Psichiatria

La schizofrenia latente

892792532Schermata 11-2456257 alle 12.04.47Resoconto della riunione del gruppo “Progetto Psichiatria” del 13 novembre 2011

 

 

 

 

Gregory Zilboorg, uomo di mondo e psichiatra da viaggio

Nell’analizzare gli articoli di Gregory Zilboorg sulla schizofrenia ambulatoriale, che pure sono molto ben scritti e offrono spunti di ricerca interessanti, non bisogna dimenticare che, leggendo le cronache e i resoconti dell’epoca, qualche dubbio circa l’attendibilità come medico e terapeuta dello psichiatra russo viene fuori. Zilboorg ha studiato medicina a San Pietroburgo e, dopo la Rivoluzione di Febbraio e la caduta dello Zar del 1917 ha partecipato prima al governo di Georgy L’vov poi a quello del socialista rivoluzionario Alexander Kerenskij. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la presa del potere da parte dei bolscevichi è riparato in Olanda e poi si è trasferito  a New York dove, mentre traduceva in inglese opere di letteratura russa, ha studiato medicina alla Columbia University. Ha lavorato un anno all’Istituto di Psicoanalisi di Berlino e poi è tornato di nuovo in America dove negli anni 30 si è affermato come lo psicoanalista dello star-system. Parlava otto lingue, si intendeva di arte e letteratura, era un ottimo scrittore e oratore. Una sua seduta costava 100 dollari del tempo, l’equivalente di 700 attuali circa, ed è noto che facesse pagare anche le telefonate. In quel periodo iniziò a curare George Gershwin (lo vedeva 5 volte a settimana). Il famoso compositore, peraltro conosciuto per essere un noto ipocondriaco, lamentava sintomi gastrointestinali cronici (il suo “composer’s stomach”) e cefalee con aura olfattiva (sentiva odore di gomma bruciata). Nel 1935 Gershwin organizza a sue spese un viaggio di un mese in Messico accompagnato da Zilboorg, e altri due pazienti. Zilboorg temeva (non ci è dato di sapere quanto paranoicamente) di essere raggiunto da sicari bolscevichi e durante il viaggio pare girasse tutto il tempo con una pistola carica a portata di mano. Ognuno faceva una seduta al giorno, di mattina presto, poi i quattro si riunivano a colazione e Zilboorg ridiscuteva le sedute in gruppo. Nonostante questa vicinanza Zilboorg pare non abbia preso seriamente in considerazione il fatto che Gershwin potesse avere una malattia organica. Gershwin morì nel 1937 di tumore cerebrale (pare un astrocitoma maligno del lobo temporale destro, da cui le crisi uncinate con le allucinazioni olfattive). I sintomi di cui era affetto erano già noti al tempo come tipici di una neoplasia cerebrale a sede temporale, e in quegli anni un discreto numero di persone affette dalla sua stessa patologia erano operate con successo. Ciò nonostante né Zilboorg né altri medici che erano stati consultati dal compositore si accorsero in tempo del tumore. I dubbi sulla correttezza e l’attendibilità dello psichiatra russo vanno oltre alla vicenda della malattia di Gershwin, basti pensare ad esempio ai problemi che ha avuto in seguito con un altro paziente estremamente facoltoso: Zilboorg voleva essere assunto come consulente  personale per un corrispettivo di 5000 dollari al mese e per questo motivo venne denunciato dal paziente.

