L’articolo che segue è molto interessante e meriterebbe di essere discusso in quanto alcuni sostengono che sussisterebbe rispetto al TSO un profilo dì incostituzionalità .
Dopo il caso di Mastrogiovanni, gli psichiatri replicano alle accuse: «Il fine è la cura, contenere un malato serve per evitare che faccia male a sé e agli altri»
Francesco Mastrogiovanni è morto dopo 82 ore passate legato a letto. Ha avuto un infarto, ma nessuno se ne è accorto. Questo ha acceso la macchina mediatica che ha denunciato le violenze. E sotto accusa rischia di finire anche il Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio. Pratica che, al di là del caso specifico giustamente al vaglio della magistratura, è nata come uno strumento che rientra in una prassi di cura della malattia mentale. I media rischiano di minacciare la credibilità, già minata, della psichiatria (intesa come terapia della malattia mentale). Ma gli psichiatri non ci stanno, si ribellano.
«Il fine del Tso è la cura. Il contenimento di un malato di mente può sembrare violenza ma non lo è. Perché lo psichiatra ne impedisce la distruzione. è un po’ quello che fa il chirurgo: procura una lesione per curare una malattia», afferma lo psichiatra Massimo Fagioli, che già nel ’62 viveva tra i pazienti nell’ospedale di Padova per continuare nella comunità di Kreuzlingen in Svizzera e che nei suoi libri ha indagato l’origine e la cura delle patologie psichiche.
«La prima cosa da mettere in chiaro è il discorso sulla violenza», continua Fagioli. «C’è la violenza nelle istituzioni, nelle carceri, nelle case di cura private, nei ricoveri per anziani, un tempo c’era negli ospedali psichiatrici. Questa va condannata sempre e se ne deve occupare la magistratura. Poi c’è quella che sembra violenza ed è del poliziotto che ferma un criminale che sta ammazzando qualcuno o che mette una bomba. O quella dell’équipe medico-psichiatrica del 118 che ferma il malato di mente. Questa non è violenza, è un contenimento, un fermare la violenza altrui, impedire che faccia male agli altri o a se stesso. Questo deve essere chiaro. Certo, poi gli operatori devono saperlo fare questo contenimento. Non si può tenere una persona senza mangiare per 48 ore. Qui non è in causa il Tso, ma dei criminali che lasciano una persona incustodita in quelle condizioni per due giorni».
Sulla stessa lunghezza d’onda è Bruno Orsini, psichiatra, che nel 1978 fu relatore della legge 180 (che ancora oggi erroneamente si attribuisce a Basaglia): «Penso che questi comportamenti accaduti a Vallo della Lucania siano indifendibili. Ma questo non significa che se in una sala operatoria si commette un errore vadano chiuse tutte le sale operatorie d’Italia. I Tso sono indispensabili». Con la legge 180 la psichiatria entrava nel Sistema sanitario nazionale, «perché i malati psichici fossero uguali a tutti gli altri malati e non discriminati come accadeva prima». Fino ad allora i manicomi erano affidati alle Province, il malato di mente veniva definito pericoloso socialmente e ricoverato d’obbligo con un atto del magistrato, il personale aveva un trattamento diverso rispetto agli altri settori della Sanità. Proprio il Tso, racconta il medico ligure, «rappresentava il crinale tra quelli che pensavano la psichiatria come cosa “altra” rispetto alla medicina e quelli come me, che pur rifiutando la medicalizzazione pura e semplice della sofferenza psichica, non rinunciavano all’idea della dimensione sanitaria della psicopatologia».
