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La povertà modifica il DNA?

Il collega Andrea Rossi che si qualifica come psichiatra, mi invia questo approfondimento sui temi da me trattati, che io volentieri pubblico

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Ridurre il riduzionismo (anche quello epigenetico)

(Testo a cura di Andrea Rossi, psichiatra)

 

«Le battaglie di retroguardia condotte dai riduzionisti continueranno sicuramente ad avere luogo, nonostante sia ormai chiaro che le ragioni a loro favore si sono ridotte talmente tanto negli ultimi anni da far pensare che sia preferibile optare per una resa».

Come previsto dal filosofo della scienza Gereon Wolters nel 2008 [1], negli ultimi anni i riduzionisti non si sono arresi, applicando le vecchie categorie del determinismo genetico all’epigenetica.

Il connubio tra neuroscienze e folk psychology attira in modo particolare le attenzioni dei media che, spesso con grande enfasi e non senza grossolane approssimazioni, ripropongono letture semplicistiche e scientificamente infondate.

Nel 2011, con l’uscita del libro “The Epigenetics Revolution” di Nessa Carey [2], sembrava avviato un cambiamento concettuale radicale che ribaltava in maniera definitiva il vecchio paradigma della biologia molecolare che vedeva il DNA come unico determinante del comportamento umano.Blocco_Epigenetica1.jpg

Tuttavia, a una lettura critica dello stesso testo e dei dati presenti nella letteratura scientifica sul tema dell’epigenetica, emerge drammaticamente il fallimento di questo filone di ricerca, che viene sistematicamente strumentalizzato per confermare l’ipotesi riduzionista e l’ereditarietà delle caratteristiche fenotipiche acquisite.

A questo proposito si potrebbero fare numerosi esempi.Nel maggio scorso la stampa ha riportato un lavoro apparso sulla rivista Molecular Psychiatry, dove Johanna Swartz e collaboratori propongono un meccanismo epigenetico per dare conto dell’associazione tra basso stato socio-economico e depressione [3]. Questi sono solo alcuni dei titoli con cui blog e testate online hanno rilanciato i risultati della ricerca: «Vivere in povertà: il rischio è la modifica del Dna»; «Ecco come la povertà “altera” il DNA»; «“La povertà altera il Dna”, ansia e depressione associate a privazioni». Secondo i ricercatori della Duke University queste modifiche causerebbero un aumentato rischio di depressione (e più in generale di altre patologie psichiatriche) e, essendo potenzialmente ereditabili, spiegherebbero la familiarità di questi disturbi.

In un lavoro di Natan Kellermann del 2013 [4], più volte citato anche dalla stampa non specialistica, si ipotizza la trasmissibilità su base epigenetica del disturbo post-traumatico da stress per le vittime dell’Olocausto, per cui una sorta di memoria epigenetica verrebbe trasmessa alla progenie dando vita a schemi neuronali generatori del medesimo fenotipo clinico.

Tralasciando in questa sede le basi teoriche e biologiche dell’epigenetica e le conseguenti implicazioni epistemologiche, occorre ribadire come il concetto di ereditarietà epigenetica non possa essere utilizzato così selvaggiamente, in quanto questa presenta delle caratteristiche peculiari che la differenziano nettamente da quella genetica. Per prima cosa una modificazione epigenetica, per quanto più o meno stabile, è comunque reversibile in risposta a specifici stimoli ambientali. Inoltre, quello che molti ignorano (o fingono di ignorare) è che secondo le acquisizioni più recenti quello dell’ereditarietà epigenetica è un concetto non fondato scientificamente, come ricorda George Davey Smith in una revisione critica della letteratura pubblicata nel 2012 dall’Oxford University Press:

«[…] il risultato [delle marcature epigenetiche, n.d.r.] non è in nessun caso deterministico […] la rimozione [nelle cellule somatiche, n.d.r.] di questi pattern è essenziale per la generazione delle cellule totitpotenti nello zigote […]. Le onde di cancellazione delle modificazioni epigenetiche durante questo processo sono ben descritte, il che rende chiaro il potenziale limitato di trasmissione dei makers epigenetici tra generazioni e perciò restringe le possibilità di una ereditarietà epigenetica transgenerazionale» [5].

Lo stesso autore mette giustamente in guardia circa le modalità con cui queste informazioni di dubbia validità scientifica, con la complicità dei mass media, vengono divulgate.

Recentemente, sulle pagine del Corriere Fiorentino, la professoressa Liliana Dell’Osso ha affrontato il tema del disturbo post-traumatico da stress e della sua (presunta) ereditarietà epigenetica [6]. Tutto il discorso della vicepresidente della Società Italiana di Psichiatria ha fondamenta teoriche quantomeno fragili e contraddittorie, riciclando (peraltro senza citarle) le vecchie e sorpassate concezioni positivistiche della psichiatria ottocentesca e della psicoanalisi, malcelate sotto l’abito sgargiante della popular-science.

