Psichiatria

Il vissuto sinestesico e il linguaggio

Il vissuto sinestesico viene generalmente considerato come individuale e irripetibile.

La sintestesia è un fenomeno percettivo per cui una stimolazione sensoriale in un canale (ad es. un suono) genera automaticamente e involontariamente un’esperienza in un altro canale (ad es. un colore). Non è una “metafora poetica” (tipo “un suono caldo”), ma un’esperienza reale, stabile e persistente per chi la vive.

Caratteristiche del vissuto sinestesico

Unicità individuale.

Ogni sinesteta ha le proprie corrispondenze (es. la lettera A rossa per uno, blu per un altro). Sono esperienze “private”, non condivisibili se non tramite descrizione. Costanza nel tempo Una persona tende a mantenere lo stesso schema per tutta la vita (se per lei il 7 è verde, rimarrà verde anche dopo decenni). Irripetibilità fenomenologica Anche se due persone descrivono “note musicali colorate”, i loro schemi non coincidono: il vissuto non è replicabile in modo standardizzato.

🔹 Sul piano linguistico e fenomenologico

In termini fenomenologici (Husserl, Merleau-Ponty) si direbbe che il vissuto sinestesico è un dato soggettivo della coscienza, non riducibile a regole oggettive. In linguistica e psicologia cognitiva viene spesso distinto tra metafora sinestetica (uso linguistico comune: “un profumo dolce”) e sinestesia neurologica (condizione reale, percettiva).

Quindi sì: il vissuto sinestesico è individuale, irripetibile e non trasferibile ad altri, se non tramite descrizione approssimativa.

Nella comprensione di un testo scritto relativamente al significato e al senso entra in gioco il vissuto sinestesico. La parola scritta è densa di metafore corporee “Il linguaggio quotidiano è ricco di metafore sinestetiche che attraversano l’intera gamma sensoriale. Prendiamo la frase «il formaggio Cheddar è piccante». Piccante significa, alla lettera, «pungente», ma il formaggio non è aguzzo, bensì morbido. Naturalmente intendiamo dire che è il gusto a essere «pungente», cioè «piccante»: si tratta di una metafora”(Ramachandran, V. S. (2010). The Tell-Tale Brain: A Neuroscientist’s Quest for What Makes Us Human. New York: W. W. Norton) lo stesso testo induce reazioni diverse in lettori diversi a seconda delle competenze sinestesiche che sono individuali.

Il senso attribuito ad una frase cambia da persona a persona, di momento in momento a seconda del contesto: non è in altri termi riducibile ad un algoritmo o ad una logica computazionale.

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L’IA e la diagnosi psichiatrica

Ethics and the problem of bias in computational linguistics are structural rather than incidental issues. It is not merely a matter of “cleaning the data,” but of critically rethinking the relationship between language, society, and technology. As Bender (2021) points out, language models do not actually understand language; they statisticalize it, thereby risking the amplification of preexisting distortions. Errors and distortions in the diagnostic field raise ethical issues of particular significance. It is necessary to reflect deeply on the bioethical implications of computational diagnoses.Research must be responsible, taking into account not only technical performance but also social, environmental, and political effects. Large language models are described as “stochastic parrots” because: they do not truly understand language.They repeat and recombine, in a statistical manner, what they have learned from data. They can generate plausible text, yet devoid of genuine semantic understanding. This last point is particularly relevant when dealing with a diagnostic process that requires the understanding not only of meaning but also of the implicit sense conveyed in verbal language—a sense that cannot be reduced to statistical formulas or numbers.  Moreover the  physician makes a diagnosis in psychiatry with a view to treatment: in posts and on social media, which are analyzed for diagnostic purposes, is a request for care actually being expressed? Diagnosis can become an intrusion into private life, an  insolecited stigmatization experienced as a form of violence. “Psychiatric surveillance” through algorithms that read continously   behaviors or texts on social media to assign labels without human contact is a practice that must be avoided or  subjected to specific procedures and limitations related to the patient’s explicit consent.

