Sono caduto in un sonno senza sogni : non era morte ma la sparizione del mondo ai primordi della vita, un tempo di pochi istanti vissuto come infinito. Al risveglio un volto di donna mi sorrideva in alto quasi sporgendosi da una finestra : era la fantasia più bella come la memoria dell’inizio della vita. Nel mio corpo sofferente il sangue, dopo avermi abbandonato scorreva ancora, un fiume straripato ritornato nel letto di sempre. Non ero più lo stesso trasformato dall’intensità di un travaglio che non mi aveva ucciso. Così ogni giorno ora è diverso e il pensiero corre leggero, un cavallo non domato con le ali di Pegaso. La speranza anch’essa vola senza apparente motivo, un bimbo che si apre alla vita ignaro della disperazione e dell’odio che uccide con la violenza delle armi e la stupidità dei potenti.
Latte e fragoleLa speranzaIl settimo sigillo: sfida alla morte
Foucault è un fabbricatore di concetti vuoti, come episteme, biopotere, regime di verità; non è un pensatore veramente critico ma un opportunista ideologico, che ha seguito le mode accademiche e politiche; la sua fortuna è dovuta alla “foucalatria”, cioè al culto accademico, non al valore reale delle sue analisi; il suo pensiero è pseudoradicale, cioè conforme al sistema che finge di criticare.
Il filosofo francese non è stato quel “maestro radicale” reclamizzato dalla critica ma piuttosto un abile raffinatore della retorica accademica e un seguace inconsapevole delle correnti intellettuali dominanti.
Tutti i critici di Foucault [Alan Sokal & Jean Bricmont – Imposture intellettuali (1997)-Annie Le Brun – Du trop de réalité (2000), Ce qui n’a pas de prix (2018)] denunciano una forma di vuoto retorico, dove il linguaggio filosofico è usato come ornamento o strumento di dominio accademico. Tutti vedono in Foucault un simulacro di radicalità, o un pensatore meno sovversivo di quanto venga presentato.
“Ce n’est pas l’analyse du pouvoir qui l’intéresse, mais la position de pouvoir que donne cette analyse à celui qui la pratique.” ( Mandosio)
[Non è l’analisi del potere che lo interessa, ma la posizione di potere che questa analisi conferisce a chi la esercita.]
“Storia della follia” dipinge la follia come prodotto di pratiche sociali, linguistiche e istituzionali storicamente situate. L’esperienza della follia non sarebbe qualcosa di omogeneo e atemporale, ma varierebbe radicalmente da un’epoca all’altra: il folle del Rinascimento vive una condizione ben diversa (culturalmente e simbolicamente) da quella del malato mentale dell’Ottocento. Ogni epoca ridefinirebbe la follia nei propri termini, in funzione dei propri valori, paure e saperi.
Jürgen Habermas, esponente della Teoria Critica e difensore della razionalità comunicativa, ha accusato Foucault di un relativismo storicista che conduce a un impasse normativo. Secondo Habermas, Foucault riduce ogni discorso di verità ai suoi condizionamenti storico-sociali, negando in tal modo l’esistenza di criteri razionali universali. Ciò porterebbe a una “contraddizione performativa”: se anche il discorso di Foucault è figlio di un’epoca e di rapporti di potere, come può pretendere validità critica generale?
Jürgen Habermas
Siamo di fronte ad una semplificazione storica: Foucault costruisce grandi cesure (la “grande reclusione” del XVII secolo, il passaggio alla ragione clinica nel XIX) che non tengono conto della varietà delle esperienze locali e delle transizioni graduali. Siamo di fronte a l’idealizzazione del Medioevo e alla demonizzazione dell’Illuminismo: l’autore francese accusa quest’ultimo di aver inaugurato la repressione razionale della follia, ma trascura gli elementi emancipatori dell’Illuminismo stesso. Egli nega l’evoluzione terapeutica: minimizza i tentativi di cura, anche nei primi asili, e presenta la nascita della psichiatria come puro strumento di controllo.Questo comporta una posizione che molti definiscono relativismo epistemologico: non esiste una verità “al di là” della storia o della cultura. Ogni sapere è storicamente situato, e ogni scienza – inclusa la psichiatria – è parte di un gioco di potere.