Freud, Bleuler e Jung, ovvero l’universalità della schizofrenia latente

Tralasciando gli aspetti personali, che come abbiamo visto certo non sono secondari, Zilboorg nell’affrontare il problema della schizofrenia tese a riprendere la concezione di Eugen Bleuler sebbene fosse chiaro come ci fosse una debolezza intrinseca nel concetto di schizofrenia dello psichiatra svizzero: utilizzando i suoi criteri la diagnosi era potenzialmente estesa a tutti diventando dunque inutilizzabile (non è un caso se in tempi più recenti è stata impiegata in Russia come diagnosi “politica” – vedi la schizofrenia torbida o “slugghish schizophrenia”).  Zilboorg inoltre considerava lo psichiatra svizzero un esistenzialista. In realtà, se ci si attiene anche a quanto dice Eugène Minkowswki, Bleuler non ha avuto molto a che vedere con l’approccio della fenomenologia e dell’esistenzialismo. Bleuler  era più vicino a Sigmund Freud e al suo concetto di processo primario (da cui l’autismo inteso come ripiegamento sul mondo interiore) ed a Carl Gustav Jung che nella Psicologia della Demenza Praecox  del 1907  fece un’equazione fra schizofrenico e sognatore, per cui lo schizofrenico sarebbe affine ad un sognatore sveglio. L’autismo deriverebbe quindi dal totale riassorbimento del soggetto nel complesso primario, con conseguente limitazione o alterazione del rapporto con la realtà in quanto verrebbe dato un significato di realtà al processo primario che dovrebbe rimanere inconscio. Jung inoltre criticava il concetto di schizofrenia latente perché, dal momento che in ognuno sono presenti gli archetipi, siamo tutti potenzialmente schizofrenici. Nei deliri, così come nei miti, sarebbero presenti gli archetipi, per cui il contenuto del delirio sarebbe semplicemente un contenuto inconscio universale a cui lo schizofrenico da semplicemente voce. E’ chiaro che seguendo questo filo di pensiero per la psicanalisi freudiana o junghiana non ha senso parlare di schizofrenia latente con riferimento all’inconscio in quanto questo è naturalmente malato e saremmo tutti dei potenziali schizofrenici. Questo concetto è ripreso da Freud nel Complemento psicologico della teoria del sogno del 1914/15. Non è un caso se la prima generazione di psicanalisti freudiani temeva tantissimo quella che poi Michael Balint ha chiamato la regressione maligna. Il rischio sarebbe quello, durante il trattamento psicanalitico, di intaccare le difese dell’Io e di far emergere un inconscio che è potenzialmente schizofrenico. Il concetto di schizofrenia latente nasce viziato dalla teoria freudiana e junghiana.  Questo, ricollegandosi anche a quanto detto da Zilboorg sulle schizofrenie ambulatoriali, solleva dei seri dubbi circa l’applicabilità del metodo psicanalitico alla terapia degli psicotici; dubbi che non possono essere chiariti visto anche che lo psichiatra russo non dice quale modificazione della tecnica abbia apportato nel trattamento degli psicotici per superare questo problema.

Schizofrenia latente: storia di un oblio

A questo punto diventa interessante capire come si sia perso il concetto di schizofrenia latente nell’evoluzione del pensiero psichiatrico (vedi anche l’articolo di F. Riggio sulla schizofrenia latente sul Sogno della Farfalla). Per un periodo nella psichiatria, specie quella americana del dopoguerra (vedi Zilboorg), si è imposto l’orientamento psicanalitico e le diagnosi si sono spostate da un piano puramente descrittivo a uno psicodinamico, considerando non solo il comportamento ma anche i contenuti inconsci. Con questo spostamento però è emersa una contraddizione insanabile perché, se ci si attiene alla teoria freudiana o junghiana, parlare di schizofrenia latente diventa un non-senso in quanto, come abbiamo appena visto, tutti saremmo schizofrenici latenti. Da questo deriva anche la sostanziale non applicabilità del metodo psicanalitico alla psicoterapia degli psicotici.

Quando poi è stata ripristinata la diagnostica di tipo kraepeliniano la schizofrenia latente, che pure era presente nel DSM I e II sparisce negli anni ’80 con l’avvento della III edizione del manuale.

Le psicosi di confine: processo o sviluppo? 