Ultimately, the diagnosis and, consequently, the treatment are always formulated by the physician, who bears the legal responsibility for the medical decision. Technical tools—such as laboratory tests, radiographic examinations, CT scans, or MRI—are helpful in assessing the clinical situation, but they can in no way replace human evaluation and interpretation. The same applies to AI, which in psychiatry may be regarded as a cognitive prosthesis, including psychometrics and the analysis of language, but it cannot replace human judgment.

Osgood, C. E., Suci, G. J., & Tannenbaum, P. H. (1957). The measurement of meaning. Urbana: University of Illinois Press.

Ugazio, C. (2012). Storie permesse, storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologie (2ª ed. ampliata). Milano: Bollati Boringhieri.

Bender, E. M., Gebru, T., McMillan-Major, A., & Shmitchell, S. (2021). On the dangers of stochastic parrots: Can language models be too big? In Proceedings of the 2021 ACM Conference on Fairness, Accountability, and Transparency.

Clark, A., & Chalmers, D. (1998). The extended mind. Analysis, 58(1), 7–19. https://doi.org/10.1093/analys/58.1.7

Pragmatica computazionale

La pragmatica si basa su conoscenze condivise, mondo comune e intenzioni, che sono molto difficili da rappresentare in un sistema computazionale. Per questo, modelli come i grandi LLM (Large Language Models) cercano di simulare la pragmatica statistica, ma non sempre “capiscono” davvero: spesso ricorrono a pattern appresi dai dati.

 

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La mente estesa

La mente estesa ( trad. Domenico Fargnoli)

Andy Clark & David Chalmers
Analysis 58.1, gennaio 1998, pp. 7–19

1. Introduzione

Dove finisce la mente e dove comincia il resto del mondo?
A questa domanda si danno solitamente due risposte standard. Alcuni accettano i confini della pelle e del cranio, sostenendo che ciò che è al di fuori del corpo è anche al di fuori della mente. Altri, colpiti da argomenti che suggeriscono che il significato delle nostre parole “non è solo nella testa”, ritengono che questo esternalismo sul significato si estenda anche a un esternalismo sulla mente.

Noi proponiamo di perseguire una terza posizione. Difendiamo una forma molto diversa di esternalismo: un esternalismo attivo, basato sul ruolo attivo che l’ambiente svolge nel guidare i processi cognitivi.

2. Cognizione estesa

Consideriamo tre casi di problem-solving umano:
1. Una persona siede davanti a uno schermo che mostra immagini di varie figure geometriche bidimensionali e deve rispondere a domande sulla possibilità che tali figure si adattino a delle “incastri” rappresentati. Per valutare l’adattamento, deve ruotare mentalmente le figure per allinearle agli incastri.
2. Una persona si trova davanti a uno schermo simile, ma questa volta può scegliere se ruotare mentalmente le figure oppure premere un tasto che fa ruotare fisicamente l’immagine sullo schermo. Supponiamo, non in modo irrealistico, che l’operazione di rotazione fisica sia più rapida.
3. In un ipotetico futuro cyberpunk, una persona siede davanti a uno schermo simile. Questo soggetto, però, possiede un impianto neurale che può eseguire l’operazione di rotazione alla stessa velocità del computer. Deve comunque scegliere quale risorsa usare (l’impianto o la rotazione mentale tradizionale), poiché ciascuna comporta diversi costi in termini di attenzione e attività cerebrale concorrente.

Quanta cognizione è presente in questi casi? Noi suggeriamo che i tre casi siano simili. Il caso (3), con l’impianto neurale, appare chiaramente analogo al caso (1). Ma anche il caso (2), con il pulsante di rotazione, mostra la stessa struttura computazionale del caso (3), distribuita tra agente e computer anziché interamente interna all’agente. Se la rotazione del caso (3) è cognitiva, con quale diritto considerare il caso (2) fondamentalmente diverso? Non possiamo semplicemente indicare il confine pelle/cranio come giustificazione, poiché proprio la legittimità di quel confine è ciò che è in discussione.

Il tipo di caso appena descritto non è affatto così esotico come può sembrare. Non si tratta solo della presenza di risorse informatiche avanzate, ma della tendenza generale degli esseri umani a fare grande affidamento su supporti ambientali. Consideriamo ad esempio:
• l’uso di carta e penna per eseguire moltiplicazioni lunghe,
• il riordinamento delle tessere di lettere nello Scarabeo per facilitare il richiamo di parole,
• l’uso di strumenti come il regolo calcolatore nautico,
• e, più in generale, l’intero apparato di linguaggio, libri, diagrammi e cultura.