Se ogni verità è relativa a un regime di potere, non esistono più criteri universali per giudicare se una pratica (ad esempio l’internamento psichiatrico o la tortura) sia “giusta” o “sbagliata”.
Bisogna comunque partire dalla considerazione delle cause (non solo dei discorsi) e ad ammettere che, sebbene il significato della follia vari storicamente, ciò non implica che la follia sia un semplice fantasma linguistico o un mero prodotto storico sempre differente.
Foucault riduce ogni discorso di verità ai suoi condizionamenti storico-sociali, negando in tal modo l’esistenza di criteri universali.
Habermas inserisce Foucault tra i “giovani conservatori” (insieme a Nietzsche e Derrida): pensatori che, a suo avviso, con la loro critica radicale alla ragione illuminista finiscono per abdicare alla ricerca di verità e giustizia universali, lasciando solo giochi di potere contingenti. In breve, Habermas rimprovera a Foucault di non fornire alcun fondamento normativo dal quale giudicare i regimi di potere-sapere: il trattamento dei folli nell’età classica viene descritto, ma Foucault non può dire che fosse “ingiusto” senza appellarsi a qualche criterio esterno (criterio che però la sua teoria rifiuta).
Questa aporia – riassunta dall’osservazione che “se tutto è potere, anche la genealogia foucaultiana è solo un effetto di potere” – rimane un punto centrale nel dibattito Foucault/Habermas.
Jacques Derrida
Jacques Derrida solleva un problema simile a quello di Habermas: come può Foucault giustificare la sua operazione di critica storica senza contraddirsi? Se afferma che “tutto è testo/discorso”, come può il suo libro pretendere di afferrare un’entità, una categoria che si colloca fuori dal discorso e dalla dimensione simbolica (la follia muta)?
Foucault ritiene che la modernità abbia subordinato il corpo e il sesso a logiche di controllo: salute pubblica, riproduzione, igiene, profilassi.
Le pratiche sessuali “a rischio” sono patologizzate, perché sfuggono alla razionalità sanitaria e produttiva.
Ma per Foucault, accettare il rischio è un atto di libertà, un gesto che rifiuta di sottomettere il piacere alla funzione sociale del sesso. Pratiche come il fisting o il sesso anonimo sarebbero forme di resistenza al disciplinamento del corpo, perché non rispondono a logiche utilitarie, né riproduttive, né igieniche.È in questo senso che Foucault parla della scena sadomaso come di un “laboratorio” dove si esplorano rapporti di potere, piacere, esposizione, senza cadere nella logica dell’identificazione (non si è “passivo” o “attivo” per natura): il rischio non è qualcosa da eliminare, ma una soglia dove si costruisce la soggettività radicale.
L’ esaltazione della sessualità estrema ignorava le sue conseguenze materiali, come la diffusione dell’HIV, la malattia che colpì il filosofo francese nel 1984 e ne provocò la morte.
Foucault non parlò mai pubblicamente dell’AIDS: non lo fece né come malato, né come teorico o attivista.
Bisogna considerare che per il filosofo la scrittura non rivela un soggetto, lo cancella: si tratta di una pratica senza origine, senza centro, in cui l’autore si dissolve nel gesto stesso dello scrivere. Il libro sarebbe uno spazio in cui si annuncia la morte imminente di chi scrive. La scrittura sarebbe un atto simile alla follia, alla prigione, alla sessualità, alla malattia: la sepoltura del soggetto. Allo stesso modo la sessualità estrema che erotizza il rischio nel tentativo di creare una nuova esperienza del corpo e del piacere lo annulla e lo espone al disfacimento della malattia.
Siamo di fronte all’attraversamento del limite tra vita e sparizione, ad una forma di esperienza della fine, ad un gesto etico: non per dire “io sono”, ma per dire io scompaio, e posso lasciare solo una traccia di ciò che mi ha fatto e disfatto.
La scrittura come le pratiche sessuali non convenzionali diventano atti osceni [ob-sceni= “fuori scena”, cioè non rappresentabili secondo la morale comune ] e sacrificali, tentativi abortiti di trasformazione di se stessi che sfociano in un suicidio annunciato e programmato.
