Psichiatria

La rosa che non c’è

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La rosa, la rosa per Fleming è il simbolo della cura della malattia mentale, resa possibile dalla teoria della nascita. Chiaramente né Frieda Fromm Reichmann né  Sullivan,  né Searles, , né Arieti, né Benedetti che a Chestnut Lodge, la famosa clinica statunitense specializzata nella psicoterapia delle psicosi, lavorarono potevano offrire una “rosa” .  Figuriamoci un giardino.  Semplicemente perché non  avevano né l’una né l’altro. Per cui a quale concetto di “guarigione” si può fare riferimento? Come si dice nella fascetta gialla del libro dell’Asino d’oro Joanne Greenberg racconta la storia intensa e indimenticabile di una donna: sull’utilizzazione del termine “guarigione” avrei qualche riserva. Mi sembra che dello stesso avviso, nella presentazione del libro all’IBS di Firenze venerdì scorso sia stato Giovanni Del Missier soprattutto nella seconda parte del suo intervento quando critica l’impostazione teorica della Fromm Reichmann.

Il Sole Domenica 29.11.15
Harold F. Searles (1918-2015)
Pazzi da amare
L’eminente clinico americano, pioniere nel trattamento psicoanalitico della schizofrenia, scomparso a 97 anni
di Vittorio Lingiardi

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A 97 anni, il 19 novembre è morto Harold F. Searles, esponente carismatico della psichiatria americana, pioniere del trattamento psicodinamico intensivo dei pazienti schizofrenici. Lascia tre figli, cinque nipoti, otto bisnipoti e alcune opere fondamentali. Dopo un’infanzia bucolica passata nella regione dei Monti Catskill (New York State), inizia gli studi medici alla Cornell University e li prosegue ad Harvard. Medico al fronte durante la Seconda Guerra mondiale, al ritorno in patria si stabilisce alla Chestnut Lodge Clinic di Rockville, Maryland. Luogo “mitico” della psichiatria nordamericana, Chestnut Lodge conosce i suoi anni d’oro tra il 1950 e il 1970, sotto la direzione di Dexter Bullard che si propone di integrare la tradizione della psichiatria dinamica con l’approccio interpersonale di Harry S. Sullivan, il quale sosteneva che la posizione ideale del clinico può essere riassunta nella formula “osservatore partecipe”. Searles lavora a Chestnut Lodge dal 1949 al 1964, affermandosi come uno dei clinici e teorici più originali nel campo del trattamento della schizofrenia (e poi del disturbo borderline) e nello studio del controtransfert. Tra i suoi lavori, tradotti in italiano nella collana Boringhieri al tempo curata da Pier Francesco Galli, ricordiamo gli Scritti sulla schizofrenia (1961-65), Il controtransfert (1979), Il paziente borderline (1981). Uno dei suoi articoli più citati s’intitola Il tentativo di far impazzire l’altro. Risale al 1959 e analizza il ruolo giocato dalla relazionalità patogena sia come contributo familiare alla genesi della schizofrenia sia come ingrediente inevitabile del rapporto tra paziente psicotico e terapeuta, caratterizzato, in alcune fasi del trattamento, da una lotta, “da entrambe le parti”, “per far impazzire l’altro”.
Nel trattamento dei pazienti schizofrenici cronici, considerati allora (e spesso ancor oggi) per lo più intrattabili (colgo l’occasione per consigliare il volume a cura di Maone e D’Avanzo, Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello Cortina, 2015), Searles propone una lettura radicale del concetto di contatto emotivo tra paziente e terapeuta. Altrettanto impegnato è il suo approccio al trattamento dei pazienti borderline (da notare che il titolo dell’edizione originale è My Work with Borderline Patients): «Il paziente può, alla fine, abbandonare la sua malattia solo se l’analista è arrivato a conoscere e amare, a un livello significativo, le gratificazioni di quella malattia, in modo che l’esperienza di perdita della malattia può diventare per entrambi una reciproca e condivisa esperienza di perdita». Inevitabile che il suo impianto teorico e la sua attitudine clinica mettano il controtransfert al centro del lavoro. Tema da sempre scottante per la psicoanalisi, Searles lo affronta senza inibizioni e vincoli dogmatici, aperto a cogliere le componenti soggettive del clinico, il ruolo del mettersi in gioco, il bruciore del contatto con la propria vita emotiva, comprese le più “inaccettabili” esperienze di odio e di amore. Negli scritti di Searles sul controtransfert troviamo la pragmatica dell’esperienza interpersonale, l’immediatezza winnicottiana dell’immersione clinica, la prefigurazione di alcuni dei temi più cari alla svolta relazionale in psicoanalisi, compresa la consapevolezza del rischio di trasformare empatia e dedizione in una maschera professionale dietro la quale nascondere forme di pseudo-interazione clinica.
Dimostrando ancora una volta di cogliere con grande anticipo temi che in futuro si riveleranno fondamentali, scrive nel 1960 uno dei suoi libri più belli: L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia (Einaudi). Testo davvero ispirato che prende in esame sia il senso di comunità, nutrimento e bellezza che caratterizza il rapporto dell’essere umano con tutto ciò che “umano” non è (animali, paesaggio, scenari modificati dall’uomo, ecc.), sia l’esperienza ambivalente, di desiderio e terrore, di diventare non-umano che caratterizza molte forme psicotiche.
Lo psichiatra Robert Knight ricorda che le virtù più importanti di Searles erano l’instancabile dedizione al lavoro, la profondità della percezione empatica, la chiarezza espositiva fuori dalla norma e le sconcertanti onestà e umiltà intellettuali. Un’analisi attenta e autorevole della figura e dell’opera di Searles la troviamo in un articolo del 2007 di Thomas Ogden intitolato Reading Harold Searles. La settimana scorsa, nel dare l’annuncio della sua morte, lo psicoanalista relazionale Lew Aron ricordava con affetto gli incontri pubblici in cui Searles riusciva a comunicare la sua sterminata esperienza clinica con uno stile unico e spontaneo di «arte performativa psicoanalitica». La stessa che troviamo nella sua prosa: leggere i suoi libri, anche le pagine più datate, è ancora una gioia, uno stimolo intellettuale e umano di rare eleganza e perspicacia.