Uno degli aspetti che occorre chiarire nella nostra ricerca diventa a questo punto quello delle psicosi di confine (da cui anche l’evoluzione del concetto di personalità borderline, che verrà affrontato a parte).

Legata a questo tema è la contrapposizione tra i modelli di processo e sviluppo psicotico. Il concetto di processo implica che in una linea di sviluppo di un’esistenza ad un certo punto vi sia una frattura, un evento catastrofico che dà origine alla psicosi, mentre secondo le concezioni di Adolf Meyer e Ernst Kretschmer ci sarebbe una continuità, uno sviluppo. Mancherebbe quindi la distinzione fra nevrotico e psicotico, per cui tra i due concetti non esiterebbe una differenza qualitativa ma solo una progressione nel senso di una maggiore gravità della malattia.

Meyer, psichiatra svizzero trasferitosi in America nel 1892, era convinto che la concezione kraepeliniana per cui la malattia mentale avesse un origine organica era sbagliata e si concentrò sullo studio delle cause psicologiche e sociali in particolar modo della schizofrenia. Secondo Mayer lo studio del malato doveva essere longitudinale in quanto la dementia praecox derivava da una serie di meccanismi patologici acquisiti nel corso della vita come difesa a traumi e difficoltà. Questi meccanismi, all’inizio non pericolosi, potevano evolvere portando prima alla nevrosi e poi alla psicosi. Mayer utilizzava il concetto di schizofrenia latente solo nel contesto di studi longitudinali, in quanto solo con  tempo e l’evoluzione della malattia si poteva fare tale diagnosi. Nella concezione di Meyer il passaggio alla schizofrenia era concepito come un evoluzione nella storia dell’individuo senza frattura: vi era una continuità fra nevrosi e psicosi. Secondo la concezione dello sviluppo si perde la specificità della schizofrenia.

In realtà nel passaggio alla schizofrenia è come se il malato uscisse dalla logica della causa-effetto. Il nesso di causa infatti, sebbene sia presente, è strano, è fine a se stesso fino al punto di arrivare a dire che perde il rapporto con la storia.  E’ lo psichiatra che cerca di ristabilire questo nesso, fino quasi ad arrivare a crearlo lui stesso.

Schizofrenia come malattia dell’individuo o come malattia sociale?

Bleuler aveva derivato da Jung il concetto dell’introversione. Di conseguenza aveva definito l’autismo come forma di ripiegamento del soggetto sulla propria realtà interiore a scapito del rapporto con la realtà. Paul e Peter Matussek criticano questa impostazione affermando invece che gli schizofrenici sono estroversi nella misura in cui riescono a condividere i propri deliri con gli altri, come dimostrerebbero i casi di Adolf Hitler e Martin Heidegger. Riuscendo ad ottenere un successo sociale in qualche modo si tengono in equilibrio, non approdando ad una  malattia conclamata. La psicosi non emergerebbe fintanto che il loro delirio è confermato. In realtà, dunque, il problema della psicopatologia non è quello dello studio del singolo soggetto, ma del soggetto in rapporto alla cultura e alla società in cui vive. Si può arrivare a parlare (come peraltro  anticipavamo nella prima riunione del gruppo “Progetto Psichiatria” dell’aprile scorso) di una ricerca sulla psicopatologia collettiva. Se Hitler era schizofrenico chi gli stava intorno com’era? Dobbiamo a questo punto chiederci come fa uno schizofrenico ad avere presa sugli altri e ad imporgli il proprio delirio. Heidegger, a ben vedere, è più subdolo e pericoloso di Hitler in quanto culturalmente il suo pensiero ancora si impone ed è utilizzato. Su questo tema ha fornito un contributo interessante Hannah Arendt, che ha individuato nel totalitarismo un nuovo aspetto della politica che si basa su un elemento psicologico: l’atomizzazione e lo svuotamento della personalità individuale. Come se avesse colto il versante sociale dell’alienazione schizofrenica. Esistono perciò forme politiche come il totalitarismo che si potrebbero definire intrinsecamente schizofreniche, in quanto la loro ideologia è basata sullo svuotamento di significato di ciò che è specificatamente umano. Da un punto di vista storico si potrebbero percorrere queste due strade della psicopatologia individuale e di quella collettiva, con da una parte il caso esemplare di Heidegger come schizofrenico “estroverso” che influenza la cultura e dall’altra una società che sviluppa queste forme di totalitarismo.