Frank J. Sulloway, storico della scienza, nel suo influente libro Freud, biologo della mente. Oltre la leggenda psicoanalitica (titolo originale: Freud, Biologist of the Mind: Beyond the Psychoanalytic Legend, 1979) propone una rilettura della figura di Sigmund Freud. Contrapponendosi alla narrazione agiografica che dipinge Freud come un pensatore isolato e radicalmente innovativo, Sulloway sostiene che le teorie psicoanalitiche freudiane siano in realtà profondamente radicate nella biologia ottocentesca.
Tra le tesi più originali di Sulloway vi è l’argomento che molte nozioni fondamentali della teoria psicoanalitica – in particolare la teoria dello sviluppo psicosessuale – derivino direttamente dalle concezioni evoluzionistiche ottocentesche . In primo luogo, Freud fece proprio il principio della “legge biogenetica fondamentale” enunciata dal biologo tedesco Ernst Haeckel. Tale legge, riassunta nello slogan “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, postulava che lo sviluppo embrionale e infantile di un individuo ripercorra le tappe evolutive della specie di appartenenza . Freud applicò questa idea al campo psicologico: “Freud era convinto che il bambino riassumesse l’intera stirpe… doveva ricapitolare la storia sessuale della stirpe” . Ne conseguiva logicamente che le fasi dello sviluppo psicosessuale infantile non fossero arbitrarie, ma rispecchiassero stadi della preistoria umana. Perché – si chiede Sulloway – Freud individuò proprio una fase orale, una anale e una genitale, e non ad esempio una fase olfattiva o visiva, nello sviluppo del bambino? La risposta risiede nelle teorie biologiche dell’epoca: “i biologi del tardo Ottocento, come Ernst Haeckel e altri, avevano collegato l’evoluzione della sessualità a quegli organi” . Haeckel, ad esempio, descriveva l’evoluzione della funzione sessuale attraverso tre stadi morfologici: una fase orale primitiva (in cui l’atto di nutrirsi era associato alla riproduzione, come in organismi semplicissimi che “mangiano” il partner), una fase anale successiva (col differenziarsi di un apparato gastrointestinale, la riproduzione sarebbe stata associata all’estremità opposta, cloacale) e infine una fase genitale con la comparsa degli organi sessuali distinti . Freud mutuò direttamente questa sequenza: a suo avviso ogni bambino “deve” passare attraverso una fase orale, poi anale, quindi genitale, ricapitolando così le tappe della sessualità adulta dei suoi antenati .
Ernest Haeckel
La logica di questa teoria dello sviluppo psicosessuale è interamente basata sulla teoria lamarckiana dell’eredità dei caratteri acquisiti dagli antenati adulti. In altri termini, l’individuo eredita nel proprio patrimonio psichico le esperienze adulte dei suoi antenati (tramite una sorta di memoria biologica), il che gli permette di condensare milioni di anni di evoluzione nelle rapide fasi della crescita infantile. Egli arrivò a sostenere che perfino traumi o conflitti mai vissuti personalmente da un individuo potessero comunque riemergere nella sua psiche perché appartenenti al patrimonio mnestico della specie. Un caso emblematico citato da Sulloway è il complesso di castrazione nel celebre caso clinico dell’“Uomo dei lupi”: Freud affermò che il paziente non aveva bisogno di subire realmente la minaccia di castrazione da parte del padre per sviluppare quell’angoscia, poiché “possedeva tutti i ricordi filogenetici di quel complesso”.
Sarebbe bastato un lieve accenno alla possibilità di castrazione durante la sua infanzia per “far riaffiorare quel ricordo e far emergere l’ansia nevrotica”.
Per decenni gli psicoanalisti hanno rivendicato l’universalità della teoria freudiana dello sviluppo senza accorgersi che tale pretesa di universalità poggiava su una “logica” biologica ottocentesca che la biologia del XX secolo ha del tutto confutato .
