Psichiatria

Le piccole Veneri

Henry Moore e le piccole Veneri

 Domenico Fargnoli

 

 

Henry  Moore e le piccole Veneri, arte e identità  umana è  l’ultima opera di Francesca Burruso, un libro    bellissimo frutto di una lunga e appassionata ricerca.  Esso nasce dal contrappunto di tre temi: l’arte paleolitica in particolar modo quella mobiliare, la biografia e le opere di Moore e infine, la teoria della nascita e la concezione dell’identità umana di Massimo Fagioli. Il risultato è un intreccio virtuoso, una narrazione avvincente e convincente “che risuona e ci riempie” come ha detto qualcuno. Nel dicembre del 2019  fu dato alle stampe il saggio di  Francesca Burruso edito dalla casa Editrice Espera,  specializzata in tematiche legate all’archeologia. Recentemente è  uscita una traduzione inglese frutto dell’ottimo  lavoro di Marcella Matrone grazie anche all’interessamento della Fondazione Henry Moore.  Uno dei temi che colpiscono maggiormente nel libro è quello dell’ idiosincrasia mostrata dallo  scultore inglese per i critici che da giornali, come il Morning Post nel 1929 lo avevano attaccato pesantemente definendo le sue opere revolting cioè immorali e disgustose:  la sua colpa, oltre al “bolscevismo” sarebbe stata  quella di aver scolpito una statua in un blocco di cemento dal titolo Sucking child nella quale per la prima volta nella storia dell’arte il protagonista assoluto era il lattante. Lo scultore   era molto diffidente non solo nei confronti di artisti che parlano troppo di se stessi in termini razionali ma anche di una critica fatta solo di parole vuote da parte di persone senza sensibilità artistica. Comunque Moore era abilissimo, nell’uso del linguaggio e della comunicazione come affermò la figlia : lo testimoniano i suoi interventi teorici e critici che coprono più di trecento pagine. Le sue analisi  artistiche toccano vertici insuperabili come quelle effettuate sull’opera di Giovanni Pisano o della Pietà Rondanini di Michelangelo.

In   quello stesso periodo, i primi mesi del 2020,  ho cominciato a pormi una serie di domande  e a fare una ricerca, stimolato dalla lettura del libro  di cui stiamo parlando.

Che tipo di rapporto Moore aveva stabilito con le piccole Veneri?

Le sculture dell’arte mobiliare lo avevano influenzato come sostiene Francesca Burruso. Ma in che modo oltre l’eventuale riscontro di alcune analogie formali?  Forse egli aveva scoperto un’affinità con questi antichissimi manufatti e li aveva utilizzati come un repertorio di forme, in mezzo a tante altre che poi ha trasformato, senza che esse  siano sempre  riconoscibili, in creazioni proprie. Ciò che Moore vedeva nelle piccole Veneri era una parte di se stesso e della sua realtà psichica che costituiva l’identità  umana condivisa con i  lontanissimi scultori gravettiani.

Un approfondimento di questo tema potrebbe venire da Primitive art  unarticolo scritto dall’artista  nel 1941 spesso citato nel libro.

Con il termine “ arte primitiva” Moore si  riferiva ai prodotti di una grande varietà di culture e periodi storici che si collocano al di fuori della civilizzazione europea: ciò che li caratterizza è la semplicità intesa come uso essenziale dei mezzi espressivi per manifestare  l’intensità dei sentimenti che derivano da una reazione vitale. La semplicità è una virtù inconscia che non costituisce un fine in se stessa ma rispetta la natura dei materiali che utilizza: essa è un’attività universale continua “ (…) with no separation between past and present” Attività quindi universale senza vincoli geografici, culturali ma soprattutto temporali che  abbraccia anche l’arte mobiliare paleolitica. Quest’ultima  crea oggetti tridimensionali  come “(…) a lovely tender carving of a girl’s head…” in contrasto con il neolitico dove predomina la bidimensionalità e il simbolismo. (Foto 1)

Scrive Moore  in   On being a sculptor“ (1930):

“ Un osservatore sensibile della scultura dovrebbe imparare a reagire emotivamente a una forma semplicemente come ad una forma  che non è una descrizione o un ricordo. Egli dovrebbe percepire un uovo come una  semplice, singola forma solida, prescindendo dal suo significato comel cibo, o dall’idea letteraria che esso diventerà un uccello”.

Bisogna pertanto prescindere dai ricordi, dalle reminiscenze e dai riferimenti simbolici coscienti  presenti nella quotidianità, nella cultura e nella letteratura.