Critica alla diagnosi di schizofrenia della psichiatria fenomenologica

Ludwig Binswanger e Wolfgang Blankenburg hanno proposto una psicopatologia basata sul pensiero di Heidegger. Ma è possibile utilizzare il pensiero di uno schizofrenico per comprendere la schizofrenia?

Binswanger utilizzava il metodo heideggeriano per superare il naturalismo organicistico da una parte e quello freudiano dall’altra, dicendo che solo con la sua filosofia si poteva capire il rapporto fra l’oggetto e il soggetto senza cadere né nell’oggettivazione naturalistica né nel soggettivismo. Klaus Conrad nel ‘58 lo criticava in quanto il suo processo diagnostico non portava ad alcuna terapia. Nei Seminari di Zollikon,  Heidegger sconfessa sia Binswanger che Blankenburg. Secondo il filosofo tedesco non si può utilizzare l’esistenzialismo all’interno della psichiatria in quanto questo non costituisce un metodo scientifico. L’esistenzialismo infatti affronta un piano ontologico mentre la psichiatria si limita ad analizzare dei casi concreti. La sconfessione di Binswanger dunque viene da più fronti: sul piano della clinica per gli svariati errori commessi (col caso di Ellen West come paradigmatico), sul metodo e l’efficacia terapeutica viene contestato da Conrad, sul piano filosofico dallo stesso Heidegger da cui fa derivare la sua impostazione.

Rischio e vulnerabilità psicotica: il modello dei Sintomi di Base

Il concetto di schizofrenia latente (che come abbiamo visto nasceva viziato dall’idea freudiana e junghiana di inconscio naturalmente malato), uscito dalla porta con la riproposizione dell’impostazione kraepeliniana, è in qualche modo rientrato dalla finestra con il modello dei Sintomi di Base, elaborato a partire dagli anni ’50 da Gerd Huber e Gisela Gross. I due psichiatri tedeschi, allievi di Kurt Schneider, si riferiscono a quelle che chiamano “pure sindromi difettuali e stadi di base delle psicosi endogene”, con evidente e dichiarato riferimento e una vulnerabilità alla psicosi su base organica. Questi sintomi si configurano come alterazioni soggettive (disturbi cognitivi e della cenestesi, ridotta tolleranza agli stress, adinamia, aumentata sensitività interpersonale) che rappresenterebbero non tanto una destrutturazione dinamica della personalità, quanto piuttosto la spia di una personalità che nasce limitata nelle sue potenzialità. Su questa personalità difettuale si innesterebbero spine irritative che portano ad uno sviluppo psicotico.

Risulta pertanto chiaro come il modello dei Sintomi di Base, riferendosi a un difetto organico originario, sia inutilizzabile così com’è stato proposto. Ancora una volta si nota come l’impostazione organicista e quella freudiana siano meno lontane di quanto potrebbe apparire ad un’analisi superficiale (difetto organico da una parte, inconscio naturalmente malato dall’altra). D’altra parte è pur vero come siano documentate alte percentuali di rischio nell’evoluzione verso la schizofrenia in coloro che manifestano i Sintomi di Base, e che per contro l’assenza di questi sintomi sembrerebbe escludere una successiva schizofrenia. Per poterli utilizzare quindi andrebbero separati dall’idea della loro origine organica, tuttavia facendo questa operazione ci domandiamo cosa rimanga. Un’ipotesi potrebbe essere quella, riallacciandosi anche alla teoria disconnetteva (che abbiamo discusso nel recente articolo sulla genetica della schizofrenia) della determinazione, su base ambientale e dinamica, di anomalie nello sviluppo che spiegano la vulnerabilità alla psicosi non come un fatto congenito.

