Il film di Miloš Forman “Qualcuno volò sul nido del cuculo” esce nel 1975, proprio negli anni in cui in Italia esplode il movimento per la chiusura dei manicomi . Alcuni critici italiani (es. Giovanni Jervis) sottolinearono la dimensione individualista e tragica del film: McMurphy il protagonista si sacrifica, ma non c’è vera trasformazione collettiva. Il film e il romanzo di Kesey hanno dato al pubblico internazionale un’immagine fortissima della psichiatria come istituzione repressiva.
Nel 1973 lo psicologo statunitense David L. Rosenhan pubblicò sulla rivista Science uno studio divenuto celebre con il titolo On Being Sane in Insane Places (tradotto in italiano: “Sull’esser sani in luoghi folli”). Questo esperimento pionieristico metteva alla prova la validità delle diagnosi psichiatriche inviando persone sane sotto copertura in ospedali psichiatrici. Lo studio è considerato una critica importante e influente alla psichiatria dell’epoca, in quanto metteva in discussione la capacità dei medici di distinguere il sano dal malato mentale
Rosenhan trasse conclusioni severe sul sistema psichiatrico. Anzitutto dimostrò empiricamente la fallibilità dei metodi diagnostici: in condizioni normali, gli psichiatri tendevano a “vedere” patologia anche dove non ve n’era (come successo coi pseudopazienti sani), mentre all’opposto, se posti in stato di allerta, potevano scambiare per simulatore un malato autentico. In sintesi, secondo Rosenhan «non possiamo distinguere i sani dai pazzi negli ospedali psichiatrici»
Brenton Tarrant è un suprematista bianco e terrorista australiano autore, il 15 marzo 2019 della strage nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda ai danni di soggetti di fede mussulmana. Mentre si recava in macchina nei luoghi della sparatoria Tarrant, che si ispirava a Anders Breivik e Luca Traini, ascoltava una canzone dal titolo “Serbia strong o Remove kebah” che dice: << Karadzic guiderà i serbi mostrando che essi non hanno paura di niente(…)>> Chi è Radovan Karadzic?
Un terrorista di stato che ha usato il potere istituzionale e militare per sterminare i mussulmani bosniaci.
Egli è stato un politico e criminale di guerra già presidente dell’autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia dal 1992 al 1996.
Latitante dal 1996 al 2008, Karadžić è stato condannato nel marzo 2019 all’ergastolo dal tribunale penale internazionale dell’Aia per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Karadzic ha intrapreso una guerra che è costata più di centomila morti, 50000 stupri, circa due milioni di sfollati e rifugiati politici, danni materiali incalcolabili in tutta la Bosnia e nell’assedio della città di Sarajevo. 10751 uomini e ragazzi trucidati in pochi giorni nel luglio 1995 solo nell’enclave di Srebrenica città che fu disarmata e lasciata alla mercé degli aggressori nell’indifferenza colpevole delle truppe olandesi dell’ONU che abbandonarono armi, divise e blindati. Un lato oscuro di questa vicenda è la decisione del comando della NATO di negare l’intervento dell’aviazione contro i serbi bosniaci che entravano a Srebrenica violando leqq risoluzioni dell’ONU. Nato nel 1945 in un piccolo villaggio del Montenegro e cresciuto in un clima di ristrettezze Radovan Karadzic si trasferisce dopo le scuole medie a Sarajevo dove in seguito intraprende gli studi di medicina. Si specializza in psichiatria e lavora nella clinica universitaria di Sarajevo senza mai abbandonare la sua vera passione la poesia. Scrive diverse raccolte in un linguaggio cupo e pessimistico. I suoi versi erano rozzi e tradivano un temperamento impulsivo con contenuti improntati ad un misticismo criptico con immagini crude, violente e presagi di sventure. Alla fine degli anni 70 il montenegrino cerca di coniugare l’ interesse per la psichiatria e quello per la poesia anche durante la permanenza di un anno in America con una borsa di studio alla Columbia University. La vita di Karadzcic che era quella di un mediocre poeta e di uno psichiatra svogliato subisce ad un certo punto un improvviso cambiamento. Dopo essersi occupato di psicologia dello sport con risultati discutibili tenta con alcuni amici di truffare lo stato per mettere su un allevamento di polli e costruire una villetta con fatture gonfiate. Finisce in prigione per 11 mesi. Viene scarcerato forse per una collaborazione coi servizi segreti. L’esperienza del carcere è un detonatore che evidenzia un fallimento umano e professionale. Negli anni successivi come riferisce lo psichiatra Ismet Ceric, supervisore di Karadzic per vent’anni, fa uso massiccio di antidepressivi e soffre di una grave forma di insonnia. Secondo Ceric e la psichiatra junghiana che lo ha analizzato Karadzic ha un disturbo narcisistico della personalità. Alla fine degli anni 80 egli decide di entrare in politica dapprima coi verdi e in seguito fondando il partito dei nazionalisti serbi. Da qui in avanti assistiamo ad una profonda trasformazione della personalità che potrebbe essere l’indizio di un grave processo psicotico. L’assunzione di un ruolo pubblico politico ha un effetto cosmetico sulla psicopatologia: la grandiosità, la vanagloria maschera il vuoto e l’assenza di identità umana , professionale e artistica. Karadzic, montenegrino, si trasforma nell’eroe difensore della causa dei serbi che si autorappresentano, nella poesia epica, come storicamente perseguitati. Ivan Rascovic uno psichiatra serbo croato che aveva teorizzato, ispirandosi alle teorie razziali del nazista Ernst Rudin , la superiorità genetica del popolo serbo ( suo il libro “Il paese folle” ) aveva designato Radovan Karadzic