Psichiatria

L’impostura di Foucault

Foucault è un fabbricatore di concetti vuoti, come episteme, biopotere, regime di verità; non è un pensatore veramente critico ma un opportunista ideologico, che ha seguito le mode accademiche e politiche; la sua fortuna è dovuta alla “foucalatria”, cioè al culto accademico, non al valore reale delle sue analisi; il suo pensiero è pseudoradicale, cioè conforme al sistema che finge di criticare.

Il filosofo francese non è stato quel “maestro radicale” reclamizzato dalla critica ma piuttosto un abile raffinatore della retorica accademica e un seguace inconsapevole delle correnti intellettuali dominanti. 

Tutti i critici di Foucault [Alan Sokal & Jean Bricmont – Imposture intellettuali (1997)-Annie Le Brun – Du trop de réalité (2000), Ce qui n’a pas de prix (2018)] denunciano una forma di vuoto retorico, dove il linguaggio filosofico è usato come ornamento o strumento di dominio accademico. Tutti vedono in Foucault un simulacro di radicalità, o un pensatore meno sovversivo di quanto venga presentato.

“Ce n’est pas l’analyse du pouvoir qui l’intéresse, mais la position de pouvoir que donne cette analyse à celui qui la pratique.” ( Mandosio)

[Non è l’analisi del potere che lo interessa, ma la posizione di potere che questa analisi conferisce a chi la esercita.]

“Storia della follia” dipinge la follia come prodotto di pratiche sociali, linguistiche e istituzionali storicamente situate. L’esperienza della follia non sarebbe qualcosa di omogeneo e atemporale, ma varierebbe radicalmente da un’epoca all’altra: il folle del Rinascimento vive una condizione ben diversa (culturalmente e simbolicamente) da quella del malato mentale dell’Ottocento. Ogni epoca ridefinirebbe la follia nei propri termini, in funzione dei propri valori, paure e saperi.

Jürgen Habermas, esponente della Teoria Critica e difensore della razionalità comunicativa, ha accusato Foucault di un relativismo storicista che conduce a un impasse normativo. Secondo Habermas, Foucault riduce ogni discorso di verità ai suoi condizionamenti storico-sociali, negando in tal modo l’esistenza di criteri razionali universali. Ciò porterebbe a una “contraddizione performativa”: se anche il discorso di Foucault è figlio di un’epoca e di rapporti di potere, come può pretendere validità critica generale? 

Jürgen Habermas

Siamo di fronte ad una semplificazione storica: Foucault costruisce grandi cesure (la “grande reclusione” del XVII secolo, il passaggio alla ragione clinica nel XIX) che non tengono conto della varietà delle esperienze locali e delle transizioni graduali. Siamo di fronte a l’idealizzazione del Medioevo e alla demonizzazione dell’Illuminismo: l’autore francese accusa quest’ultimo di aver inaugurato la repressione razionale della follia, ma trascura gli elementi emancipatori dell’Illuminismo stesso. Egli nega l’evoluzione terapeutica: minimizza i tentativi di cura, anche nei primi asili, e presenta la nascita della psichiatria come puro strumento di controllo.Questo comporta una posizione che molti definiscono relativismo epistemologico: non esiste una verità “al di là” della storia o della cultura. Ogni sapere è storicamente situato, e ogni scienza – inclusa la psichiatria – è parte di un gioco di potere.

Se ogni verità è relativa a un regime di potere, non esistono più criteri universali per giudicare se una pratica (ad esempio l’internamento psichiatrico o la tortura) sia “giusta” o “sbagliata”.

Bisogna comunque partire dalla considerazione delle cause (non solo dei discorsi) e ad ammettere che, sebbene il significato della follia vari storicamente, ciò non implica che la follia sia un semplice fantasma linguistico o un mero prodotto storico sempre differente.

Foucault riduce ogni discorso di verità ai suoi condizionamenti storico-sociali, negando in tal modo l’esistenza di criteri universali.

Habermas inserisce Foucault tra i “giovani conservatori” (insieme a Nietzsche e Derrida): pensatori che, a suo avviso, con la loro critica radicale alla ragione illuminista finiscono per abdicare alla ricerca di verità e giustizia universali, lasciando solo giochi di potere contingenti. In breve, Habermas rimprovera a Foucault di non fornire alcun fondamento normativo dal quale giudicare i regimi di potere-sapere: il trattamento dei folli nell’età classica viene descritto, ma Foucault non può dire che fosse “ingiusto” senza appellarsi a qualche criterio esterno (criterio che però la sua teoria rifiuta). 

Questa aporia – riassunta dall’osservazione che “se tutto è potere, anche la genealogia foucaultiana è solo un effetto di potere” – rimane un punto centrale nel dibattito Foucault/Habermas.

Jacques Derrida

Jacques Derrida solleva un problema simile a quello di Habermas: come può Foucault giustificare la sua operazione di critica storica senza contraddirsi? Se afferma che “tutto è testo/discorso”, come può il suo libro pretendere di afferrare un’entità, una categoria che si colloca fuori dal discorso e dalla dimensione simbolica (la follia muta)?

 Foucault ritiene che la modernità abbia subordinato il corpo e il sesso a logiche di controllo: salute pubblica, riproduzione, igiene, profilassi.

Le pratiche sessuali “a rischio” sono patologizzate, perché sfuggono alla razionalità sanitaria e produttiva.

Ma per Foucault, accettare il rischio è un atto di libertà, un gesto che rifiuta di sottomettere il piacere alla funzione sociale del sesso. Pratiche come il fisting o il sesso anonimo sarebbero forme di resistenza al disciplinamento del corpo, perché non rispondono a logiche utilitarie, né riproduttive, né igieniche.È in questo senso che Foucault parla della scena sadomaso come di un “laboratorio” dove si esplorano rapporti di potere, piacere, esposizione, senza cadere nella logica dell’identificazione (non si è “passivo” o “attivo” per natura): il rischio non è qualcosa da eliminare, ma una soglia dove si costruisce la soggettività radicale. 

L’ esaltazione della sessualità estrema ignorava le sue conseguenze materiali, come la diffusione dell’HIV, la malattia che colpì il filosofo francese nel 1984 e ne provocò la morte.

Foucault non parlò mai pubblicamente dell’AIDS: non lo fece né come malato, né come teorico o attivista.

Bisogna considerare che per il filosofo la scrittura non rivela un soggetto, lo cancella: si tratta di una pratica senza origine, senza centro, in cui l’autore si dissolve nel gesto stesso dello scrivere. Il libro sarebbe uno spazio in cui si annuncia la morte imminente di chi scrive. La scrittura sarebbe un atto simile alla follia, alla prigione, alla sessualità, alla malattia: la sepoltura del soggetto. Allo stesso modo la sessualità estrema che erotizza il rischio nel tentativo di creare una nuova esperienza del corpo e del piacere lo annulla e lo espone al disfacimento della malattia.

Siamo di fronte all’attraversamento del limite tra vita e sparizione, ad una forma di esperienza della fine, ad un gesto etico: non per dire “io sono”, ma per dire io scompaio, e posso lasciare solo una traccia di ciò che mi ha fatto e disfatto.

La scrittura come le pratiche sessuali non convenzionali diventano atti osceni [ob-sceni= “fuori scena”, cioè non rappresentabili secondo la morale comune ] e sacrificali, tentativi abortiti di trasformazione di se stessi che sfociano in un suicidio annunciato e programmato.

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