Il fronte antipsichiatrico negava la psichiatria come atto medico ma «delirio, allucinazioni, psicosi, non sono legati alla sanitarizzazione dei disturbi, sono una realtà», conclude Orsini. Il concetto di malattia mentale è il punto chiave. «Il caso particolare del Tso, è chiaro, richiede tutto un discorso teorico, culturale e storico sulla malattia mentale che dura da cent’anni se non da diecimila, sin dai tempi della pazzia di Aiace», sottolinea Fagioli che continua: «Il malato di mente agisce senza un motivo, lo abbiamo visto a Brindisi, la bomba contro le ragazze. Lì c’è la fatuità, la stolidità, la perdita del rapporto con la realtà, con se stesso e gli altri. E allora in questi casi come si fa a seguire quella corrente, alla Foucault o alla Heidegger, che dice che la malattia mentale non esiste?». E ancora cita lo psicanalista Stefano Carta, apparso il 29 settembre su l’Unità: «Come si fa ad accettare che la malattia è un’invenzione? Se è un’invenzione si vede che non c’è, e invece non è vero che non c’è». La conseguenza è logica: «Se non c’è la definizione della malattia, la cura non ci può essere. Prendersi cura, assistere, togliere un po’ di sofferenza, non è cura. Non mira alla guarigione perché non ha il concetto e la diagnosi di malattia», afferma Fagioli.
«Bisogna evitare toni da crociata ideologica», afferma Mariopaolo Dario dirigente psichiatra del Dsm Asl Roma D a proposito dell’allarme attorno al Tso. «Ci sono tutte le garanzie formali e giuridiche perché sia applicato bene, con un medico che lo richiede, un altro del servizio pubblico che lo convalida, l’ordinanza del sindaco e il controllo del giudice tutelare. Il Tso è un atto medico che va fatto quando la persona sta male, non ha coscienza di malattia e può incorrere proprio per questo in atti auto o eterolesivi». I problemi a Roma se mai riguardano la disponibilità di posti negli unici luoghi deputati ad accogliere i malati in Tso, gli Spdc.
«Il caso di Mastrogiovanni è un atto di malasanità, per non dire criminale», aggiunge Andrea Filippi, dirigente medico psichiatra della Asl di Terni che precisa il significato di contenzione. Che non riguarda solo i pazienti psichiatrici, ma tutti coloro alterati sotto l’effetto di droghe, alcool o per patologie organiche come encelefalite o intossicazioni epatiche. «La contenzione in casi specifici è l’atto medico di impedire al paziente in uno stato mentale alterato di farsi del male o di fare del male. Lo psichiatra, ma direi qualsiasi medico, in questi casi deve intervenire ricorrendo allo stato di necessità, regolamentato dall’art. 54 del Codice penale, non farlo si prefigura come negligenza, art. 42 C.p.», conclude lo psichiatra.
Alla base di tutto, è necessario che lo psichiatra sappia fare la diagnosi, spiega Fagioli: «Bisogna distinguere quella che è arrabbiatura per cui uno sfascia un po’ di vetri o di piatti da quello che è malattia mentale per cui uno uccide il bambino e non sa perché». E aggiunge: «Gli psichiatri devono essere bravi, specialmente adesso che viene fuori quest’altra tragedia dall’America: dove per vendere i farmaci hanno inventato che anche un’arrabbiatura, un colpo di sole d’estate, una scottatura che porta un po’ di tristezza è la strada per la malattia mentale. Questa è criminalità». Il riferimento è al Dsm V, il “manuale” delle patologie in uscita nel 2013. «Occorre la formazione dello psichiatra, che deve distinguere se nell’adolescente c’è una perturbazione normalissima per quell’età oppure se ci sono segni precoci di malattia mentale. Occorre affrontare la fatuità della malattia mentale nascosta in tanti normali. La psichiatria ci deve stare. Se poi è una somara che non ha mai fatto niente, bisogna correggere la somaraggine», chiosa sicuro Fagioli.
La chiusura degli OPG: aspetti normativi e storici
Il grano e il miglio Per affrontare il dramma delle carceri, occorre comprendere la differenza che c’è fra chi delinque per una ragione pratica, e chi lo fa senza movente. La distruttività, senza motivo, è pazzia. E la detenzione non è cura” ( Left 2006, 28 luglio, Massimo Fagioli)
Left n 7 2015 di Donatella Coccoli “ Oltre l’OPG” la nebbia. Fagioli:rispetto agli OPG bisogna fare un discorso enorme
Bisogna distinguere quello che pensano e fan-
no i magistrati da ciò che pensano e fanno gli psichiatri. E cioè da una parte c’è l’assassinio per un colpo in banca che è delinquenza. Ma dall’altra ci sono casi in cui non c’è un motivo:
l’assassinio senza motivo è malattia mentale.