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L’uomo dei lupi
Sulloway mette in evidenza come le scoperte della genetica e le critiche di biologi come August Weismann avessero già, ai primi del Novecento, minato alle fondamenta la teoria lamarckiana e con essa la legge di ricapitolazione di Haeckel . Weismann, con i suoi esperimenti (celebre il taglio delle code ai topi per osservare se la mutilazione fosse ereditata), e la riscoperta delle leggi di Mendel (1900) dimostrarono che i caratteri acquisiti non vengono trasmessi alla prole. Di conseguenza, l’idea che l’ontogenesi ripeta rigidamente la filogenesi divenne insostenibile scientificamente e venne abbandonata nei primi anni del ’900 .
Le tesi di Sulloway, nel loro insieme, mirano a smontare quella che egli chiama la “leggenda psicoanalitica” – l’immagine di Freud come un genio solitario che, in rottura con la scienza ufficiale, avrebbe scoperto verità del tutto nuove sulla mente. Al contrario, Freud, biologo della mente ricolloca Freud nel suo contesto storico-intellettuale, mostrando come egli “non abbia mai operato in totale isolamento” . Freud fu costantemente in dialogo con la comunità scientifica coeva e attinse idee da vari “intimi intellettuali” e colleghi.
Secondo Sulloway, i biografi ufficiali della psicoanalisi (come Ernest Jones) avrebbero deliberatamente edulcorato o omesso le fonti intellettuali di Freud, contribuendo a edificare la narrazione di un Freud geniale e totalmente originale.
“Freud fu meno un innovatore che un riscopritore e riformulatore di idee già presenti nella letteratura scientifica e medica del suo tempo”.
L’ostracismo incontrato da Freud nei primi anni non fu così assoluto come lui e i suoi seguaci hanno lasciato intendere: la tradizione vuole che Freud fosse inizialmente deriso e ignorato dall’establishment medico, ma l’analisi storica mostra che le sue idee trovarono anche consensi e che l’entità del rigetto fu esagerata dal mito postumo .
L’originalità di Freud risiede più nella retorica, nell’istituzionalizzazione del sapere e nella creazione di una “scuola”, che in un reale salto teorico.
Il”padre della psicoanalisi” fu particolarmente abile nel promuovere un’immagine di sé stesso come vittima dell’incapacità dei suoi contemporanei a confrontarsi con le sue scoperte, a trasformare la sua biografia nel mito del percorso del genio fondatore, incompreso e spesso osteggiato. In realtà egli ebbe il consenso, quasi fin dall’inizio, di un gran numero di proseliti, fra i quali molte donne e la sua teoria fu adottata dall’establishment accademico psichiatrico americano dopo il suo viaggio negli USA nel 1909 con Jung e Ferenczi.
Quindi bisogna distinguere bene fra un contenuto scientifico veramente innovativo e rivoluzionario da travestimenti ideologici propagandati con efficacia e capaci di una larga diffusione grazie anche alle condizioni storico culturali di un determinato periodo.
Freud si presentava come scienziato empirico, ma la psicoanalisi mancava di verificabilità e falsificabilità. Le sue teorie erano fondate spesso su autoanalisi, resoconti clinici selezionati e aneddotica. La coerenza interna del sistema era ottenuta a costo di immunizzarlo dalla critica esterna, in modo simile a un dogma.
Freud con Ferenczi
“La leggenda di Freud come rivoluzionario solitario, osteggiato da un ostile mondo scientifico, è un mito accuratamente costruito da Freud stesso e dai suoi seguaci.”
L’indagine storica accurata e la conoscenza precisa delle fonti e della letteratura e’ fondamentale per comprendere il significato ed attribuire un valore ad una concezione scientifica: questo non è il lavoro degli agiografi e degli apologeti e degli adepti che rafforzano le narrazioni mitiche spesso perseguendo interessi di prestigio personali. La creazione del mito ha caratterizzato in seguito un po’ tutte le scuole psicoanalitiche
Come scriveva Fagioli
“Il fallimento nel cammino del superamento del complesso edipico, cioè nel cammino del superamento della castrazione, della scissione e del rapporto sadomasochistico è ovviamente scontato allorché non si vedano, o non si vogliano vedere, le dimensioni fondamentali del rapporto umano con la realtà umana e non umana. La trappola polipesca dell’essere freudiani, kleiniani, junghiani, la passività di abbandonarci all’obbedienza piuttosto che perseguire la ricerca senza padrone, la difficoltà di lasciare la manina del babbo che ci acceca, è forse la causa prima di questo fallimento”.