Cosa rimane? Rimane la percezione legata alle memoria inconscia e la reazione immediata di fronte a ciò che è nuovo: questa è appunto la percezione-fantasia teorizzata da Massimo Fagioli. La fantasticheria, al contrario della fantasia altera  e annulla l’identità umana. Allontanandosi dall’arte greco-romana e dai suoi ideali di bellezza razionale che imita la realtà  l’artista ma anche lo spettatore realizza l’intrinseco significato o senso emozionale della forma, il suo contenuto umano e affettivo. La percezione della forma è per Moore  una sensazione interiore e corrisponde allo scavare dentro se stesso:  ogni forma viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano. Il grande merito di Francesca Burruso è di aver colto l’originalità di questa impostazione: nell’ambito del primitivismo dell’arte moderna Henry Moore occupa una posizione del tutto particolare che lo differenzia nettamente da altri suoi contemporanei. Era accaduto  che al British Museum  e di fronte  alle piccole Veneri lo scultore inglese era diventato uno spettatore che  percepiva l’intrinseco senso  emozionale delle  forme che poi è  il filo continuo di una costante antropologica che è presente in ogni continente  e in ogni uomo avendo attraversato decine di migliaia di anni. Egli  non era caduto nelle  reazioni deliranti del suo tempo di fronte alla scoperte di Altamira e Lascaux e ai ritrovamenti sempre più numerosi dei manufatti mobiliari. Era risultato  immune dai falsi giudizi dei critici e degli esperti  che condannavano capolavori come la “Venere di Grimaldi”  o la “Venere impudica” solo per il fatto di averle dispregiativamente chiamate “ Veneri”: uomini di cultura  volevano alterare o rendere invisibile l’immagine femminile annullando la sua presenza  all’origine della storia umana.

La parola “primitivismo” fu usata per la prima volta nella storia dell’arte in Francia nell’opera Nouveau Larousse Illustré, pubblicato fra il 1897 e il 1904, con il significato di imitazione delle arti primitive. Verso la fine dell’Ottocento “primitivo”1 era usato come sinonimo di selvaggio per definire qualunque arte al di fuori della tradizione greco-romana del realismo occidentale riaffermato durante il rinascimento. Nei primi decenni del XX sec. prese piede l’interpretazione per cui l’arte primitiva si identificò con gli oggetti tribali: arte negra o arte oceanica divennero sinonimo di arte primitiva. Gauguin viene considerato il punto di partenza per lo studio del primitivismo anche se il suo fu un atteggiamento   prevalentemente filosofico letterario non essendo egli influenzato più di tanto dallo stile polinesiano. 

Per il pubblico borghese della fine del XIX sec. l’aggettivo primitivo aveva una connotazione negativa. Gli oggetti tribali non erano considerati arte e venivano ammassati nelle sezioni etnografiche dei musei dove li studiò Henry Moore.

Sarebbero stati comunque gli artisti moderni quindi i Fauves e i cubisti a riconoscere ai manufatti tribali lo statuto di grande arte e creare i presupposti per la sintesi fra arcaico esotico e moderno: oggi quest’ultima sintesi, questo atteggiamento sincretico, appare scontato. In particolar modo Les mademoiselles di Avignon di Picasso, con gli impliciti riferimenti ai manufatti africani avrebbero giocato un ruolo fondamentale nel sancire la presenza di una nuova mentalità che attribuiva al primitivo una connotazione nuova più propriamente estetica. Con Picasso ma soprattutto con Moore il primitivismo diventa più che una pratica di citazione e imitazione, il riconoscimento di una caratteristica essenziale: esso definisce la vera arte e pertanto diventa un ossimoro. L’arte paleolitica era tutt’altro che primitiva o selvaggia o arcaica.

Sappiamo che Il pittore catalano possedeva, a partire dal 1927 due copie della “Venere di Lespugue” scoperta nel 1922.  (Foto 2): egli la   considerava, a parole, un capolavoro assoluto che lo affascinava per la sua enigmaticità e ispirò molte sue opere come  la Venus du  gas l’unico suo ready made  (1945) (foto 3 )) e La femme au vase del 1933. (foto 4)). Una versione in bronzo della Femme au vase è sulla tomba di Picasso. In realtà egli, della statuetta,   sottolineo’ un presunto carattere ambiguo insieme femminile, fallico e religioso. Le “Veneri” sarebbero state per lui  Divinità  femminili che sarebbero potute assurgere  anche a simbolo della modernità. Francesca   Burruso prende le distanze da Picasso  le cui affermazioni sono state sopravvalutare e, penso io, accettate  acriticamente senza coglierne l’ambivalenza:  si accenna a questo tema  nell’introduzione al libro su Henry Moore  da lei pubblicata q nel luglio 2020.