alla suprema carica della repubblica e dell’esercito serbo bosniaco. Raskovic era l’ideologo che aveva alimentato coscientemente l’odio razziale e si riteneva il vero fautore della pulizia etnica. Incredibilmente Karadzic aderisce totalmente al ruolo eroico che Raskovic e i nazionalisti serbi avevano disegnato per lui. Apparentemente per il potere, la visibilità internazionale e il denaro delle razzie e del contrabbando ma soprattutto per la megalomania che lo spinge ad azioni assurde e senza senso lo psichiatra-poeta è disposto ad annullare ogni dimensione umana, entrando nella parte di chi è votato, fino al martirio alla causa del nazionalismo. Per Karadzic la Serbia è il paese della Resurrezione, cioè della rivoluzione attraverso l’identificazione coi martiri Cristiani e l’unificazione mistica con l’anima perenne e atemporale del popolo serbo. Karadzic si identifica con personaggi storici, come San Lazar che combatté’ i turchi nel 1369 e indulge ad una sorta di neronismo. E’ emulo di Nerone quando suona la gusla, il violino monocorde, e recita poesie sulle alture di Sarajevo che brucia sotto i colpi dei suoi mortai. È in compagnia del nazibol Eduard Limonov : quest’ultimo spara con una mitragliatrice sulle case della città assediata. E’ una scena del documentario Serbian epics di Pawel Pawlikowsky del 1992. Personaggio popolare ed estroverso Karadzic si situa in una linea di continuità dal punto di vista psicopatologico con i criminali nazisti a Norimberga. Uno saggio sul montenegrino è quello di Jessica Stern un’accademica americana esperta di terrorismo. In un libro uscito il mese di Febbraio 2020 dal titolo «Il mio criminale di guerra : un incontro personale con un architetto del genocidio>> la scrittrice scandaglia la mente del genocida. Il libro è poco più che un esercizio retorico. Infatti Jessica Stern conclude, con un tocco di fatuità, che malgrado le bugie e i tentativi di manipolazione a suo danno Radovan è tutt’altro che un mostro ma si dimostra affabile, colto e a tratti fascinoso; secondo lei avrebbe avuto ragione lo psichiatra Douglas Kelley che a suo tempo studio’ i 22 criminali nazisti, fra cui Goring, Von Ribbentrop e Speer, al processo di Norimberga nel 1945-1946. Kelley concluse le sue indagini sostenendo che non esiste una nazi-mind un tratto distintivo della mente nazista. I nazisti sarebbero stati, secondo lo psichiatra americano non dei mostri disumani ma persone normali. Come uniche caratteristiche in comune essi avrebbero avuto la smisurata ambizione e gli incredibili ritmi di lavoro motivati dal fanatismo nazionalista oltre che carenza di senso morale. Il test di Rorschach utilizzato per la diagnosi avrebbe mostrato che i leaders nazisti non presentavano malattie mentali o psicopatologie di rilievo. Il Nazismo pertanto, privo di segni patognomonici, sarebbe potuto risorgere ovunque in mezzo alle persone cosiddette ordinarie e quindi anche in America. Chiediamoci quanto Douglas Kelley fosse attendibile. Lo psichiatra sviluppo’ un rapporto di amicizia con Hermann Goring, che gli fece anche dei regali, fino al punto di esprimere ammirazione per il suicidio con il cianuro considerato un abile e brillante tocco finale con cui il nazista aveva messo in scacco le guardie americane e si era guadagnato l’ammirazione dei posteri. Nel 1958 in America Douglas Kelley fu protagonista di un incomprensibile e plateale suicidio di fronte al padre e alla famiglia proprio con il cianuro. Come se l’esperienza di Norimberga avesse agito alla stessa stregua di un veleno che lo aveva logorato nel tempo tramite un’identificazione speculare e mortale con Hermann Goring. Kelley e quindi anche Jessica Stern, avevano torto. Karadzic infatti espresse bene e chiaramente ciò che caratterizza “the nazi mind”. In un intervento al parlamento dei bosniaci nell’ottobre 1991 ammonì questi ultimi che se si fossero separati dalla Serbia i mussulmani avrebbero rischiato l’estinzione cioè l’annientamento come di fatto avvenne. Ciò che è tipico della mentalità nazista è la volontà di far sparire fisicamente come nei lager del Terzo Reich, persone che vengono vissute come estranee e diverse. La volontà di annientamento dei serbi si spingeva fino al punto che anche da morti venne negata, tramite la pratica dello smembramento organizzato e sistematico attuata a Srebrenica un’identità ai mussulmani. Preliminare dell’annientamento e dello smembramento e’ l’annullamento, la percezione delirante che non riconosce l’esistenza dell’altro. Il generale Mladić, agli ordini di Karadzic, a Srebrenica disse al comandante olandese :<< Tu non sei niente. Io sono Dio>> Ciò’ avveniva un anno dopo la morte per suicidio di sua figlia Ana. La pulsione di annullamento, la disumanizzazione è il nucleo generatore della malattia mentale, come suggerisce la teoria della nascita di Massimo Fagioli. Durante la latitanza durata 13 anni grazie all’appoggio dei servizi segreti, Karadzic assunse ancora un’altra identità oltre a quella di psichiatra e politico: si trasformò in un guru della medicina alternativa che pretendeva di curare con la spiritualità e la bioenergia. La maschera del santo è il macabro e paradossale travestimento di un omicida di massa. Egli aveva assunto le vesti di un guaritore il cui look, barba e capelli lunghissimi in uno stile new Age, era assurdo e bizzarro. Anche questa volta lo psichiatra-poeta aveva aderito, in modo manieristico, a un cliché, a uno stereotipo alterando i tratti delle precedenti personalità ad eccezione della poesia. Quest’ultima garantiva il continuum psicopatologico fra le varie fasi della sua vita. Dietro