio del ‘37 a comprare Ce soir. Ha visto lei per prima, salendo fino all’ultimo piano le scale dell’atelier di rue des Grands Augustins, la foto in bianco e nero di prima pagina: «Immagine della città di Guernica in fiamme». È lei che gli ha detto: «Guarda». Lui stava conversando con un amico, lei si è avvicinata, ha messo tra i due il giornale e ha detto solo questo: guarda. È suo il volto della donna che regge la lampada al centro della tela. È lei che

ha dipinto le minuscole linee che formano il manto del cavallo, «ho capito come vuoi che siano, lascia che sei stanco: faccio io». È lei che ha saputo, prima ancora che lui cominciasse a tracciare una sola linea, che quel dipinto sarebbe stato un’altra cosa, una cosa diversa da tutte le altre cose del mondo. È perciò lei che ha ripreso in mano la Leica che aveva lasciato ferma da più di un anno, da quando lo aveva incontrato quel giorno al Deux Magots, lei che ha montato senza chiedere permesso due luci nella stanza e che ha cominciato a scattare. Dalla tela bianca – dal niente – a Guernica. Erano centinaia di foto, ce ne sono arrivate poco meno di sessanta”.

Picasso ha realizzato Guernica, il che significa che ha fatto propria un’intuizione ed è stato in grado di tradurla in un’opera. Anche se sembra che parte del dipinto sia stato realizzato dalla Maar, in particolare il tratteggio incrociato sul fianco del cavallo. Guernica però è il punto di arrivo di tutta una ricerca precedente, di cui fa parte la stampa La Minotauromachia (1935) con elementi formali vicini a Guernica e Songe e mensonge de Franco (1937) dove è presente il tema politico collegato alla Spagna. Quanto alle foto, già nel 1935 il pittore catalano aveva riflettuto sul fatto che “Potrebbe risultare interessante fissare fotograficamente non le fasi di un quadro ma le sue metamorfosi”, in Mario De Micheli (a cura di), Scritti di Picasso, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 69.

Secondo la storia che racconta Gijs Van Hensbergen, le cose potrebbero essere andate diversamente. L’idea del dipinto potrebbe essere stata inizialmente del solo Picasso. ”La mattina del 28 aprile il titolo de L’humanité, il giornale letto abitualmente da Picasso tuonava: «Mille bombe incendiarie lanciate dagli aerei di Hitler e Mussolini», in Gijs Van Henserbergen, Guernica, Il Saggiatore, Milano, 2006, pp. 51-52.

Picasso non era un santo, ma Dora Maar sicuramente non era un martire come ci vuol far credere. Avrebbe amato follemente e per tutta una vita un uomo che la voleva morta? Sarebbe stata una pazza in partenza. D’altronde la sua adesione, come fotografa e pittrice, al surrealismo la rendeva una candidata ideale per la dissociazione ed il suicidio, come abbiamo visto per altri personaggi.

Che dire di Lacan? Si può affermare che è stato in Francia, insieme a Sartre e Foucault, un epigono di Heidegger, filosofo cattolico e nazista. Il tedesco, dopo aver tentato di divenire gesuita è andato incontro a problemi psichici piuttosto seri. Io dubito che Lacan sia stato in grado di aiutare Dora, considerando le condizioni in cui aveva ridotto sua figlia Sybille.

30 cfr. Francoise Gilot, Life with Picasso, Anchor Books, New York, 1989, pp. 349-351.

31 Ingo F. Walter (a cura di), Pablo Picasso, vol. II, pp. 632 et ss.

32 ibidem, p. 678.

33 A proposito del rapporto fra Picasso e la sua ultima compagna Jacqueline, vedi Valère Bertand, Figures de la passion, in Picasso intime, Pinacotheque de Paris, Paris, 2003.

34 Umberto Boccioni, Pittura Scultura futuriste, Abscondita, Bari, 2006, p. 62.

35 ibidem, 76.

36 Le bugie di Boccioni, però, avevano le gambe corte. Anche perché Boccioni stesso aveva fotografato le proprie sculture scrivendo di suo pugno sul retro della foto la data 1912. Vedi Simona Maggiorelli, Boccioni, ladro di Braque, su “Left-Avvenimenti”, numero 72, 13 ottobre 2006. E, soprattutto, Laura Mattioli Rossi, Boccioni pittore scultore futurista, Skira, Milano, 2006.

37 «(…) la pura impressione è non soltanto introvabile ma anche impercettibile e quindi impensabile come momento della percezione (…). Questo puro sentire equivarrebbe a non sentire nulla e quindi non sentire affatto», in Maurice Merlau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, 1972, pp. 36-37.

38 Boccioni, op.cit., p. 154.

39 “Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”, in Man Ray, Sulla fotografia, Absondita, Milano, 2005, p. 117.

40 Andrea Combo (a cura di), Transavanguardia, Skira, Milano, 2002, pp. 19-21.

41 Cfr. Jackson Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, Ascondita, Milano, 2006, p. 80.

42 ibidem, p. 110.

43 vedi Balzola-Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Garzanti, Milano, 2004.

44 cfr. Chris Towsend (a cura di), L’arte di Bill Viola, Mondadori, Singapore, 2005.

45 ibidem, p. 109.

46 Per la sceneggiatura vedi Domenico Fargnoli, La danza del drago giallo, Titivillus, Pisa, 2003.

47 vedi Fatema Mernissi, Karawan, Giunti, Milano, 2006. 48 cfr. Dalu Jones, Filippo Salviati, Mariagrazia Costantino, Arte contemporanea cinese, Electa, Milano, 2006.

49 cfr. Feng Zhengjie, Damiani, Milano, 2005.

50 cfr. Cina pittura contemporanea, Damiani, Milano, 2005.