Nel libro Hystories: Hysterical Epidemics and Modern Media (1997) di Elaine Showalter quest’ultima sostiene che l’isteria non sia scomparsa, ma abbia assunto nuove forme nella cultura contemporanea. Queste “isterie moderne” si diffondono non per contagio fisico, ma narrativo, attraverso i media, la letteratura popolare e la psichiatria. Vengono chiamate hystories: storie collettive che danno significato a traumi individuali, ma spesso si basano su credenze dubbie o pseudoscientifiche.
I media moderni (TV, giornali, Internet) sostituiscono i salotti ottocenteschi come veicolo del contagio isterico. • Le “hystories” diventano vere epidemie culturali, autoalimentate dalla visibilità e dalla legittimazione scientifica apparente. • Neologismo centrale: hystory = narrazione isterica che si diffonde come mito collettivo.
Satanic panic: presunta esistenza diffusa di culti satanici che avrebbero praticato abusi rituali su bambini e adulti
Un contributo fondamentale di Hystories è il parallelo tracciato tra le isterie “classiche” storiche e quelle odierne. Nella prima metà del libro, Showalter ripercorre la vicenda dell’isteria dall’Ottocento al Novecento , rievocando figure come Jean-Martin Charcot, Pierre Janet, Sigmund Freud e gli studi clinici su pazienti isteriche (come la celebre Anna O.). Nel XIX secolo l’isteria – diagnosticata prevalentemente a donne – includeva sintomi come paralisi, convulsioni, tic, anestesie e visioni, senza base organica. Showalter sottolinea come già allora si trattasse di un fenomeno in parte “artificiale”, plasmato dalle aspettative mediche e sociali dell’epoca . Ad esempio, le pazienti di Charcot al Salpêtrière “esibivano” sintomi spettacolari anche per conformarsi a ciò che i medici si aspettavano di vedere, in una sorta di performance inconscia. L’isteria vittoriana, sostiene l’autrice, fu un “ombrello diagnostico” che racchiudeva sia veri disturbi neurologici ignoti, sia simulazioni, sia genuine sofferenze psicogene generate dalla mentalità dell’epoca.
Dopo il periodo d’oro freudiano, l’isteria come diagnosi si sfilacciò e venne dichiarata obsoleta dalla psichiatria ufficiale verso la metà del ’900. Tuttavia – ed è il fulcro del libro – il medesimo insieme di sintomi e dinamiche si sarebbe semplicemente reincarnato in nuove forme, al passo coi cambiamenti culturali. Showalter mostra come “le isterie mutano nome e aspetto, ma sono sempre tra noi”
Le “isteriche” della Salpêtrière — come Blanche Wittman, Augustine, Geneviève — venivano: Fotografate durante le crisi, in pose stereotipate (arco isterico, estasi, catatonia). Ipnotizzate pubblicamente per suscitare convulsioni, paralisi o allucinazioni indotte. Esibite nei celebri “martedì della Salpêtrière”, dove scienziati, artisti e scrittori assistevano a dimostrazioni cliniche simili a spettacoli teatrali
Elaine Showalter collega questi fenomeni alla tradizione storica della psicosi collettiva, simile a ciò che studiavano storici della medicina come Michael von Cranach o Ian Hacking. In particolare:
Contagio narrativo: le storie si diffondono come virus, anche grazie alla televisione e alla psicoterapia. Sviluppo di sintomi “modello”: i soggetti si identificano con sintomi appresi da media o da altri pazienti.
Rapito dagli alieni John Mack (della Harvard University) ipotizzò che certi ricordi di abusi sessuali infantili potessero in realtà celare rapimenti alieni repressi . Memorie recuperate di abusi • Uso terapeutico di ipnosi per far emergere abusi repressi: un’epidemia di pseudomemorie.Miti moderni, capaci di riflettere paure, ansie, desideri e norme sociali del tempo e del luogo in cui circolano. Il concetto di “sostituzione etnica” è una teoria del complotto di stampo razzista e suprematista, secondo cui esisterebbe un piano deliberato per rimpiazzare le popolazioni “native” bianche europee o occidentali con immigrati non europei (soprattutto musulmani o africani), attraverso immigrazione di massa, mescolanza razziale o calo delle nascite autoctone.