un’iniziale apparenza di normalità traspare per effetto di mutazioni successive anaffettività estrema, percezione delirante, manierismo, esaltazione fissata e bizzarria: la pulsione di annullamento rivolta contro la realtà umana crea una serie di fratture nell’esistenza dello psichiatra-poeta e la frammenta in sequenze identitarie fra loro dissociate. L’apparente empatia e affettività, la seduttivita’ magnetica e carismatica nasconde il morso e il veleno del cobra. La mostruosità dei nazisti siano essi tedeschi o serbi, risiede nel loro mimetismo camaleontico che ne maschera la disumanità: nessun senso di colpa o pentimento. Un ultimo tema che posso solo accennare. Lo psichiatra montenegrino fu il leader di un movimento sociale. Populista convinto egli si sentì in obbligo guidare il popolo serbo verso il suo destino utopico, la grande Serbia. Egli vide nella volontà del popolo più presunta che reale, la giustificazione della sua leadership. Il genocidio e le atrocità di massa furono perpetrate nel totale rispetto delle procedure della democrazia rappresentativa. Karadzic e i leaders serbi bosniaci erano ferventi costituzionalisti: essi sottomisero tutte le più importanti decisioni all’assemblea dei rappresentanti nella più scrupolosa osservanza delle norme. La democrazia serba facilitò e accelerò l’omicidio di massa mentre quei paesi che si ritenevano campioni di democrazia non fecero nulla per prevenire o bloccare le atrocità. L’assemblea serbo bosniaca è stato un esempio perfetto di gruppo che sostiene e rinforza le motivazioni e le decisioni criminali dei suoi leaders essendo tutti collettivamente in preda all’onnipotenza e alla paranoia. Come è potuto accadere tutto ciò? Quali processi psichici hanno caratterizzato questa psicosi collettiva? Nazionalismo e populismo quando diventano credenze estreme, idee dominanti alimentate dall’odio costituiscono derive pericolose per gli apparati democratici dietro le quali appare e talora si concretizza, in circostanze favorevoli lo spettro del nazismo, il delirio e la volontà di annientamento. Soprattutto quando i leader politici propugnano idee xenofobe, più o meno apertamente razziste ed antiumane. Il pensiero va all’Italia, agli episodi di antisemitismo e intolleranza razziale, alle atrocità e alle complicità con i lager libici, all’Olocausto dei migranti nel mediterraneo che suonano come un monito per il pericolo di una balcanizzazione mai completamente esorcizzato.
Il termine “genocidio”
Definizione giuridica: la Convenzione ONU del 1948 sul genocidio lo definisce come atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Non basta la distruzione materiale: è centrale l’intento di annientare il gruppo come tale
La Palestina: una mente criminale dietro il genocidio
Un articolo (“Psicologia di Netanyahu. La teoria del pazzo e la sua prassi”, Claudio Resta) interpreta il leader israeliano come qualcuno che può usare la retorica o l’azione in modo estremo o imprevedibile per spaventare gli avversari, proiettando forza anche in contesti dove si rischia escalation, come strumento strategico. L’idea è che presentarsi come potenzialmente “incontrollabile” produca deterrenza. È una lettura psicopolitica che si collega a teorie della politica estera tipiche della Guerra Fredda: “madman theory”.
È la teoria secondo cui un leader può volontariamente costruirsi l’immagine di irrazionale, imprevedibile, pronto a tutto, anche a usare la forza estrema (incluso il nucleare), per spaventare e dissuadere l’avversario. L’idea è: se gli altri ti credono “pazzo”, tenderanno a evitare lo scontro diretto, per paura di reazioni incontrollabili.
In Shakespeare (ma anche nella cultura rinascimentale) c’è un motivo ricorrente: la maschera della follia. Personaggi che fingono la pazzia finiscono per oscillare tra finzione e realtà psichica. Questo crea un’ambiguità: se il folle è troppo convincente, chi può dire dove finisca la recita e dove cominci la vera perdita della salute mentale?
Shakespeare gioca spesso con l’idea che la follia recitata può trasformarsi in vera follia, perché il confine è fragile: Amleto: “antic disposition” (follia strategica), ma il dubbio è che la follia lo divori davvero.
La famosa espressione che usa Amleto nell’atto I, scena 5, è:
“As I perchance hereafter shall think meet / To put an antic disposition on…”
[Poiché forse in seguito giudicherò opportuno assumere un atteggiamento folle (fingere pazzia).»]
Scrive l’autore
“La profondità della convinzione di Netanyahu nella prospettiva darwiniana può spiegare la sua convinzione che la maggioranza degli arabi, compresi quelli dei territori occupati nel 1948, rappresenti una minaccia esistenziale per Israele. Questa idea (la minaccia esistenziale) si è persino estesa a includere i pilastri dell’intero mondo. È una delle idee più frequentemente ripetute, in base all’analisi dei suoi discorsi, delle sue dichiarazioni e dei suoi scritti.
Le idee centrali nel suo sistema di conoscenze sono le seguenti:
a. Considerare la sicurezza di Israele minacciata da tutte le parti.
b. Il “terrorismo” palestinese.
c. L’antisemitismo.
d. La minaccia iraniana e Hezbollah.
e. L’ostilità delle Nazioni Unite verso Israele.
f. Il ricordo dell’Olocausto nazista.
g. L’incapacità dell’Europa di comprendere la “minaccia” a Israele.
Studi psicologici speciali ritengono che tutte queste idee, le più frequenti nei discorsi di Benjamin, siano il risultato di ciò che suo padre instillò nella sua mente, ossia che “tutto il mondo ci odia”. Di conseguenza, qualsiasi critica a Israele fa parte di questa convinzione che “il mondo ci odia”.”