Nel rapporto con I magistrati, esiste solo la formula della capacità di intendere e volere. Ma abbiamo visto che coloro che fanno delitti
gravissimi, hanno un rapporto con la realtà materiale perfetto. Sono abili, lucidi e freddi. La capacità di intendere e volere è intatta, poi tornano a casa e ammazzano moglie e figli. Perché non “considerano” l’altro un essere umano ma una cosa. Eppure la cultura continua a non parlare di malattia mentale. Perché? Perché nella cultura è assente qualunque idea di ricerca sulla realtà psichica umana. Siamo di fronte a
una reazione razionale-conservatrice che sottraendosi a qualsiasi impostazione medico psichiatrica sostituisce alla cura la liberalizzazione e gli slogan tipo La libertà è terapeutica”. Si ha quindi una prassi cieca senza prassi di cura. “Allora, se il reparto è un lager, l’ospedale non funziona, che facciamo? Aboliamo l’ospedale.” Rinviamo I pazienti alla società e alla famiglia adottando nei confronti di quest’ultima un atteggiamento punitivo, che fa leva sui sensi di colpa.
Il problema però, secondo una formula ormai famosa , non sono le mura è la cura.
Il 20 febbraio 2017 il ministro della salute Lorenzin a parlato in modi trionfalistici della completa e definitiva chiusura degli OPG. In realtà l’attuazione della legge 81/2014 ha lasciato un panorama di luci e ombre. La dismissione dei fatiscenti ospedali giudiziari non è stata accompagnata da una adeguata riflessione teorica sul più generale significato che ha assunto la prassi psichiatrica nel nostro paese negli ultimi quarant’anni. Parlare della legge 81/2014 è impossibile senza fare riferimento alla 180 del 1978 di cui essa si pone come continuazione e ideale completamento: l’impianto della legge è almeno nelle intenzioni coscienti anticustodialistico e teso al superamento, come del resto la 180, del concetto stesso di pericolosità sociale presente nel codice Rocco del 1930. Il codice Rocco dal nome del guardasigilli è entrato in vigore nel 1930 ed è ancora vigente. Esso è improntato ad un concetto retributivo della pena, cioè punitivo e afflittivo oltre che al cosiddetto doppio binario che riguardava da una parte gli imputabili dall’altra i non imputabili.
I non imputabili erano e sono ancor oggi sottoposti a misure di sicurezza che nell’epoca degli OPG erano prevalentemente detentive. Al codice fino al 1978 si è affiancata una legge psichiatrica, la n. 36 del 1904, che si ispirava a Lombroso, morto cinque anni dopo la sua approvazione, e alla scuola positiva del diritto. Il base a tale legge, detta anche legge Giolitti, si sarebbe dovuta attuare una precisa forma di prevenzione della pericolosità sociale presunta dei malati di mente in quanto tali , ossia a prescindere dall’aver essi commesso o no dei reati. Ai soggetti considerati atavici o degenerati sulla base di un certificato medico veniva comminato, con un provvedimento di polizia extragiudiziale un internamento coatto spesso per un tempo indefinito in Ospedale psichiatrico.
. Nella legislazione psichiatrica riguardante i malati di mente non autori di reati, l’idea lombrosiana della prevenzione sociale d’una ipotetica “pericolosità sociale presunta” del malato di mente, è stata completamente superata dalla legge n. 180. Quest’ultima non fa più alcun cenno al tema della pericolosità come motivo di ricovero psichiatrico. Il concetto di pericolosità del malato di mente non viene più menzionato nella legislazione psichiatrica italiana a partire dalla legge cosiddetta impropriamente Basaglia. Inoltre, per alcuni decenni il tema della violenza del paziente psichiatrico, in Italia, è stato menzionato pochissimo anche nell’ambito della Psichiatria clinica.
Il giudizio sulla pericolosità sociale dell’infermo psichico, in ambito giuridico dovrebbe avere un fondamento scientifico che, secondo il giurista Francesco Schiaffo non sussisterebbe. Afferma quest’ultimo << Il giudizio sulla pericolosità sociale dell’infermo psichico rivela, l’anelito verso un particolare fondamento scientifico che, date le acquisizioni ormai consolidate della criminologia, è impossibile da soddisfare e trasforma, piuttosto, le relative motivazioni in rantoli argomentativi.>>
La psichiatria forense nella sue elaborazioni più rappresentative ed autorevoli approda alla conclusione che sia, come afferma Ugo Fornari nel suo Trattato di Psichiatria forense, ma come come aveva già sostenuto G.B.Traverso «(…) indispensabile lavorare per il superamento dell’equivoco, riduttivo e non scientifico concetto di “socialmente pericoloso”.