Le “hystories” ( forme più strutturate di fake news) sono dunque forme aggiornate di psicosi collettiva, veicolate dalla cultura, dai media e dalla psicologia pop. Il il desiderio di trovare spiegazioni straordinarie alimenta convinzioni deliranti condivise. In esse, il trauma agisce come nucleo simbolico centrale e l’isteria si aggiorna: non più nel corpo di donne affette da “disturbi nervosi”, ma nel corpo sociale, dove la patologia è diffusa, narrata, mediatica e contagiosa.
In psichiatria esiste la “folie à deux” dove un individuo apparentemente sano adotta il delirio di un altro in virtù di un rapporto di dipendenza. Nel Terzo Reich avvenne su vasta scala: il delirio hitleriano fu indotto in milioni di cittadini, grazie a strumenti di propaganda e pressione sociale potenti.
La conformità e l’obbedienza autoritaria ) spiegano in parte l’adesione a un paradigma delirante: esiste il folie à deux, dove un individuo sano adotta il delirio di un altro in virtù di un rapporto di dipendenza. Nel Terzo Reich questo processo avvenne su vasta scala: il delirio hitleriano fu indotto in milioni di cittadini, grazie a leve di propaganda e pressione sociale potenti. La conformità e l’obbedienza autoritaria spiegano in parte l’adesione comportamentale; ma qui si andò oltre la semplice obbedienza esteriore, arrivando a una convinta interiorizzazione delle credenze deliranti. Possiamo dire che l’intero corpo sociale tedesco sviluppò sintomi analoghi a una psicosi collettiva cronica: visione del mondo rigida e distorta, mancanza di empatia per categorie intere di esseri umani, ideazione onnipotente (es. “reich millenario invincibile”), alternata a bruschi viraggi paranoidi (odio/furia distruttiva verso i traditori e nemici).
La folie à deux è un fenomeno clinico raro ma illuminante, che mostra come la realtà psichica possa essere costruita socialmente, soprattutto in condizioni di dipendenza o fragilità. Estesa al piano collettivo, ci aiuta a capire come le ideologie patologiche si diffondono e diventano “verità condivise” in contesti dove il pensiero critico è sospeso, e il bisogno di appartenenza o rassicurazione supera la razionalità.
La follia nei singoli è alquanto rara. È la regola invece nei gruppi, nei partiti, nelle nazioni e nei periodi storici.”
– Friedrich Nietzsche
dall’opera “Al di là del bene e del male” (Jenseits von Gut und Böse), precisamente §156.
Il Trumpismo americano, senza nulla togliere alla specificità politico storica del fenomeno, può essere considerata una psicosi collettiva dove un soggetto con tratti psicopatologici evidenti, non viene percepito come pericoloso: questo soggetto è stato capace di instaurare una nuova “normalità” all’interno della quale egli appare come un eroe, un salvatore un individuo messianico.
“Non è Trump a essere pazzo. Siamo noi” dice Allen Frances
“Ma cosa ci dice tutto questo di noi, che abbiamo eletto una persona così chiaramente inadeguata e impreparata a decidere del futuro dell’umanità? Trump è sintomo di un mondo in difficoltà, non ne è l’unica causa. Rimproverarlo per i nostri problemi significa non vedere la ben più profonda malattia sociale che sta dietro e ha reso possibile la sua improbabile ascesa. Dire che Trump è un pazzo ci permette di non vedere la follia della nostra società – se vogliamo tornare a essere sani di mente, dobbiamo innanzitutto capire noi stessi. Detta in due parole: Trump non è pazzo, ma la nostra società sì.”
Sono solo in parte d’accordo Allen Frances. Il tycoon non solo ha dei tratti di quello che viene chiamato narcisismo maligno ma è dissociato. incoerente e presenta una ideazione delirante con tematiche di grandiosità; il consenso elettorale comunque ha avuto un effetto cosmetico non rendendo immediatamente percepibili le componenti psicotiche della sua personalità. Il presidente si autolegittima facendo riferimento a Dio e attaccando l’Iran.