Un altro passaggio interessante:
“Seguire la vita coniugale di Benjamin Netanyahu rivela una personalità che non prova alcuna vergogna nell’inganno (come diventerà chiaro più avanti). I suoi rapporti con le mogli furono dominati dall’infedeltà, dalla menzogna e dal frodare la moglie e la società quando veniva smascherato. Ciò è stato confermato nei casi di corruzione per i quali è sotto processo, tra cui “corruzione, falsificazione e abuso di fiducia”.
Secondo alcune fonti antiche, Platone e la filosofia greca credono che gli dèi possano inviare sogni come segni o oracoli. In questo film la creatrice dei ricordi non impianta, cioè non invia dall’esterno semplici dati, ma sogni interiori che diventano la matrice dell’identità replicante. In sostanza, la creatrice di sogni è una figura quasi “platonica”: un’artigiana che plasma l’anima con immagini. Non c’è nel film l’idea del sogno e della nascita come trasformazione interna senza anima o intervento dal di fuori cioè divino: non abbiamo ricordi ma solo memorie non definite dei primi momenti di vita. Ana la dream maker di Blade runner 2049 vive in una bolla narcisistica che annulla il mondo: è veramente nata? O è anch’essa un replicante, « un lavoro in pelle » più evoluto, creato cioè assemblato in modo diverso dai vecchi modelli? Il narcisismo primario freudiano è un’idea falsa, è l’annullamento della nascita.
Il narcisismo è un «dream maker patologico” • Nel narcisismo, l’Io non tollera il vuoto, la ferita, la dipendenza. • Per difendersi, costruisce ricordi falsi o distorti: auto-narrazioni eroiche, passati idealizzati, storie in cui il soggetto è sempre vincente o vittima perfetta.
Shock Economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri (titolo originale The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism) è un saggio della giornalista canadese Naomi Klein, pubblicato nel 2007. Secondo Klein il neoliberismo non è stato un percorso naturale di progresso economico, ma un progetto politico imposto approfittando di momenti di crisi. Lo “shock” diventa un metodo di governo: ogni disastro è anche un’opportunità di business per pochi.
Per la giornalista canadese Israele incarna la trasformazione del “capitalismo dei disastri” in un sistema strutturale: l’insicurezza e la violenza diventano motore economico, e le tecnologie sviluppate per gestirle diventano beni d’esportazione globale.
La rivolta palestinese, la seconda intifada e la risposta militare israeliana generarono un clima di emergenza continua, con attentati suicidi, repressione, coprifuoco, incursioni militari. Durante questi anni Israele ricostruì la propria economia attorno all’industria della sicurezza e della difesa. Klein sostiene che la seconda intifada accelerò la nascita di un “complesso del capitalismo dei disastri” israeliano, in cui imprese private e Stato profittavano dall’insicurezza permanente. Tecnologie testate in Palestina – droni, sistemi di sorveglianza, muri di separazione, scanner biometrici – divennero prodotti di esportazione, venduti come soluzioni anti-terrorismo ad altri paesi (dagli Stati Uniti post-11 settembre, all’India, fino all’America Latina). Klein usa proprio Israele come esempio di come una società possa trasformare una crisi non in una parentesi, ma in una condizione economica strutturale, fondata sulla gestione e la commercializzazione della paura.
7 ottobre
Si determina una “zona di shock permanente”: la guerra e l’insicurezza non sono vissute solo come minaccia ma anche come opportunità economica per aziende israeliane che vendono tecnologie di sicurezza in tutto il mondo. Israele diventa così un caso paradigmatico di capitalismo dei disastri cronicizzato: il trauma non è un evento isolato (guerra, tsunami, uragano), ma una condizione costante che alimenta un’economia di nicchia redditizia.
Israele, pur essendo formalmente una democrazia parlamentare, durante e dopo la seconda Intifada ha assunto caratteri tipici di un “stato d’emergenza permanente”: restrizioni della libertà di movimento dei palestinesi, coprifuoco, blocchi; uso sistematico di check-point, muri, controlli biometrici; sospensione di fatto di diritti civili per una parte consistente della popolazione sotto occupazione. Klein sottolinea che questo clima di eccezione continua ha trasformato Israele in un laboratorio del capitalismo della sicurezza, dove aziende private e apparato statale traggono profitto dal mantenimento del conflitto e dall’esportazione di tecnologie di sorveglianza. Per l’autrice la democrazia israeliana si è ristretta: la logica neoliberale della sicurezza ha preso il sopravvento, riducendo lo spazio del dibattito politico e rafforzando l’idea che la paura e il controllo militare siano strumenti normali di governo. ( vedi “The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World “ Antony Lowenstein)
Seguendo la logica di Klein, uno shock, un disastro,come quello del 7 ottobre ( strage voluta da Hamas) può essere sfruttato politicamente per:
espandere poteri di emergenza → più controllo interno, censura, limitazioni ai diritti civili. Giustificare azioni militari radicali che in tempi normali avrebbero incontrato maggiore opposizione (es. distruzione massiccia di Gaza, progetto di una deportazione di massa).
Consolidare un’economia della sicurezza: aumento delle commesse militari, esportazione di tecnologie di sorveglianza, crescita di aziende legate alla difesa. Riorganizzare lo spazio politico → rafforzare governi o coalizioni al potere, riducendo lo spazio del dissenso interno.