L’accento va posto non tanto sulla generica reazione di allarme, di sensazione di pericolosità appunto, di difesa che provoca la malattia mentale ritenuta incurabile e incomprensibile e quindi da rinchiudere nei manicomi criminali , quanto sulla necessità di cura e di riabilitazione di quelli che un tempo venivano chiamati rei folli o folli rei o pazzi morali, attraverso tutti gli accorgimenti idonei e comunque rispettosi dei diritti della persona: si tratta di attuare anche nei confronti di soggetti non imputabili, una strategia che, quando possibile risponda a una intenzionalità terapeutica, basata su competenze specifiche, e non rozzamente poliziesca e astrattamente securitaria. Le REMS ( residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) istituite dalla legge 81 sono in grado effettivamente di assolvere a un compito riabilitativo e terapeutico o esse hanno mantenuto in scala più piccola una vocazione custodialistica?
Dati di Donatella Coccoli sulla popolazione delle REMS nel 2015.: oggi non tanto diversi.
Scrive Il dottor Sbrana della REMS di Volterra nel marzo 2018 pur delineando un quadro nell’insieme ottimistico
<< Per quanto riguarda il clima interno delle REMS, bisogna evidenziare come la confusione tra competenze sanitarie e giudiziarie, tra cura e custodia, in un contesto nuovo come quello delle REMS, rischia di alterare l’identità professionale di tutti gli operatori sanitari.
(..)Con la legge 81/2014, sono meno definiti i confini della responsabilità professionalep dello psichiatra. La delega ai servizi territoriali di salute mentale è molto vasta e comprende anche impropriamente il trattamento del comportamento socialmente pericoloso e la risposta alle richieste di “garanzia e sicurezza sociale” talvolta dirette anche ad individui con evidenti caratteristiche di antisocialità. L’operatore sanitario detiene quindi talune responsabilità nell’assistenza di queste persone e l’attuale normativa non esclude la sussistenza di un generale potere/dovere di sorveglianza atto a prevenire azioni auto o etero-lesive. La responsabilità degli psichiatri dovrebbe invece configurarsi come responsabilità di cura e non rivolgersi meramente alla custodia per soggetti antisociali, pena il ritorno a una missione neomanicomiale e neocustodialistica. >>
Molti dei soggetti etichettati come antisociali e portatori di disturbi della personalità in realtà come riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione con una sentenza del 2005, sono, sotto il profilo dell’infermità da equiparare agli psicotici per non dire agli schizofrenici: quindi il loro trattamento, che non si può considerare improprio, in molti casi è di competenza dei servizi territoriali che comunque subiscono un notevole aggravio. La tanto decantata svolta epocale della legge 81/2014 si è risolta, come sostiene Sbrana in un attacco all’identita psichiatrica, cui viene demandata la salva guardia dell’ordine sociale e non solo la responsabilità della cura. Che significato ha la parola cura nelle REMS rispetto a un gruppo di schizofrenici e psicotici gravissimi e spesso cronicizzati? Quale deve essere la teoria di riferimento per non ricadere in una prassi cieca? Curare per salvaguardare la salute mentale è altra cosa che curare per prevenire che si commettano nuovi reati. Viene in mente il film Arancia meccanica di Stanley Kubrick e il suo protagonista Alex.
Il problema più evidente della pericolosità sociale è che essa, come abbiamo già detto, è una categoria prettamente giuridica che si basa sui presupposti indicati dagli articoli 203 e 133 del c.p. Quando il giudice ordina una perizia per la determinazione della pericolosità sociale, lo psichiatra incontra notevoli difficoltà perché deve basarsi su categorie giuridiche e non cliniche. Per es. Il concetto di infermità mentale che è molto estensivo non è quello di malattia mentale. Il concetto di malattia è dinamico, quello di infermità statico. L’infirmitas non considera gli aspetti eziopatogenetici che conferiscono alla malattia la sua specifica processualita’.