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Il trattamento della psicosi con gli psicofarmaci è un mito

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In questo libro edito a cura di John Read e Jacqui Dillon  è contenuta un’intera sezione che analizza la letteratura riguardante l’uso e l’abuso degli psicofarmaci. Essi scrivono

<<  Le evidenze che riguardano l’uso degli antipsicotici stanno cambiando. Per le persone che hanno una diagnosi nell’ambito dello spettro schizofrenico  si  stanno accumulando evidenze  che i  benefici del trattamento farmacologico sono stati sovrastimati e gli effetti collaterali sottostimati. Non ci sono chiare evidenze che gli antipsicotici prevengano la psicosi anche se essi sono prescritti, in ogni modo per questa supposta intenzione. Circa il 10-20 per cento di persone con difficoltà persistenti che assumono i moderni antipsicotici ne trarrà un beneficio che può essere attribuito alle droghe piuttosto che all’effetto placebo o ad un recupero spontaneo. La rilevanza clinica di questi miglioramenti è, ad essere ottimisti , incerta. L’efficacia limitata non può essere attribuita alla discontinuità della assunzione che potrebbe impedire il raggiungimento del dosaggio terapeutico  poiché la terapia intramuscolare con farmaci depot, che vengono rilasciati lentamente e in quantità costante,  non ha un miglior risultato. Ci sono d’altra parte crescenti evidenze che gli antipsicotici possano essere responsabili per alcuni dei problemi che comunemente sono ritenuti essere il segno o il sintomo  di un sottostante processo patologico.(…) La proibizione etica [ basata sul principio deontologico che non si può non somministrare un trattamento di sicura efficacia a un paziente] decade nel senso che non può essere applicata e ci sono emergenti evidenze che il trattamento psicologico  può essere efficace per le  persone che rifiutano gli antipsicotici.