 

Moore conosceva anch’egli la “Venere di Lespouge” (Foto 5)), come in generale l’arte paleolitica che aveva disegnato fin dal 1926, osservato dal vivo ad Altamira e financo fotografato in un viaggio in Algeria e in Libia. Fra le  sue opere  ispirate alla statuetta  si può pensare  ci siano le cosiddette “figure reclinate”. Immagini femminili dalla corporeità imponente, teste piccole e appuntite, volto indefinito. Si può dedurre che egli  desse del capolavoro paleolitico ritrovato più  di un secolo fa   un’interpretazione laica, in linea con il suo atteggiamento prevalente,  lontano dalla religione e dal dogma ed anche pertanto dal mito di un matriarcato originario. Cerchiamo di esaminare la statuetta  scoperta  nei Pirenei francesi  seguendo il metodo della visione critica che lo scultore inglese ha utilizzato con altri capolavori per es. di Giovanni Pisano e Michelangelo.   La “Venere di Lespouge” è  un oggetto tridimensionale di 14,4 cm scolpito con una selce in un materiale raro, una zanna di mammuth.(foto4)  L’avorio suggerisce specifiche sensazioni tattili legate ad un oggetto che può essere contenuto nel palmo di una mano. Spazio pieno quindi concepito non solo per essere visto ma per essere apticamente (cioè tattilmente) percepito in uno spazio cavo.  Si riescono poi ad apprezzare i segni dei capelli che scendono sul viso e sul dorso fino alle scapole, incollati alla testa come se fossero bagnati.  La frangia è asimmetrica, più lunga sulla guancia destra: essa, scendendo fino al mento, lascia il volto indefinito (com’è  quello del neonato) e impedisce la visione fisica come a suggerire l’apparizione di   un’immagine mentale. (Foto6 e 6b) La testa, leggermente flessa in basso, ha una conformazione ovoidale, appuntita al vertice come quella di un bambino dopo il passaggio nel canale del parto e contrasta con la capigliatura accuratamente delineata. La forma risultante è la sintesi fra astrazione e verosimiglianza che caratterizza anche molte opere di Henry Moore.  Nella parte posteriore delle cosce si riconosce una veste, una sorta forse  di perizoma con un intreccio, finemente inciso, di bande longitudinali e trasversali. Questo per dire della raffinatezza della lavorazione e dell’abilità estrema che essa richiede per la resa di alcuni particolari realistici. Considerando la ripartizione dei volumi del corpo della statuetta entro una struttura a losanga essi sono disposti in modo da concentrare l’attenzione sul ventre della donna come avviene in altri manufatti simili. La parte superiore del corpo ha tratti infantili ed adolescenziali mentre il seno e la parte inferiore   esprimono una femminilità potente e completamente matura.  Siamo comunque di fronte ad una forma particolare, una struttura le cui masse sono fra loro in tensione dinamica, creata intenzionalmente per esprimere uno specifico contenuto cioè un movimento, uno stato mentale complesso. Ciò che viene rappresentata è una donna che ha da poco partorito come suggerirebbe la forma del ventre.

L’intrinseco significato o senso emozionale che viene trasmesso è legato al vissuto della nascita e della sessualità connesso  al corpo della donna. La Venere è un oggetto concreto, materico che ha la capacità di evocare vissuti emozionali e immagini, una realtà psichica fatta di elementi eterogenei che si combinano fra loro. Per questo è arte in virtù   della vitalità e della potenza espressiva che ha origine nell’inconscio ed è diretta verso di esso. (Foto 7 e 8 )

Nelle “figure reclinate” di Moore troviamo i tratti   della testa  tensione dinamica.

 

Nella Introduzione al libro su Giovanni Pisano di Michael Ayrton (1969) Moore scrive che la grandezza di un’artista consiste, più che nell’ abilità di disegnare o scolpire che comunque deve avere, nella sua umanità.

L’ artista deve esprimere l’identità umana nella sua pienezza e completezza compresa la realtà inconscia

più profonda che ha le sue radici nel vissuto della nascita: solo così può egli può aspirare a  creare un’arte universale riconoscibile e percepibile come tale senza limiti geografici o temporali.

 

Ciò che più conta, diceva, Moore, è la qualità del pensiero cioè il senso di umanità. La grandezza del pensiero scaturisce dall’opera e dilaga al di sopra di ogni perizia tecnica. Ciò che  ha attratto Francesca Burruso è stata la qualità del pensiero e l’identità umana di Henry Moore che riscontriamo anche negli scultori del paleolitico: è così che è nata un’appassionata ricerca che ha portato alla stesura del suo ultimo libro che ha suscitato grande interesse sollevando interrogativi  fondamentali che riguardano non solo  l’arte moderna ma anche quella contemporanea.

 

Standard