Il rischio è che L’uso di termini ambigui mascheri una sorta di complicità fra giudici e psichiatri: I giudici parlano di infirmitas che è un concetto vago, gli psichiatri usano impropriamente, come è stato detto tante volte, il termine disturbo ed entrambi non comprendono appieno la malattia mentale.
Inoltre il giudice valuta fatti e circostanze oggettivamente accertabili mentre lo psichiatra fa, in un certo senso il processo alle intenzioni coscienti e non coscienti. In sostanza rispetto alla pericolosità non possono essere fatte previsioni razionalmente fondate e basate su procedimenti standardizzati e utilizzabili in ambito giuridico se non di tipo meramente statistico. Dal punto di vista clinico, che è diverso da quello giuridico per mia personale esperienza ci sono situazioni in cui l’intuizione, che non è un procedimento razionale, di uno sviluppo psicopatologico criminale o suicidario è possibile mentre in in altre può essere estremamente difficile. In generale si può ritenere erronea sia la prevedibilità a lungo termine del comportamento che rivendicava Lombroso con la sua teoria deterministica del criminale nato sia la convinzione di una impossibilità assoluta di previsione per mancanza di strumenti scientifici adeguati come sostiene la psichiatria forense che si basa sulle perizie. Per non parlare della pericolosità latente nella quale sarebbe coinvolto tutto il genere umano secondo Vittorino Andreoli: ciascuno in determinate circostanze potrebbe secondo lui diventare un assassino. Ciò vuol dire che tutti siamo potenzialmente pericolosi anche se non si può prevedere quando lo diventeremo. Se non si possono fare previsioni certe utilizzabili in ambito giuridico in ambito clinico gli psichiatri più o meno consciamente fanno sempre anticipazioni sullo sviluppo del processo terapeutico e psicopatologico nell’ambito di valutazioni prognostiche. Oggi si parla della valutazione del rischio di violenza che tiene conto sia di fattori psichiatrici cioè l’eventuale presenza di patologie più o meno trattate che extrapsichiatrici: le previsioni riguardano il breve periodo e sono più attendibili tenendo in considerazione un numero ristretto di variabili. Ciò che va evitata però ad ogni costo è la negazione, che è stato uno degli effetti collaterali non so se di Basaglia o del Basaglismo o di entrambi, che possa esistere, sia pure in ambiti ben definiti e circoscritti un nesso fra malattia mentale e agire criminale. Abolendo di fatto il concetto di malattia mentale, anche se poi si nega di farlo si elimina anche quello di pericolosità sociale.
Vale la pena ricordare il caso Miklus che segnò la fine dell’esperienza goriziana nel 1971. Nel 1968 accadde che un paziente, tale Alfredo Miklus appunto di un reparto chiuso del Manicomio di Gorizia, a quel tempo diretto da Franco Basaglia, fu mandato a casa, come altre volte era accaduto, con un permesso. Egli uccise la moglie che riteneva responsabile del suo internamento a martellate in preda a un delirio di persecuzione. Sull’onda del delitto, come riferisce John Foot nel suo documentatissimo libro “La repubblica dei matti”, Basaglia riunì l’equipe e dichiarò che l’intero esperimento goriziano si doveva chiudere o doveva essere affidato a psichiatri riformisti. Non fu l’unica volta che Basaglia dichiarò un fallimento. Nel giugno 1978, l’indomani dell’approvazione della legge 180,egli in un articolo su “La Repubblica” dichiarò che erano prevalse tendenze corporative che volevano riportare la psichiatria alla logica del controllo sociale: nuove forme di segregazione e di violenza istituzionale si sarebbero inevitabilmente riproposte.