Il mito del Grande Israele può interagire con questo schema, perché:
la volontà di espansione territoriale e il conflitto permanente che ne deriva creano una condizione di instabilità continua (guerre, occupazione, emergenze), che possono essere viste come “shock” strutturali. In questa condizione, gli apparati di sicurezza, sorveglianza, restrizione della libertà per certe popolazioni (es: i palestinesi) diventano la norma. Non sono “eccezioni” occasionali, ma strumenti integrati nella gestione del potere politico. L’espansione ideologica e materiale (insediamenti, controllo territoriale, barriere, check-point) può dare spazio a politiche che rafforzano il potere centralizzato, riducono la trasparenza e il dissenso, e facilitano il contrasto a ostacoli democratici interni o esterni. Comunque rimane il fatto che pur aprendosi in prospettiva altri scenari di guerra
“La Palestina è l’officina [ privilegiata] di Israele, dove una nazione occupata sulla soglia di casa fornisce milioni di individui sottomessi come un laboratorio per i metodi di dominio più precisi e di maggiore successo.” ( Antony Lowenstein)
Comunicare che cosa? Contenuti religiosi? Non c’è libertà o comunicazione se non si supera l’alienazione religiosa. L’alienazione religiosa è a monte e non a valle di ogni altra alienazione. E non c’è vera comunicazione se c’è la religione, in qualunque forma si presenti. Comprendere gli aspetti formali, i processi comunicativi e’ importante ma altrettanto lo è considerare i contenuti che vengono comunicati. Scrive Chiara Giaccardi
“Da una parte, noi scommettiamo che il cristianesimo e il cattolicesimo in particolare abbiano qualcosa da dire a questo nostro tempo. Non è una chiamata alle armi contro la secolarizzazione, ma è un’apertura di senso” ( La scommessa cattolica 2019) .
Si, ma quale senso? Quello del “sacro”?
“Il sacro è qualcosa di del tutto diverso (das ganz Andere), che non può essere ridotto a categorie razionali o morali, ma è un’esperienza originaria dell’uomo”. (R. Otto, Das Heilige, 1917)
«Il sacro è una categoria a priori della coscienza, che precede ogni costruzione culturale o morale e che si manifesta nelle religioni di tutti i tempi.» ( ibidem)
L’esperienza del sacro può essere letta come alienazione: l’uomo attribuisce a un’entità esterna (Dio, il divino) ciò che in realtà è frutto della propria psiche o della propria condizione sociale. In questa chiave, ciò che Otto chiama numinoso sarebbe il risultato dell’irrazionale umano proiettato e sacralizzato. Le analisi sociologiche anche brillanti rischiano di essere scarsamente significative se presuppongono un’antropologia cattolica che fa del sentimento religioso un apriori originario insuperabile. Forse aveva ragione Feuerbach quando diceva che l’essenza della teologia è l’antropologia. ( L. Feuerbach.Das Wesen des Christentums (L’essenza del cristianesimo), pubblicato per la prima volta a Lipsia nel 1841)
Il vissuto sinestesico viene generalmente considerato come individuale e irripetibile.
La sintestesia è un fenomeno percettivo per cui una stimolazione sensoriale in un canale (ad es. un suono) genera automaticamente e involontariamente un’esperienza in un altro canale (ad es. un colore). Non è una “metafora poetica” (tipo “un suono caldo”), ma un’esperienza reale, stabile e persistente per chi la vive.
Caratteristiche del vissuto sinestesico
Unicità individuale.
Ogni sinesteta ha le proprie corrispondenze (es. la lettera A rossa per uno, blu per un altro). Sono esperienze “private”, non condivisibili se non tramite descrizione. Costanza nel tempo Una persona tende a mantenere lo stesso schema per tutta la vita (se per lei il 7 è verde, rimarrà verde anche dopo decenni). Irripetibilità fenomenologica Anche se due persone descrivono “note musicali colorate”, i loro schemi non coincidono: il vissuto non è replicabile in modo standardizzato.
🔹 Sul piano linguistico e fenomenologico
In termini fenomenologici (Husserl, Merleau-Ponty) si direbbe che il vissuto sinestesico è un dato soggettivo della coscienza, non riducibile a regole oggettive. In linguistica e psicologia cognitiva viene spesso distinto tra metafora sinestetica (uso linguistico comune: “un profumo dolce”) e sinestesia neurologica (condizione reale, percettiva).
Quindi sì: il vissuto sinestesico è individuale, irripetibile e non trasferibile ad altri, se non tramite descrizione approssimativa.
Nella comprensione di un testo scritto relativamente al significato e al senso entra in gioco il vissuto sinestesico. La parola scritta è densa di metafore corporee “Il linguaggio quotidiano è ricco di metafore sinestetiche che attraversano l’intera gamma sensoriale. Prendiamo la frase «il formaggio Cheddar è piccante». Piccante significa, alla lettera, «pungente», ma il formaggio non è aguzzo, bensì morbido. Naturalmente intendiamo dire che è il gusto a essere «pungente», cioè «piccante»: si tratta di una metafora”(Ramachandran, V. S. (2010). The Tell-Tale Brain: A Neuroscientist’s Quest for What Makes Us Human. New York: W. W. Norton) lo stesso testo induce reazioni diverse in lettori diversi a seconda delle competenze sinestesiche che sono individuali.
Il senso attribuito ad una frase cambia da persona a persona, di momento in momento a seconda del contesto: non è in altri termi riducibile ad un algoritmo o ad una logica computazionale.
