Nakba designa l’insieme delle conseguenze traumatiche (esilio, perdita della casa, dissoluzione di comunità) subite dalla popolazione palestinese a seguito del Piano di Partizione ONU del 1947 (Risoluzione 181) e della guerra arabo-israeliana del 1948.
La Nakba (in arabo: النكبة, al-Nakba, che significa “la catastrofe”) è il termine con cui il popolo palestinese si riferisce agli eventi del 1947–1949, e in particolare al 1948, che portarono: alla creazione dello Stato di Israele, all’espulsione o fuga forzata di oltre 750.000 palestinesi dalle loro terre, alla distruzione di circa 500 villaggi palestinesi, e all’inizio di un esilio ancora oggi irrisolto per milioni di rifugiati e loro discendenti.
La guerra del 1948 ha segnato la nascita di Israele e la disintegrazione della società palestinese. Ha creato la frattura storico-identitaria della Nakba, che resta alla base del conflitto attuale. Le sue conseguenze politiche, psicologiche e territoriali non sono mai state risolte.
Gli eventi che hanno portato alla Nabka sono considerati dalla maggioranza dei palestinesi come pulizia etnica deliberata da parte delle milizie sioniste (Haganah, Irgun, Lehi), secondo numerosi storici, tra cui Ilan Pappé, che parla apertamente di un “Piano D” (Plan Dalet) per lo spopolamento arabo della Palestina.
Significato culturale e identitario
Per i palestinesi, la Nakba non è solo un evento storico: è un trauma collettivo, una frattura nella continuità dell’identità nazionale. È anche una categoria simbolica e politica che unisce la memoria del passato alla condizione presente di: esilio, occupazione, assedio (es. Gaza), negazione del diritto al ritorno e negazione dello Stato.
Il fenomeno della Nakba denial (cioè la negazione collettiva degli eventi del 1948) è parte integrante delle narrazioni stataliste del sionismo: molti storici notano come essa sia stata istituzionalizzata fin dai primi decenni del nuovo Stato israeliano, in particolare attraverso la storiografia ufficiale che omette l’espulsione di centinaia di villaggi palestinesi, rifugiati e le loro memorie sistematicamente cancellate o minimizzate.
Secondo Saleh Abd al‑Jawad e altri, il negazionismo viene facilitato dalla costruzione narrativa secondo cui la Palestina era una terra deserta o “ senza popolo per un popolo senza terra” — mito fondante del colonialismo sionista .
La Nakba è trasmessa da una generazione all’altra: tramite racconti orali, attraverso la letteratura e la poesia ), e oggi anche tramite cinema, fotografia e archivi digitali (es. Palestinian Oral History Archive, Zochrot). Scrive il poeta Mahmoud Darwish:
Carta di identità (1964)
“(…)
Scrivi!
Sono un arabo
Hai rubato le tende delle mie antenate
E la terra che coltivavo
Con i miei figli
Non ci hai lasciato nulla
Tranne queste rocce
Vuoi che continui a vivere
Come un parassita?
Ti porterò la mia rabbia
E la fame
Attento…
Attento alla mia fame
E alla mia collera!
Psicologi e psicoanalisti (es. Goldberg, Avissar, Lentin) descrivono la Nakba come un “trauma non concluso”, che si riattiva costantemente, soprattutto durante crisi come quelle di Gaza.
Nel 2011, il parlamento israeliano ha approvato la “Nakba Law”, che consente di tagliare i fondi pubblici a enti che commemorano ufficialmente la Nakba, in quanto considerata “attacco alla legittimità dello Stato” — fatto che rende il trauma doppio: storico e attuale.
Questo approccio rappresenta la posizione dominante dei governi di destra, dei sionisti religiosi e nazionalisti, e di ampi settori dell’opinione pubblica.
Una parte crescente, ma ancora minoritaria, della popolazione israeliana — composta da intellettuali, attivisti, artisti, ebrei mizrahi e alcuni gruppi giovanili — riconosce apertamente la Nakba come atto fondativo della sofferenza palestinese.
La Nakba, per la maggior parte degli israeliani e delle istituzioni pubbliche, non è ancora pienamente riconosciuta come evento storico centrale. Le ragioni sono molteplici:
Implicherebbe ammettere una colpa storica e una violenza fondativa. Metterebbe in discussione la narrazione eroica e difensiva del 1948. Aprirebbe la porta a rivendicazioni simboliche, politiche e giuridiche (come il diritto al ritorno).
Ecco la traduzione in italiano del testo visibile nell’immagine:
In questo libro rivoluzionario, importanti intellettuali arabi ed ebrei esaminano come e perché la Shoah e la Nakba siano interconnesse, senza però confondere le differenze fondamentali che le separano. Sebbene queste due tragedie fondative vengano spesso trattate separatamente e astratte dai contesti storici globali costitutivi del nazionalismo e del colonialismo, The Holocaust and the Nakba esplora le intersezioni storiche, politiche e culturali tra esse. La maggior parte degli autori sostiene che tali intersezioni siano radicate in immaginari culturali, relazioni di potere coloniali e asimmetriche, realtà e strutture. Concentrarsi su di esse apre la strada a una nuova grammatica politica, storica e morale che permetta una coabitazione arabo-ebraica e favorisca una riconciliazione storica in Israele/Palestina.
Questo libro non intende tracciare un parallelo né stabilire un confronto tra la Shoah e la Nakba, né semplicemente inaugurare un “dialogo” tra le due. Piuttosto, cerca una nuova grammatica storica e politica per mettere in relazione e narrare le loro complesse intersezioni. Il libro presenta autorevoli contributi internazionali, inclusa una prefazione del romanziere libanese Elias Khoury sulla centralità della Shoah e della Nakba nella lotta essenziale dell’umanità contro il razzismo, e una postfazione della studiosa letteraria Jacqueline Rose sulle sfide e i contributi del legame tra Shoah e Nakba nel promuovere un mondo di giustizia ed eguaglianza da costruire tra i due popoli. The Holocaust and the Nakba è il primo studio collettivo esteso e approfondito in lingua inglese che tratta insieme questi due traumi fondativi.