Parole profetiche di colui che dobbiamo considerare un eroe suo malgrado o come ha detto Jervis una vittima della sua fama. Sul piano giudiziario, a Gorizia nel 1968, l ‘unico che pagò fu Miklus al quale fu riconosciuta la totale infermità mentale: mori in ospedale giudiziario. Basaglia fu prosciolto perché assente ( facile la battuta: assente in che senso?) così lo psichiatra Slavich fu assolto per la non prevedibilità dell’omicidio in quanto non premeditato. La responsabilità ricadde su colui, tale Ali, che aveva firmato la dimissione che nel frattempo era morto. Il 20 ottobre del 1972 I tre figli di Miklus scrissero al Piccolo di Trieste dicendo di estere stati terrorizzati dal padre e di essere stati sottoposti a pressione da parte della direzione dell’ospedale per accettare le sue visite nonostante temessero per la propria sicurezza e di quella della madre. Ora senza entrare nel merito del giudizio salomonico della magistratura di allora, condizionato dal clima di scontro ideologico di quel tempo, mi stupisce che un’assertore della mitologia basagliana come Peppe Dell’Acqua sostenga, con una certa sicumera che : «La pericolosità sociale non merita neanche di essere criticata. E’ una chimera, un qualcosa che si presume, ma che di fatto manca. E la presenza della malattia mentale o di un suo disturbo surrogato non attiene alla pericolosità sociale più di quanto non ne potrebbe essere affiancato uno di noi. >> Il fatto che il rischio di violenza, che non è la pericolosità sociale, non possa essere definito una volta per tutte, ma che vada contestualizzato in ogni singolo caso qualunque sia la diagnosi, non significa che esso non esista. Nessuno è naturalmente pericoloso al contrario di quello che diceva Lombroso però tutti siamo potenzialmente pericolosi come dice Andreoli? Per Basaglia la follia, che peraltro nei suoi scritti rimane un concetto vago e indefinibile è un attributo naturale di tutti gli esseri umani.
Nel documentario di Zavoli I giardini di Abele (1968) alla domanda del giornalista “ chi è il malato di mente? Basaglia risponde: nessuno lo sa. Nessuno lo sa o nessuno lo può o lo deve sapere? Nelle Conferenze brasiliane (1979) lo psichiatra veneziano afferma << Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione>> La follia potrebbe portare indifferentemente alla creatività o all’omicidio o a tutt’e due come sostenuto da Michel Foucault con cui Basaglia era pienamente d’accordo. D’altra parte di ciò che non si conosce non si può prevedere ne l’esito ne lo sviluppo.
Dal punto di vista punto psicopatologico sappiamo con certezza che può esistere un rapporto fra delirio che è stata considerato storicamente la manifestazione tipica della follia e agire criminale come testimoniano innumerevoli situazioni. Il caso Miklus è una di queste: come si evince dalla lettura delle perizie del processo egli uccise in uno stato di gravissimo delirio di persecuzione misto a confusione. Se è vero che il delitto che lo slavo commise non era prevedibile in quanto frutto estemporaneo di una percezione delirante cioè di una reazione immediata ad un rimprovero della moglie, “ senza che fra stimolo e reazione si collochi un tempo di riflessione e critica” per usare le parole del perito d’ufficio, è altresì vero che nessuno psichiatra dimetterebbe, anche oggi in un SPDC, a cuor leggero un paziente in uno stato confusionale misto a un delirio di persecuzione sistematizzato. Evidentemente non era stata compresa appieno la gravità della malattia mascherata da un apparente miglioramento come non è stata chiarita anzi fraintesa, dal perito di parte, la dinamica del crimine.
Proprio il fatto che il paziente era “migliorato”, cioè meno chiuso nel guscio di un autismo delirante lo esponeva a acting out improvvisi sullo sfondo di una cronica alterazione della capacità di critica e di giudizio.
Ciò che andava messo in discussione non era la pratica dei permessi sperimentali e la strategia del reinserimento sociale più che legittima, ma la valutazione clinica, che spetta allo psichiatra, della idoneità di un soggetto a sostenerla In un determinato momento. Il problema non era costituito dal metodo della comunità terapeutica ma dalla formazione carente degli psichiatri e dalla loro mancata conoscenza dei processi psicopatologici e del non cosciente. A riprova di quanto dico basta leggere la perizia della difesa al processo del 1972 che è piena di contraddizioni e sembra scritta da un incompetente. Per es. la diagnosi del Prof. Visentini “ demenza paranoide per evoluzione deteriorata di una personalità psicopatica” da dove è uscita? La perizia di parte di Basaglia diventa un atto di accusa perché nessuno si è accorto della sua inconsistenza,( vogliamo dire fatuità ?) e conseguentemente nessuno ha compreso cos’era accaduto al paziente.