La collega, parlando di «modificazioni permanenti del DNA» che verrebbero «tramandate (per via “epigenetica”) alle generazioni successive» fino all’«autodistruzione della specie», di fatto ripropone il concetto di “degenerazione” di Bénédict-Auguste Morel, che tanto ha influenzato le l’innatismo di Cesare Lombroso e le teorie eugenetiche di Francis Galton.

In un saggio del 1919 Eugene Bleuler a questo proposito scriveva:

«La degenerazione secondo Morel, che […] dovrebbe decorrere fino all’estinzione, non ha mai potuto in generale essere giustificata; ciononostante per decenni ha continuato a ricorrere negli scritti psichiatrici, mentre sulla base delle genealogie storiche qualunque liceale avrebbe potuto smentirla» [7].

Proprio a partire dall’undici settembre 2001 e in seguito ai più recenti tragici fatti di cronaca, a nostro avviso si impone una ridefinizione del concetto di disturbo post-traumatico da stress che tenga conto del contesto storico contemporaneo. Questo anche al fine di proporre nuove strategie terapeutiche, che come tristemente dimostra il caso di Dust Lady, non possono limitarsi al controllo farmacologico dei sintomi. Anche trattamenti come la EMDR, fondandosi sul concetto di engramma, non sono in grado, data la loro infondatezza neuroscientifica, di portare a uno stabile miglioramento clinico né tantomeno di fornire gli strumenti ideativi per far fronte a un fenomeno ormai collettivo. La psicoanalisi freudiana, a cui l’autrice sembra far riferimento quando parla di “oblio” e di rimozione, si è rivelata anch’essa fallimentare. La nostra memoria non è né ereditata filogeneticamente né tantomeno una pedissequa registrazione delle esperienze vissute. Con buona pace dei riduzionisti, quando parliamo di realtà umana, una volta che l’atto mentale è emerso questo non è più derivabile dalle sue “determinanti” (o supposte tali) neurologiche [8].

Riproporre all’opinione pubblica idee ampiamente superate dalle recenti acquisizioni neuroscientifiche corre il rischio di ostacolare una concettualizzazione psicodinamica  della difficile realtà attuale, in cui il timore di un disastro imminente può sembrare più che mai fondato. Già dai primi del novecento era chiaro per Bleuler che quella della degenerazione era una teoria pseudoscientifica insostenibile, una vera e propria ideologia sconfinante «nel delirio paranoico collettivo» [7]. Con tali impostazioni ideologiche si rischia di portare la coazione a ripetere ad una prassi quotidiana e favorire l’insorgenza di psicosi collettive azzerando ogni possibilità di cura di tali disturbi.

 

[1] Wolters G., Ridurre il riduzionismo genetico, Humana.Mente – numero 6 – Luglio 2008 (versione on line), http://www.humanamente.eu/PDF/Wolters%20-%20Sesto%20Numero.pdf.

[2] Carey N., The Epigenetics Revolution – How Modern Biology Is Rewriting Our Understanding of Genetics, Disease, and Inheritance, London: Icon Books Ltd., 2011.

[3] Swartz J.R., Hariri A.R., and Williamson D.E. An epigenetic mechanism links socioeconomic status to changes in depression-related brain function in high-risk adolescents, Molecular Psychiatry advance online publication, 24 May 2016.

[4] Kellermann, N.P.F., Epigenetic Transmission of Holocaust Trauma: Can Nightmares Be Inherited?, Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences, 2013, 50(1): 33-39.

[5] Davey Smith G., Epigenetics for the masses: more than Audrey Hepburn and yellow mice?, International Journal of Epidemiology, 2012, 41:303–308.

[6] Dell’Osso L., Memoria, la nemica dei sopravvissuti, Corriere Fiorentino, 23 luglio 2016.

[7] Bleuler E., Il pensiero artisticamente indisciplinato in medicina e il suo superamento (1919, terza ed. 1927), Sacile (PN): Polimnia Digital Editions s.r.l., 2015, p. 93.

[8] Cfr Boncinelli E., Mi ritorno in mente, Milano: Longanesi, 2010.