Un’altra critica che viene fatta al modello dei Sintomi di Base è che questi possono essere presenti indistintamente sia in forme nevrotiche (ad esempio depressive) che psicotiche. Si tratta quindi di sintomi acaratteristici e aspecifici la cui effettiva utilità clinica nella diagnosi differenziale tra nevrosi e psicosi rimane tutta da dimostrare, con il rischio allargare troppo la diagnosi di schizofrenia anche verso quadri non psicotici.

Diagnosi psicodinamica e annullamenti: lo schizofrenico sogna?

Spostando lo sguardo sulla psicodinamica i criteri diagnostici cambiano. Ma la diagnosi si può basare solo su criteri psicodinamici? La diagnosi, per avere senso, deve essere condivisibile, vale a dire tutti i medici, seguendo una data teoria interpretativa devono arrivare a porre la stessa diagnosi. Il problema della diagnosi psicodinamica è che può essere condivisa solo fino ad un certo punto.

Riguardo alla genesi dinamica della schizofrenia, secondo la nostra impostazione è sufficiente un annullamento per dire che siamo di fronte a una schizofrenia? In teoria potrebbe essere corretto ma dobbiamo chiederci perché mentre un certo tipo di annullamento dà una psicosi schizofrenica, un altro mi fa, ad esempio, solamente perdere le chiavi.

Legato a questo problema è quello della diagnosi di schizofrenia attraverso i sogni. Si può fare diagnosi di schizofrenia da un sogno? Definire un sogno schizofrenico è una contraddizione in termini. Con il sogno si fa al massimo una diagnosi dinamica, di rapporto. Diagnosi dinamica che permette di individuare quella che potrebbe essere definita una psicosi da transfert: il paziente svilupperebbe una dinamica psicotica solo all’interno della relazione terapeutica. Sarebbe quindi questo un caso di schizofrenia latente, col paziente che riesce a circoscrivere la psicosi alla psicoterapia mentre al di fuori rimane funzionale. Quando noi interagiamo con uno schizofrenico, e riusciamo a stabilirci un rapporto, il suo assetto patologico si modifica perché nel rapporto si inserisce un elemento di affettività. Una problematica particolare è data dal fatto che, sebbene il paziente inizi a sognare, rimane una parte psicotica che non riesce ad essere rappresentata. Un esempio può essere il caso clinico del paziente che sognò di essere sulle spalle dell’analista. L’interpretazione del sogno data da Massimo Fagioli è stata quella che fino a quel momento non aveva fatto alcun rapporto perché lo aveva annullato. Solo a partire dal sogno era iniziato un rapporto di psicoterapia. Nei sogni dunque, accanto alla negazione, ci può essere l’annullamento del terapeuta che magari non si vede, non viene rappresentato. All’interno del transfert ci può essere un “clivage”, una parte che apparentemente si lega alla terapia mentre l’altra non interagisce: solo se gli viene interpretata il paziente può riuscire a rappresentarla. In tale modo infatti vengono introdotti all’interno della relazione terapeutica elementi che altrimenti verrebbero scotomizzati.

Elaborazione del questionario/intervista

Una possibile traccia da seguire a questo punto potrebbe essere quella di enucleare i criteri diagnostici che sono venuti fuori storicamente  (fenomenologici , psicodinamici, basati sul concetto di processo, basati sui meccanismi di difesa) e di stabilire quali sono quelli che riteniamo più vicini al nostro modo di fare diagnosi (tramite l’elaborazione di un questionario da sottoporre ai colleghi). Se nessuno di questi criteri risulta utilizzabile ne andrebbero proposti di nuovi, condivisi.

Standard