Il caso Miklus non è stato elaborato nell’epopea basagliana anzi forse è stato cancellato dal trionfalismo e dalle false ricostruzioni della storia ufficiale e dagli innumerevoli attestati di solidarietà. Sull’incidente fu preparata un’appendice al libro L’istituzione negata dal titolo Anatomia di un’istruttoria che non fu mai pubblicata. Nel famoso libro del 68 c’è però un’appendice che parla in generale dell’incidente, cioè dell’acting out del paziente nel suo rapporto con l’istituzione; sembra un commento al caso Miklus. Nel istituzione aperta dice Basaglia << “Un malato che può venire dimesso e che si trova rifiutato dalla famiglia, dal posto di lavoro, dagli amici, da una realtà che lo respinge violentemente come uomo di troppo, che cosa può fare se non uccidersi o uccidere chiunque abbia per lui la faccia della violenza di cui è oggetto? In questo processo chi può, onestamente, parlare solo di malattia?” Discorso completamente dissociato che non vale neppure la pena di commentare.
La mancata o insufficiente elaborazione di un episodio molto significativo nella storia della psichiatria italiana, il gioco del rimpallo delle responsabilità quanto ha pesato sul fatto che i manicomi giudiziari e gli OPG siano stati “dimenticati” per quarant’anni? Anche Miklus fu dimenticato e morì in un ergastolo bianco in un manicomio giudiziario. Oggi come risultato di una mentalità che è divenuta dominante dopo la 180, si tende a negare che può sussistere una relazione, sia pure entro confini definiti, fra patologia mentale e crimine. Per la scuola di psichiatria Triestina in base al principio di uguaglianza tutti, sani e non sani mentalmente sono ugualmente imputabili, e in caso di reato devono essere inviati in carcere in base al diritto al processo e ad essere ritenuti colpevoli ed espiare la pena. Come se la pena, che poi è la punizione di un peccato potesse avere un significato terapeutico. La rivoluzione basagliana approda ad una conclusione che sicuramente piacerà a Matteo Salvini.
Quindi si abolisce il manicomio ma si tiene in piedi il carcere che contiene e produce malattia mentale: esattamente il contrario di quanto pensava Massimo Fagioli il quale in prima istanza riteneva dovesse essere abolito il carcere.(vedi Left luglio 2006 e l’intervento a Viareggio alla festa di Liberazione)
Ritornando però sulla legge 81/2014, da cui eravamo partiti e della chiusura degli OPG sono state denunciate delle criticità che derivano dall’ambiguità della riforma proposta che ha lasciato invariato il doppio binario del codice Rocco apportando solo alcune modifiche che riguardano i criteri dell’accertamento della pericolosità, della durata massima delle misure di sicurezza che spesso generavano I cosiddetti ergastoli bianchi. Il nucleo generatore giuridico, anche se ammodernato da alcune sentenze della Corte Costituzionale e di Cassazione, delle disfunzioni che aveva contribuito a trasformare alcuni OPG in veri e propri lager è rimasto invariato. Questo nucleo, il doppio binario, presente nel codice Rocco va totalmente abolito e non riformato: questa è anche l’opinione di molti illustri giuristi.
Antonio Rocco affermava, << non si può concepire una volontà senza causa, una volontà senza motivi, una volontà come un «fiat» che nasca dal nulla, una volontà come mero arbitrium indifferentiae. La volontà umana non si sottrae […] alla legge di causalità che governa tutti i fenomeni>>.
Bisogna capire se esista ciò che il guardiasigilli Rocco negava cioè una volontà senza causa apparente, senza motivi, una volontà come un fiat che nasca dal nulla. Il nulla è un concetto filosofico vedi Heiddeger e Sartre.
Massimo Fagioli nella sua ricerca sulla realtà umana ha scoperto che ci può essere una volontà che nasce più che dal nulla dalla pulsione di annullamento, che cancella gli affetti legati al mondo umano. E’ la volontà di potenza di Nietzsche e dei nazisti e degli schizofrenici. La volontà, la spinta all’azione si collega ad un delirio più o meno nascosto e alla percezione delirante.
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