In tutti questi casi, il cervello individuale compie alcune operazioni, mentre altre vengono delegate a manipolazioni di media esterni. Se i nostri cervelli fossero diversi, la distribuzione dei compiti sarebbe stata differente.

In effetti, persino i casi di rotazione mentale descritti sopra sono reali: si presentano ai giocatori del videogioco Tetris. In Tetris, le figure che cadono devono essere rapidamente dirette verso la giusta fessura. Si può usare un pulsante di rotazione. Kirsh e Maglio (1994) hanno calcolato che la rotazione fisica di una figura di 90° richiede circa 100 millisecondi, più altri 200 per selezionare il pulsante; ottenere lo stesso risultato con la rotazione mentale richiede circa 1000 millisecondi.

Essi mostrano che la rotazione fisica non serve solo a posizionare la figura, ma spesso anche a determinare la compatibilità tra forma e incastro. Questo è ciò che chiamano azione epistemica: un’azione che modifica il mondo in modo da facilitare o ampliare processi cognitivi come il riconoscimento o la ricerca. Al contrario, un’azione puramente pragmatica modifica il mondo solo perché è desiderato un cambiamento fisico (es. versare cemento in una crepa di una diga).

L’azione epistemica, sosteniamo, richiede una distribuzione del credito epistemico. Se, di fronte a un compito, una parte del mondo funziona come un processo che, se fosse stato svolto nella testa, non avremmo esitato a riconoscere come parte del processo cognitivo, allora quella parte del mondo è parte del processo cognitivo. La cognizione non è tutta nella testa.

3. Esternalismo attivo

In questi casi, l’organismo umano è collegato con un’entità esterna in una interazione bidirezionale, creando un sistema accoppiato che può essere visto come un sistema cognitivo a pieno titolo. Tutti i componenti del sistema svolgono un ruolo causale attivo e insieme governano il comportamento nello stesso modo in cui normalmente lo fa la cognizione.

Se rimuoviamo il componente esterno, la competenza comportamentale del sistema diminuisce, esattamente come accadrebbe se rimuovessimo una parte del cervello. La nostra tesi è che questo tipo di processo accoppiato conti a tutti gli effetti come un processo cognitivo, anche se non si svolge interamente “nella testa”.

Questo esternalismo differisce dall’esternalismo standard di Putnam (1975) e Burge (1979). Nei loro casi classici (es. “Terra Gemella”), le caratteristiche esterne rilevanti sono distali e storiche, alla fine di una lunga catena causale. Non hanno alcun ruolo nel qui-e-ora: se io mi teletrasporto su Terra Gemella, i miei pensieri continuano a riguardare l’acqua terrestre, nonostante mi circondi XYZ.

Nei casi che noi descriviamo, invece, le caratteristiche esterne sono attive, giocano un ruolo diretto e cruciale nel presente, incidono sul comportamento. Sono “nel circuito” del sistema cognitivo, non sospese all’altro capo di una catena causale remota. Questo è ciò che chiamiamo esternalismo attivo, contrapposto all’esternalismo passivo di Putnam e Burge.

L’esternalismo attivo, a differenza di quello passivo, non soffre dell’obiezione dell’irrilevanza causale: se cambiamo le caratteristiche esterne mantenendo costante la struttura interna, il comportamento può cambiare radicalmente.

4. Dalla cognizione alla mente

Finora abbiamo parlato soprattutto di “processi cognitivi” estesi nell’ambiente. Ma che dire della mente vera e propria — credenze, desideri, emozioni?

Consideriamo due casi:
• Inga sente parlare di una mostra al MoMA. Ricorda che il museo è sulla 53ª strada e ci va. Possiamo dire che credeva già prima di consultare la memoria che il museo fosse lì.
• Otto, affetto da Alzheimer, porta sempre con sé un taccuino dove annota le informazioni. Vuole andare al MoMA, consulta il taccuino e legge “53ª strada”. Va al museo.