Ethics and the problem of bias in computational linguistics are structural rather than incidental issues. It is not merely a matter of “cleaning the data,” but of critically rethinking the relationship between language, society, and technology. As Bender (2021) points out, language models do not actually understand language; they statisticalize it, thereby risking the amplification of preexisting distortions. Errors and distortions in the diagnostic field raise ethical issues of particular significance. It is necessary to reflect deeply on the bioethical implications of computational diagnoses.Research must be responsible, taking into account not only technical performance but also social, environmental, and political effects. Large language models are described as “stochastic parrots” because: they do not truly understand language.They repeat and recombine, in a statistical manner, what they have learned from data. They can generate plausible text, yet devoid of genuine semantic understanding. This last point is particularly relevant when dealing with a diagnostic process that requires the understanding not only of meaning but also of the implicit sense conveyed in verbal language—a sense that cannot be reduced to statistical formulas or numbers. Moreover the physician makes a diagnosis in psychiatry with a view to treatment: in posts and on social media, which are analyzed for diagnostic purposes, is a request for care actually being expressed? Diagnosis can become an intrusion into private life, an insolecited stigmatization experienced as a form of violence. “Psychiatric surveillance” through algorithms that read continously behaviors or texts on social media to assign labels without human contact is a practice that must be avoided or subjected to specific procedures and limitations related to the patient’s explicit consent.
Ultimately, the diagnosis and, consequently, the treatment are always formulated by the physician, who bears the legal responsibility for the medical decision. Technical tools—such as laboratory tests, radiographic examinations, CT scans, or MRI—are helpful in assessing the clinical situation, but they can in no way replace human evaluation and interpretation. The same applies to AI, which in psychiatry may be regarded as a cognitive prosthesis, including psychometrics and the analysis of language, but it cannot replace human judgment.
Osgood, C. E., Suci, G. J., & Tannenbaum, P. H. (1957). The measurement of meaning. Urbana: University of Illinois Press.
Ugazio, C. (2012). Storie permesse, storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologie (2ª ed. ampliata). Milano: Bollati Boringhieri.
Bender, E. M., Gebru, T., McMillan-Major, A., & Shmitchell, S. (2021). On the dangers of stochastic parrots: Can language models be too big? In Proceedings of the 2021 ACM Conference on Fairness, Accountability, and Transparency.
La pragmatica si basa su conoscenze condivise, mondo comune e intenzioni, che sono molto difficili da rappresentare in un sistema computazionale. Per questo, modelli come i grandi LLM (Large Language Models) cercano di simulare la pragmatica statistica, ma non sempre “capiscono” davvero: spesso ricorrono a pattern appresi dai dati.
Andy Clark & David Chalmers Analysis 58.1, gennaio 1998, pp. 7–19
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1. Introduzione
Dove finisce la mente e dove comincia il resto del mondo? A questa domanda si danno solitamente due risposte standard. Alcuni accettano i confini della pelle e del cranio, sostenendo che ciò che è al di fuori del corpo è anche al di fuori della mente. Altri, colpiti da argomenti che suggeriscono che il significato delle nostre parole “non è solo nella testa”, ritengono che questo esternalismo sul significato si estenda anche a un esternalismo sulla mente.
Noi proponiamo di perseguire una terza posizione. Difendiamo una forma molto diversa di esternalismo: un esternalismo attivo, basato sul ruolo attivo che l’ambiente svolge nel guidare i processi cognitivi.
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2. Cognizione estesa
Consideriamo tre casi di problem-solving umano: 1. Una persona siede davanti a uno schermo che mostra immagini di varie figure geometriche bidimensionali e deve rispondere a domande sulla possibilità che tali figure si adattino a delle “incastri” rappresentati. Per valutare l’adattamento, deve ruotare mentalmente le figure per allinearle agli incastri. 2. Una persona si trova davanti a uno schermo simile, ma questa volta può scegliere se ruotare mentalmente le figure oppure premere un tasto che fa ruotare fisicamente l’immagine sullo schermo. Supponiamo, non in modo irrealistico, che l’operazione di rotazione fisica sia più rapida. 3. In un ipotetico futuro cyberpunk, una persona siede davanti a uno schermo simile. Questo soggetto, però, possiede un impianto neurale che può eseguire l’operazione di rotazione alla stessa velocità del computer. Deve comunque scegliere quale risorsa usare (l’impianto o la rotazione mentale tradizionale), poiché ciascuna comporta diversi costi in termini di attenzione e attività cerebrale concorrente.
Quanta cognizione è presente in questi casi? Noi suggeriamo che i tre casi siano simili. Il caso (3), con l’impianto neurale, appare chiaramente analogo al caso (1). Ma anche il caso (2), con il pulsante di rotazione, mostra la stessa struttura computazionale del caso (3), distribuita tra agente e computer anziché interamente interna all’agente. Se la rotazione del caso (3) è cognitiva, con quale diritto considerare il caso (2) fondamentalmente diverso? Non possiamo semplicemente indicare il confine pelle/cranio come giustificazione, poiché proprio la legittimità di quel confine è ciò che è in discussione.
Il tipo di caso appena descritto non è affatto così esotico come può sembrare. Non si tratta solo della presenza di risorse informatiche avanzate, ma della tendenza generale degli esseri umani a fare grande affidamento su supporti ambientali. Consideriamo ad esempio: • l’uso di carta e penna per eseguire moltiplicazioni lunghe, • il riordinamento delle tessere di lettere nello Scarabeo per facilitare il richiamo di parole, • l’uso di strumenti come il regolo calcolatore nautico, • e, più in generale, l’intero apparato di linguaggio, libri, diagrammi e cultura.
In tutti questi casi, il cervello individuale compie alcune operazioni, mentre altre vengono delegate a manipolazioni di media esterni. Se i nostri cervelli fossero diversi, la distribuzione dei compiti sarebbe stata differente.
In effetti, persino i casi di rotazione mentale descritti sopra sono reali: si presentano ai giocatori del videogioco Tetris. In Tetris, le figure che cadono devono essere rapidamente dirette verso la giusta fessura. Si può usare un pulsante di rotazione. Kirsh e Maglio (1994) hanno calcolato che la rotazione fisica di una figura di 90° richiede circa 100 millisecondi, più altri 200 per selezionare il pulsante; ottenere lo stesso risultato con la rotazione mentale richiede circa 1000 millisecondi.