E poi ha detto: “E voglio ringraziare tutti. E, in particolare, Dio. Voglio solo dire che ti amiamo, Dio, e che amiamo il nostro grande esercito.Proteggili”
La democrazia americana ha il suo punto debole nella razionalità delle sue politiche e in una radice illuministica della sua concezione dell’uomo che comunque rimane ancorata ad una mentalità religiosa. La ragione illuministica perse il riferimento ad un sistema di valori e divenne razionalità strumentale finalizzata al perseguimento di fini utilitaristici, al dominio sulla natura e ad un controllo sociale autoritario. Da qui lo slittamento progressivo verso forme di società totalitarie dove il collante è l’ideologia cioè il pensiero delirante.
In America nella seconda metà del novecento fino ad oggi assistiamo ad un processo analogo a quello svoltosi ne XIX sec di degrado delle politiche di ispirazione illuministica: Trump, con i suoi successi elettorali e’ il sintomo di un fallimento progressivo del sistema democratico basato sulla religiosità e sulla razionalità.
“Attraverso i discorsi inaugurali, si è venuta elaborando nel corso del tempo una sorta di teologia presidenziale della democrazia di Dio, il cui canone fondamentale appare già saldamente stabilito dai primi presidenti degli Stati Uniti, che furono anche i primi pontefici della religione americana.”
Come disse George Bush la fede dell’America nella libertà e nella democrazia è stata come una roccia in un mare tempestoso. Il destino della libertà nel mondo sarebbe dipeso dal successo della missione americana, «perché se l’America non guida la causa della libertà, la causa della libertà rimane senza una guida».
Ma con Trump, a partire però dai suoi predecessori, mi sembra che la roccia si sia sgretolata e con essa la causa della democrazia e della libertà.
“Stevenson’s tale of Jekyll and Hyde, like so many fin-de-siècle narratives, dramatizes the fragmentation of the self and the horror of unchecked desire; the monster Hyde is not only Jekyll’s dark double but also the embodiment of a sexual and social anarchy the Victorian world tried desperately to suppress.”
— Elaine Showalter, Sexual Anarchy, cap. 2
John Singer Sargent – Stevenson e sua moglie -1885
Elaine Showalter interpreta Stevenson in “Sexual Anarchy” (1990)
Showalter legge Jekyll e Hyde come una potente allegoria delle tensioni sessuali, morali e identitarie del “fin de siècle”. L’opposizione tra il rispettabile Dr. Jekyll e l’abietto Mr. Hyde diventa il simbolo della dissociazione dell’Io maschile vittoriano, diviso tra conformismo pubblico e desiderio privato, spesso represso e indicibile. Il desiderio omosessuale represso: Anche se non lo esplicita in termini strettamente queer, Showalter, in linea con altre letture contemporanee, suggerisce che la relazione tra gli uomini del romanzo (in un mondo quasi del tutto privo di donne) rifletta un’ansia rispetto alla sessualità maschile deviata o non normativa. Questo fa di Hyde una figura del “desiderio mostruoso”.
L’assenza e il silenzio delle donne: Showalter sottolinea che l’assenza di personaggi femminili nel romanzo è significativa. La sessualità femminile viene esclusa dal racconto, quasi “rimosso” come lo è Hyde nella psiche di Jekyll. Questa assenza riflette una cultura maschile in crisi, che cerca di contenere il caos del desiderio attraverso la scissione e la negazione.
Degenerazione e teoria medica: Collega l’opera alle teorie della degenerazione psichiatrica di fine Ottocento (Morel, Lombroso), dove Hyde incarna un ritorno all’animalesco, al primitivo, spesso attribuito in quel tempo alle classi inferiori, ai “non civilizzati”, ma anche — in modo simbolico — al femminile visto come incontrollabile.
Il dualismo Jekyll/Hyde rappresenta un caso di dissociazione psichica, parallelo ai “doppi io” descritti in ambito psichiatrico (ad es. Charcot, Janet). Hyde è descritto come deforme, animalesco, degenerato, secondo il lessico della scienza positivista del tempo.
“Hyde’s deformity is moral, but also sexual. His face is unreadable, his body outside classification: he is the perfect embodiment of the fin-de-siècle fear of sexual ambiguity.”
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