51 cfr. Fancy-Dream, Damiani, Milano, 2006. 52 L’incontro con due artisti, il compositore Thomas von Hartmann e il ballerino Aleksandr Sacharov, fu importante per Kandinskij in questa sua ricerca. Sacharov (1886-1963), in particolare, aveva studiato pittura a Parigi, ma dopo aver assistito a una rappresentazione teatrale di Sarah Bernhardt, aveva distrutto tutti i suoi dipinti, decidendo di dedicarsi allo studio di una nuova arte, che avrebbe dovuto avere il suo fondamento nella danza; poichè il balletto tradizionale non gli offriva alcuna possibilità in questa direzione, egli elaborò una vera e propria teoria personale, che la critica contemporanea definì “danza assoluta”: lo scopo della sua arte era «Rendere visibile l’invisibile». Kandinskij coinvolse Sacharov e il compositore von Hartmann in alcuni esperimenti. Il musicista sceglieva, da una serie, un acquerello. In assenza del ballerino, suonava questo acquerello. Poi arrivava il ballerino. Gli si faceva ascoltare il brano musicale, e lui lo trasponeva in danza, indovinando poi l’acquerello che aveva ballato. I frutti di questa ricerca condussero Kandinskij all’elaborazione delle sue “composizioni sceniche”, singolari opere che già rivelavano con chiarezza l’intento dell’artista di rinnovare l’arte, di riunire i vari generi dello spettacolo (opera-dramma-balletto) in un’opera d’arte totale. Kandinskij lavorò a questi progetti dal 1908 al 1914. L’esito più compiuto è nel Der gelbe Klang (Il suono giallo, originariamente Riesen, Giganti) un lavoro che, pur senza essere rappresentato sulla scena, suscitò un ampio dibattito, inaugurando un nuovo genere teatrale. In Der gelbe Klang gli avvenimenti si succedevano apparentemente senza scopo; le voci umane non avevano messaggi concettuali da trasmettere, non avevano un’azione da sviluppare, come i messaggeri della tragedia antica.

53 Il coreografoRudolf Laban(1879-1958), ai primi del Novecento, inventò uno dei più importanti metodi di notazione del movimento, dedicandosi alla ricerca del movimento puro come espressione libera e profonda dell’essere-nel-mondo dell’individuo che, nella coralità del movimento, avrebbe potuto realizzare la fusione con l’unità cosmica. Queste ricerche e diverse esperienze comunitarie, soprattutto a Monaco,  portarono Laban a rapportare la realtà corporea del soggetto con gli elementi peso-spazio-tempo-flusso.

54 Eugenia Casini Ropa, La danza e l’agitprop, Mulino, Bologna, 1988.

55 Clara Gallini, La sonnambula meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 1983.

56 In Magnin, Art et Hypnose, Alcan, Paris, 1904, è riportato l’acuto parere di tale prof. Theodor Lipps, secondo il quale l’ipnosi di per se stessa è solo il fatto di addormentare, dunque qualcosa di puramente negativo. Essa non può essere positiva, cioè aumentare qualcosa, salvo il caso in cui ci sia qualcosa da aumentare.

Secondo Lipps, Magdeleine era in uno stato di veglia o di coscienza concentrata durante i suoi balletti. L’ipnosi di Magnin non differiva dal processo autopnotico, spesso spontaneamente adottato dagli attori, anzi serviva solo a rinforzarlo, cioè ad aumentare lo stato di concentrazione monoideica.

57 Isadora Duncan scrive nelle lettere di un’umanità “danzante” del futuro, liberata nel corpo e nello spirito dai condizionamenti sociali. Lo strumento della liberazione, per lei, è nell’insegnamento della danza colta in relazione “con i movimenti interiori” del soggetto che danza. Il teatro per lei è l’espressione intera della persona, puntando al di là dello specifico teatrale, alla riforma dell’uomo. Vedi Isadora Duncan, Lettere dalla danza, La casa Usher, Firenze, 1980.

58 Nel 1929 Laban realizzò a Vienna una grande processione con 2500 danzatori a glorificazione dell’artigianato austriaco, cfr. Leonetta Bentivoglio (a cura di), Tanztheater, Di Giacomo, Roma, 1982.

59 Oskar Schlemmer (1888 – 1943) è un pittore e scultore tedesco. Fin dal tempo della sua fondazione, aderì al Bauhaus di Weimar (dirigendovi la sezione di cultura e teatro). Il suo Triadisches Ballet, con originali invenzioni meccaniche di sapore surrealista, ebbe vivo successo e molte ripercussioni nella scenografia teatrale tedesca che egli aveva cercato di riformare per dare pieno risalto alla purezza della figura umana.

60 Una buona antologia di questa produzione di videodanza internazionale si legge nei cataloghi del festival Riccione TTV, diretto da Fabio Bruschi e da qualche anno in programmazione alla Cineteca comunale di Bologna. Ma anche in quelli della rassegna Il coreografo elettronico, che si svolge annualmente a Napoli.

61 A questo proposito, vedi il video presente nella mostra Pina Bausch. La danza dell’anima, alle Scuderie Aldobrandini di Frascati, inaugurata il 14 aprile 2007.

62 Danza e terapia possono essere messe insieme nella riabilitazione motoria e non nella psichiatria. Non entro nel dettaglio della questione. Per una critica dell’arteterapia, vedi Paola Bisconti e Francesco Fargnoli, Psichiatria ed arte, in “Il sogno della farfalla” Nuove Edizioni Romane, Roma, 2007, n. 2.

63 cfr. Jerzy Grotowsky, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970. Ma anche Jerzy Grotowsky, Sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993.

64 Domenico Fargnoli, Homo novus, Titivillus, Pisa, 2004, e Domenico Fargnoli, Installazioni, Mani, Firenze, 2004.

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