 

 

 

 

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 Il fatto poi che la schizofrenia sia una malattia degenerativa è assolutamente falso come lo è l’affermazione che le crisi che sopravvengono sono l’espressione di una progressiva perdita di funzionalità del cervello

 

 

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lo stadio dello specchio

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Lo stadio dello specchio viene situato da Lacan fra i sei e i diciotto mesi.

FullSizeRender-6Lacan fa riferimento alla Gestalt, teoria secondo cui la percezione si configura come una totalità strutturata, un insieme unitario, e non come un insieme di elementi isolati

Merlau-Ponty e lo stadio dello specchio

Dans cet extrait d’un cours professé à la Sorbonne, Merleau Ponty commente ce que le psychanalyste Jacques Lacan appelle le stade du miroir. Pourquoi la reconnaissance par le jeune enfant de son image dans le reflet du miroit entraîne un véritable bouleversement ?
« La compréhension de l’image spéculaire consiste, chez l’enfant, à reconnaître pour sienne cette apparence visuelle qui est dans le miroir. Jusqu’au moment où l’image spéculaire intervient, le corps pour l’enfant est une réalité fortement sentie, mais confuse. Reconnaître son visage dans le miroir, c’est pour lui apprendre qu’il peut y avoir un spectacle de lui-même. Jusque là il ne s’est jamais vu, ou il ne s’est qu’entrevu du coin de l’œil en regardant les parties de son corps qu’il peut voir. Par l’image dans le miroir il devient spectateur de lui-même. Par l’acquisition de l’image spéculaire l’enfant s’aperçoit qu’il est visible et pour soi et pour autrui. Le passage du moi interoceptif au » je spéculaire « , comme dit encore Lacan, c’est le passage d’une forme ou d’un état de la personnalité à un autre. La personnalité avant l’image spéculaire, c’est ce que les psychanalystes appellent chez l’adulte le soi, c’est-à-dire l’ensemble des pulsions confusément senties. L’image du miroir, elle, va rendre possible une contemplation de soi-même, en termes psychanalytiques d’un sur-moi, que d’ailleurs cette image soit explicitement posée, ou qu’elle soit simplement impliquée par tout ce que je vis à chaque minute. On comprend alors que l’image spéculaire prenne pour les psychanalystes l’importance qu’elle a justement dans la vie de l’enfant. Ce n’est pas seulement l’acquisition d’un nouveau contenu, mais d’une nouvelle fonction, la fonction narcissique. Narcisse est cet être mythique qui, à force de regarder son image dans l’eau, a été attiré comme par un vertige et a rejoint dans le miroir de l’eau son image. L’image propre en même temps qu’elle rend possible la connaissance de soi, rend possible une sorte d’aliénation : je ne suis plus ce que je me sentais être immédiatement, je suis cette image de moi que m’offre le miroir. Il se produit, pour employer les termes du docteur Lacan, une » captation » de moi par mon image spatiale. Du coup je quitte la réalité de mon moi vécu pour me référer constamment à ce moi idéal, fictif ou imaginaire, dont l’image spéculaire est la première ébauche. En ce sens je suis arraché à moi-même, et l’image du miroir me prépare à une autre aliénation encore plus grave, qui sera l’aliénation par autrui. Car de moi-même justement les autres n’ont que cette image extérieure analogue à celle qu’on voit dans le miroir, et par conséquent autrui m’arrachera à l’intimité immédiate bien plus sûrement que le miroir. L’image spéculaire, c’est » la matrice symbolique, dit Lacan, où le je se précipite en une forme primordiale avant qu’il ne s’objective dans la dialectique de l’identification à l’autre. «
M. Merleau-Ponty, Les relations à autrui chez l’enfant, éd. Les cours de la Sorbonne, pp.55-57.

 

 

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