È naturale dire che Otto credeva che il museo fosse sulla 53ª strada già prima di consultare il taccuino. Per lui, il taccuino svolge lo stesso ruolo che la memoria svolge per Inga.

Se negassimo ciò, dovremmo complicare enormemente le spiegazioni delle sue azioni: non più “Otto crede che il museo sia in 53ª strada”, ma “Otto crede che il museo sia dov’è scritto nel taccuino, e il taccuino dice…”. Una spiegazione inutile, visto che il taccuino è costante nella vita di Otto, proprio come la memoria lo è nella vita di Inga.

Ne segue che la credenza non è sacra ai confini della pelle e del cranio: ciò che conta è il ruolo funzionale. Se l’informazione esterna gioca lo stesso ruolo causale e normativo della memoria interna, essa costituisce una credenza.

5. Oltre i limiti

Quanto lontano possiamo spingerci? Possiamo considerare parte della memoria anche le etichette appese dagli abitanti smemorati di Cent’anni di solitudine? E i file del mio computer? E Internet?

Gli autori rispondono: dipende dal grado di costanza, accessibilità, affidabilità e integrazione. Otto e il suo taccuino soddisfano bene questi criteri. Altri casi sono più dubbi.

E la cognizione socialmente estesa? Sì, in linea di principio: un partner di coppia, un collaboratore fidato, un cameriere che conosce sempre le mie preferenze possono fungere da protesi cognitive. Il linguaggio è il mezzo principale di questa estensione sociale: non uno specchio degli stati interni, ma un complemento che amplia la cognizione.

Infine, il sé: se accettiamo che le credenze disposizionali costituiscano parte della nostra identità, allora anche i supporti esterni che le veicolano entrano a far parte del sé. Otto non è solo un organismo biologico, ma un sistema esteso che comprende anche il suo taccuino.

Questa riconfigurazione ha conseguenze filosofiche, scientifiche e morali: in certi casi, interferire con l’ambiente di una persona può avere la stessa gravità che interferire con la sua persona. Una volta superata l’egemonia dei confini pelle/cranio, possiamo vederci più chiaramente come creature del mondo.

Bibliografia

(come nell’originale: Putnam, Burge, Hutchins, Kirsh, Maglio, Varela, ecc.)

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Nabka e Olocausto

Nakba designa l’insieme delle conseguenze traumatiche (esilio, perdita della casa, dissoluzione di comunità) subite dalla popolazione palestinese a seguito del Piano di Partizione ONU del 1947 (Risoluzione 181) e della guerra arabo-israeliana del 1948.

La Nakba (in arabo: النكبة, al-Nakba, che significa “la catastrofe”) è il termine con cui il popolo palestinese si riferisce agli eventi del 1947–1949, e in particolare al 1948, che portarono: alla creazione dello Stato di Israele, all’espulsione o fuga forzata di oltre 750.000 palestinesi dalle loro terre, alla distruzione di circa 500 villaggi palestinesi, e all’inizio di un esilio ancora oggi irrisolto per milioni di rifugiati e loro discendenti.

La guerra del 1948 ha segnato la nascita di Israele e la disintegrazione della società palestinese. Ha creato la frattura storico-identitaria della Nakba, che resta alla base del conflitto attuale. Le sue conseguenze politiche, psicologiche e territoriali non sono mai state risolte.

Gli eventi che hanno portato alla Nabka sono considerati dalla maggioranza dei palestinesi come pulizia etnica deliberata da parte delle milizie sioniste (Haganah, Irgun, Lehi), secondo numerosi storici, tra cui Ilan Pappé, che parla apertamente di un “Piano D” (Plan Dalet) per lo spopolamento arabo della Palestina.

Significato culturale e identitario

Per i palestinesi, la Nakba non è solo un evento storico: è un trauma collettivo, una frattura nella continuità dell’identità nazionale. È anche una categoria simbolica e politica che unisce la memoria del passato alla condizione presente di: esilio, occupazione, assedio (es. Gaza), negazione del diritto al ritorno e negazione dello Stato.