Essi mostrano che la rotazione fisica non serve solo a posizionare la figura, ma spesso anche a determinare la compatibilità tra forma e incastro. Questo è ciò che chiamano azione epistemica: un’azione che modifica il mondo in modo da facilitare o ampliare processi cognitivi come il riconoscimento o la ricerca. Al contrario, un’azione puramente pragmatica modifica il mondo solo perché è desiderato un cambiamento fisico (es. versare cemento in una crepa di una diga).
L’azione epistemica, sosteniamo, richiede una distribuzione del credito epistemico. Se, di fronte a un compito, una parte del mondo funziona come un processo che, se fosse stato svolto nella testa, non avremmo esitato a riconoscere come parte del processo cognitivo, allora quella parte del mondo è parte del processo cognitivo. La cognizione non è tutta nella testa.
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3. Esternalismo attivo
In questi casi, l’organismo umano è collegato con un’entità esterna in una interazione bidirezionale, creando un sistema accoppiato che può essere visto come un sistema cognitivo a pieno titolo. Tutti i componenti del sistema svolgono un ruolo causale attivo e insieme governano il comportamento nello stesso modo in cui normalmente lo fa la cognizione.
Se rimuoviamo il componente esterno, la competenza comportamentale del sistema diminuisce, esattamente come accadrebbe se rimuovessimo una parte del cervello. La nostra tesi è che questo tipo di processo accoppiato conti a tutti gli effetti come un processo cognitivo, anche se non si svolge interamente “nella testa”.
Questo esternalismo differisce dall’esternalismo standard di Putnam (1975) e Burge (1979). Nei loro casi classici (es. “Terra Gemella”), le caratteristiche esterne rilevanti sono distali e storiche, alla fine di una lunga catena causale. Non hanno alcun ruolo nel qui-e-ora: se io mi teletrasporto su Terra Gemella, i miei pensieri continuano a riguardare l’acqua terrestre, nonostante mi circondi XYZ.
Nei casi che noi descriviamo, invece, le caratteristiche esterne sono attive, giocano un ruolo diretto e cruciale nel presente, incidono sul comportamento. Sono “nel circuito” del sistema cognitivo, non sospese all’altro capo di una catena causale remota. Questo è ciò che chiamiamo esternalismo attivo, contrapposto all’esternalismo passivo di Putnam e Burge.
L’esternalismo attivo, a differenza di quello passivo, non soffre dell’obiezione dell’irrilevanza causale: se cambiamo le caratteristiche esterne mantenendo costante la struttura interna, il comportamento può cambiare radicalmente.
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4. Dalla cognizione alla mente
Finora abbiamo parlato soprattutto di “processi cognitivi” estesi nell’ambiente. Ma che dire della mente vera e propria — credenze, desideri, emozioni?
Consideriamo due casi: • Inga sente parlare di una mostra al MoMA. Ricorda che il museo è sulla 53ª strada e ci va. Possiamo dire che credeva già prima di consultare la memoria che il museo fosse lì. • Otto, affetto da Alzheimer, porta sempre con sé un taccuino dove annota le informazioni. Vuole andare al MoMA, consulta il taccuino e legge “53ª strada”. Va al museo.
È naturale dire che Otto credeva che il museo fosse sulla 53ª strada già prima di consultare il taccuino. Per lui, il taccuino svolge lo stesso ruolo che la memoria svolge per Inga.
Se negassimo ciò, dovremmo complicare enormemente le spiegazioni delle sue azioni: non più “Otto crede che il museo sia in 53ª strada”, ma “Otto crede che il museo sia dov’è scritto nel taccuino, e il taccuino dice…”. Una spiegazione inutile, visto che il taccuino è costante nella vita di Otto, proprio come la memoria lo è nella vita di Inga.
Ne segue che la credenza non è sacra ai confini della pelle e del cranio: ciò che conta è il ruolo funzionale. Se l’informazione esterna gioca lo stesso ruolo causale e normativo della memoria interna, essa costituisce una credenza.
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5. Oltre i limiti
Quanto lontano possiamo spingerci? Possiamo considerare parte della memoria anche le etichette appese dagli abitanti smemorati di Cent’anni di solitudine? E i file del mio computer? E Internet?
Gli autori rispondono: dipende dal grado di costanza, accessibilità, affidabilità e integrazione. Otto e il suo taccuino soddisfano bene questi criteri. Altri casi sono più dubbi.
E la cognizione socialmente estesa? Sì, in linea di principio: un partner di coppia, un collaboratore fidato, un cameriere che conosce sempre le mie preferenze possono fungere da protesi cognitive. Il linguaggio è il mezzo principale di questa estensione sociale: non uno specchio degli stati interni, ma un complemento che amplia la cognizione.
Infine, il sé: se accettiamo che le credenze disposizionali costituiscano parte della nostra identità, allora anche i supporti esterni che le veicolano entrano a far parte del sé. Otto non è solo un organismo biologico, ma un sistema esteso che comprende anche il suo taccuino.
Questa riconfigurazione ha conseguenze filosofiche, scientifiche e morali: in certi casi, interferire con l’ambiente di una persona può avere la stessa gravità che interferire con la sua persona. Una volta superata l’egemonia dei confini pelle/cranio, possiamo vederci più chiaramente come creature del mondo.
Nakba designa l’insieme delle conseguenze traumatiche (esilio, perdita della casa, dissoluzione di comunità) subite dalla popolazione palestinese a seguito del Piano di Partizione ONU del 1947 (Risoluzione 181) e della guerra arabo-israeliana del 1948.