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Nei giorni feriali è più facile dimenticare i bambini piccoli in macchina sotto il sole

1879729_livorno.jpgQuando le mamme nei giorni feriali hanno molto da fare e dormono poco e sono stressate , possono “dimenticare” la propria bambina di 18 mesi in macchina al sole  e quindi provocarne la morte. Se ne deduce che  i figli dei pescatori o dei fornai che lavorano nelle ore notturne  sono molto a rischio, per non dire  quelli dei medici che fanno le guardie di notte. In questo articolo l’esperta, Prof Liliana dell’Osso scrive alcuni profondi pensieri  per il Corriere fiorentino, che diligentemente pubblica. L’amnesia che  talora ma non sempre, comporta uno stato alterato di coscienza con caratteristiche dissociative  è cosa ben diversa dall’annullamento che ha un’origine non cosciente e che è rivolto contro le relazioni umane,  talora, per una patologia silente, contro  gli affetti più significativi. La coscienza nei soggetti colpiti può essere perfettamente integra mentre l’immagine e non il ricordo cosciente  della propria bambina è scomparsa dalla vita psichica come conseguenza di una grave reazione anaffettiva.

Non siamo di fronte nel caso di Livorno ad una disattenzione  ma ad una patologia psichiatrica che si manifesta, come la cronaca ci  ha insegnato in casi analoghi , in un modo molto caratteristico.

 

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I soldati di Allah

1468743734-soldati-allah-950.jpgSu SkyTg24 è andato in onda il documentaio «I soldati di Allah», del giornalista francese Saïd Ramzi e prodotta da Takia Prod in collaborazione con Canal+). Saïd Ramzi ( pseudonimo), si è infiltrato all’interno di una «cellula» di giovani francesi, di fede musulmana, reclutati dalle frange estremiste per combattere «dall’interno» la guerra all’Occidente.Con l’aiuto di telecamere nascoste  Ramzi ha percorso tutte lefasi del reclutamento dei «soldati» della Jihad. Prima la frequentazione di siti online che danno spazio all’ideologia della «guerra santa», poi lo sviluppo dei rapporti personali con Oussama, un ventenne che coltiva l’ideale del martirio ed è già stato in carcere per terrorismo.

Quelli che colpisce è l’importanza di Internet, come l’applicazione Telegram, per permettere il coordinamento dei terroristi. Il secondo è l’approfondimento psicologico delle motivazioni di questi «soldati», un coacervo di deliri uniti dalla volontà di riscatto sociale alla ricerca di un premio «superiore» da raggiungere dopo la morte attraverso l’omicidio di massa. Il paradiso islamico è popolato di donne stupende a totale disposizione dei martiri, di cavalli alati su cui galoppare in piena libertà.

Durante il documentario viene intervistato uno psichiatra di cui non viene fatto il nome ma che sicuramente è Fethi Benslama benslama.jpg
che ha nei suoi libri analizzato le problematiche storico psicologiche dell’Islam. Benslama parla a proposito degli aspiranti martiri di Sindrome di Cotard. Si tratterebbe di soggetti che aspirano alla morte eroica perché si sentono già morti. E’ chiaro che la psicopatologia è chiamata a fornire una interpretazione di quel complesso fenomeno che è “la radicaluzzazione” dei mussulmani: il termine rimanda ad uno dei concetti chiave per comprendere la mentalità dei terroristi. Lo scenario del terrorismo e dei mass murderers attuali che spesso si scambiano i ruoli strategie e motivazioni, ha un’importanza fondamentale per la psichiatria attuale. Però è inutile ricorrere all’armamentario ideologico della psicologia di massa freudiana o ai concetti classici della psicopatologia Jaspersiana. Per non parlare delle banalità organicistiche recentemente proposte, sul Corriere fiorentino, da una psichiatra come Liliana dell’Osso (vicepresidente della Società italiana di psichiatria) che utilizza termini come sociopatia senza il minimo sforzo di contestualizzarli ricopiandoli tali e quali dalla psicopatologia di Kurt Schneider arricchendoli (!?) con l’idea dell’innatismo: il criminale-nato di Lombroso. Nessuno si ribella alla riproposizione di tali anticaglie ideologiche
alle quali si vuole dare il crisma della scientificiità: la psichiatria organicistica è fuori dalla storia arroccata in un pseudoscientismo narcisistico, in un’ignoranza colpevole funzionale agli interessi, talvolta criminali delle case farmaceutiche che ricavano enormi profitti dalla vendita di psicofarmaci prescritti il più delle volte in modo selvaggio.
La vera sfida, per quello che ci riguarda, è utilizzare le categorie della teoria della nascita di Massimo Fagioli, le sue inedite ricostruzioni storiche, la sua critica del pensiero religioso e della razionalità illuministica, per comprendere fenomeni sociali e patologie psichiatriche che si manifestano in forme nuove con un’ intensità ed una frequenza inedite nel nostro panorama culurale.

La psicopatologia va ripensata dalle sue fondamenta: è quanto si è cercato di fare partendo dall’analisi del caso di Anders Breivik che sicuramente ha aperto un’era nel dibattito del rapporto che intercorre fra malattia mentale e terrorismo.

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La mente e il corpo nella schizofrenia

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