Il fenomeno della Nakba denial (cioè la negazione collettiva degli eventi del 1948) è parte integrante delle narrazioni stataliste del sionismo: molti storici notano come essa sia stata istituzionalizzata fin dai primi decenni del nuovo Stato israeliano, in particolare attraverso la storiografia ufficiale che omette l’espulsione di centinaia di villaggi palestinesi, rifugiati e le loro memorie sistematicamente cancellate o minimizzate.

Secondo Saleh Abd al‑Jawad e altri, il negazionismo viene facilitato dalla costruzione narrativa secondo cui la Palestina era una terra deserta o “ senza popolo per un popolo senza terra” — mito fondante del colonialismo sionista .

La Nakba è trasmessa da una generazione all’altra: tramite racconti orali, attraverso la letteratura e la poesia ), e oggi anche tramite cinema, fotografia e archivi digitali (es. Palestinian Oral History Archive, Zochrot). Scrive il poeta Mahmoud Darwish:

Carta di identità (1964)

“(…)

Scrivi!

Sono un arabo

Hai rubato le tende delle mie antenate

E la terra che coltivavo

Con i miei figli

Non ci hai lasciato nulla

Tranne queste rocce

Vuoi che continui a vivere

Come un parassita?

Ti porterò la mia rabbia

E la fame

Attento…

Attento alla mia fame

E alla mia collera!

Psicologi e psicoanalisti (es. Goldberg, Avissar, Lentin) descrivono la Nakba come un “trauma non concluso”, che si riattiva costantemente, soprattutto durante crisi come quelle di Gaza.

Nel 2011, il parlamento israeliano ha approvato la “Nakba Law”, che consente di tagliare i fondi pubblici a enti che commemorano ufficialmente la Nakba, in quanto considerata “attacco alla legittimità dello Stato” — fatto che rende il trauma doppio: storico e attuale.

Questo approccio rappresenta la posizione dominante dei governi di destra, dei sionisti religiosi e nazionalisti, e di ampi settori dell’opinione pubblica.

Una parte crescente, ma ancora minoritaria, della popolazione israeliana — composta da intellettuali, attivisti, artisti, ebrei mizrahi e alcuni gruppi giovanili — riconosce apertamente la Nakba come atto fondativo della sofferenza palestinese.

La Nakba, per la maggior parte degli israeliani e delle istituzioni pubbliche, non è ancora pienamente riconosciuta come evento storico centrale. Le ragioni sono molteplici:

Implicherebbe ammettere una colpa storica e una violenza fondativa. Metterebbe in discussione la narrazione eroica e difensiva del 1948. Aprirebbe la porta a rivendicazioni simboliche, politiche e giuridiche (come il diritto al ritorno).


Ecco la traduzione in italiano del testo visibile nell’immagine:

In questo libro rivoluzionario, importanti intellettuali arabi ed ebrei esaminano come e perché la Shoah e la Nakba siano interconnesse, senza però confondere le differenze fondamentali che le separano. Sebbene queste due tragedie fondative vengano spesso trattate separatamente e astratte dai contesti storici globali costitutivi del nazionalismo e del colonialismo, The Holocaust and the Nakba esplora le intersezioni storiche, politiche e culturali tra esse. La maggior parte degli autori sostiene che tali intersezioni siano radicate in immaginari culturali, relazioni di potere coloniali e asimmetriche, realtà e strutture. Concentrarsi su di esse apre la strada a una nuova grammatica politica, storica e morale che permetta una coabitazione arabo-ebraica e favorisca una riconciliazione storica in Israele/Palestina.


Questo libro non intende tracciare un parallelo né stabilire un confronto tra la Shoah e la Nakba, né semplicemente inaugurare un “dialogo” tra le due. Piuttosto, cerca una nuova grammatica storica e politica per mettere in relazione e narrare le loro complesse intersezioni. Il libro presenta autorevoli contributi internazionali, inclusa una prefazione del romanziere libanese Elias Khoury sulla centralità della Shoah e della Nakba nella lotta essenziale dell’umanità contro il razzismo, e una postfazione della studiosa letteraria Jacqueline Rose sulle sfide e i contributi del legame tra Shoah e Nakba nel promuovere un mondo di giustizia ed eguaglianza da costruire tra i due popoli.
The Holocaust and the Nakba è il primo studio collettivo esteso e approfondito in lingua inglese che tratta insieme questi due traumi fondativi.
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