La Nakba (in arabo: النكبة, al-Nakba, che significa “la catastrofe”) è il termine con cui il popolo palestinese si riferisce agli eventi del 1947–1949, e in particolare al 1948, che portarono: alla creazione dello Stato di Israele, all’espulsione o fuga forzata di oltre 750.000 palestinesi dalle loro terre, alla distruzione di circa 500 villaggi palestinesi, e all’inizio di un esilio ancora oggi irrisolto per milioni di rifugiati e loro discendenti.
La guerra del 1948 ha segnato la nascita di Israele e la disintegrazione della società palestinese. Ha creato la frattura storico-identitaria della Nakba, che resta alla base del conflitto attuale. Le sue conseguenze politiche, psicologiche e territoriali non sono mai state risolte.
Gli eventi che hanno portato alla Nabka sono considerati dalla maggioranza dei palestinesi come pulizia etnica deliberata da parte delle milizie sioniste (Haganah, Irgun, Lehi), secondo numerosi storici, tra cui Ilan Pappé, che parla apertamente di un “Piano D” (Plan Dalet) per lo spopolamento arabo della Palestina.
Significato culturale e identitario
Per i palestinesi, la Nakba non è solo un evento storico: è un trauma collettivo, una frattura nella continuità dell’identità nazionale. È anche una categoria simbolica e politica che unisce la memoria del passato alla condizione presente di: esilio, occupazione, assedio (es. Gaza), negazione del diritto al ritorno e negazione dello Stato.
Il fenomeno della Nakba denial (cioè la negazione collettiva degli eventi del 1948) è parte integrante delle narrazioni stataliste del sionismo: molti storici notano come essa sia stata istituzionalizzata fin dai primi decenni del nuovo Stato israeliano, in particolare attraverso la storiografia ufficiale che omette l’espulsione di centinaia di villaggi palestinesi, rifugiati e le loro memorie sistematicamente cancellate o minimizzate.
Secondo Saleh Abd al‑Jawad e altri, il negazionismo viene facilitato dalla costruzione narrativa secondo cui la Palestina era una terra deserta o “ senza popolo per un popolo senza terra” — mito fondante del colonialismo sionista .
La Nakba è trasmessa da una generazione all’altra: tramite racconti orali, attraverso la letteratura e la poesia ), e oggi anche tramite cinema, fotografia e archivi digitali (es. Palestinian Oral History Archive, Zochrot). Scrive il poeta Mahmoud Darwish:
Carta di identità (1964)
“(…)
Scrivi!
Sono un arabo
Hai rubato le tende delle mie antenate
E la terra che coltivavo
Con i miei figli
Non ci hai lasciato nulla
Tranne queste rocce
Vuoi che continui a vivere
Come un parassita?
Ti porterò la mia rabbia
E la fame
Attento…
Attento alla mia fame
E alla mia collera!
Psicologi e psicoanalisti (es. Goldberg, Avissar, Lentin) descrivono la Nakba come un “trauma non concluso”, che si riattiva costantemente, soprattutto durante crisi come quelle di Gaza.
Nel 2011, il parlamento israeliano ha approvato la “Nakba Law”, che consente di tagliare i fondi pubblici a enti che commemorano ufficialmente la Nakba, in quanto considerata “attacco alla legittimità dello Stato” — fatto che rende il trauma doppio: storico e attuale.
Questo approccio rappresenta la posizione dominante dei governi di destra, dei sionisti religiosi e nazionalisti, e di ampi settori dell’opinione pubblica.
Una parte crescente, ma ancora minoritaria, della popolazione israeliana — composta da intellettuali, attivisti, artisti, ebrei mizrahi e alcuni gruppi giovanili — riconosce apertamente la Nakba come atto fondativo della sofferenza palestinese.
La Nakba, per la maggior parte degli israeliani e delle istituzioni pubbliche, non è ancora pienamente riconosciuta come evento storico centrale. Le ragioni sono molteplici:
Implicherebbe ammettere una colpa storica e una violenza fondativa. Metterebbe in discussione la narrazione eroica e difensiva del 1948. Aprirebbe la porta a rivendicazioni simboliche, politiche e giuridiche (come il diritto al ritorno).
Ecco la traduzione in italiano del testo visibile nell’immagine:
In questo libro rivoluzionario, importanti intellettuali arabi ed ebrei esaminano come e perché la Shoah e la Nakba siano interconnesse, senza però confondere le differenze fondamentali che le separano. Sebbene queste due tragedie fondative vengano spesso trattate separatamente e astratte dai contesti storici globali costitutivi del nazionalismo e del colonialismo, The Holocaust and the Nakba esplora le intersezioni storiche, politiche e culturali tra esse. La maggior parte degli autori sostiene che tali intersezioni siano radicate in immaginari culturali, relazioni di potere coloniali e asimmetriche, realtà e strutture. Concentrarsi su di esse apre la strada a una nuova grammatica politica, storica e morale che permetta una coabitazione arabo-ebraica e favorisca una riconciliazione storica in Israele/Palestina.
Questo libro non intende tracciare un parallelo né stabilire un confronto tra la Shoah e la Nakba, né semplicemente inaugurare un “dialogo” tra le due. Piuttosto, cerca una nuova grammatica storica e politica per mettere in relazione e narrare le loro complesse intersezioni. Il libro presenta autorevoli contributi internazionali, inclusa una prefazione del romanziere libanese Elias Khoury sulla centralità della Shoah e della Nakba nella lotta essenziale dell’umanità contro il razzismo, e una postfazione della studiosa letteraria Jacqueline Rose sulle sfide e i contributi del legame tra Shoah e Nakba nel promuovere un mondo di giustizia ed eguaglianza da costruire tra i due popoli. The Holocaust and the Nakba è il primo studio collettivo esteso e approfondito in lingua inglese che tratta insieme questi due traumi fondativi.
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