I basagliani sono negazionisti:sostengono che la pericolosità del malato di mente non esiste o perlomeno che non ci sia una correlazione certa fra violenza e pazzia. Vittorino Andreoli pensa il contrario perlomeno limitatamente a determinate patologie: ma in base a quale concezione della malattia mentale ed a quali criteri diagnostici? E’ vero che ciascuno di noi, come mi sembra abbia sostenuto lo psichiatra veronese , può trasformarsi in un assassino in circostanze favorevoli ? Andreoli afferma che la libertà di scegliere non esiste seguendo Freud . Ma il padre della psicoanalisi scrisse anche che siamo tutti potenzialmente criminali e che si delinque per un senso di colpa inconscio (l’Edipo) presente in tutti gli esseri umani. Inoltre nell’inconscio di ciascuno per la psicoanalisi come per il cristianesimo, sarebbe attivo l’istinto di morte, inteso come sadismo ed aggressività originaria. Siamo tutti figli di Caino. Esiste pertanto una sostanziale convergenza fra l’antropologia freudiana, cui aderisce Andreoli, e l’antropologia criminale di Cesare Lombroso che prevedeva il “delinquente nato” da confinare nei manicomi giudiziari. Per Lombroso la delinquenza e’un fenomeno regressivo che riattiva una aggressività atavica presente in tutti. Nella folla per es. il normale regredisce e diventa un potenziale assassino, come scrisse Scipio Sighele ne “La folla delinquente” (1891). Il “delinquente nato” sarebbe tale , per gli esponenti della scuola positivistica italiana, per un difetto di sviluppo o per anomalie anatomo funzionali che impediscono alla morale ed alla ragione di porre un freno ad una violenza che affonda le sue radici nella filogenesi, come diceva anche Freud, cioè nel passato remoto dell’umanità. E’ chiaro che la pericolosità del malato di mente non può essere legata a fattori costituzionali e ad alterazioni neuroanatomiche. Essa è un fenomeno reattivo a determinate situazioni di rapporto interumano. Pertanto può essere prevenuta e risolta nella stragrande maggioranza dei casi con opportune strategie terapeutiche e con interventi adeguati. Storicamente i cosiddetti “sani” hanno esercitato forme di violenza efferata nei confronti dei malati mentali. La violenza fisica unita al contenimento ed alla segregazione era ritenuta l’unica possibilità di “terapia” della pazzia: il trattamento morale come risultato di una mentalità razionale e religiosa. E’ altresì vero che i malati non sono stati e non sono tuttora solo vittime: in certe patologie come la schizofrenia paranoide (Anders Breivik era uno schizofrenico e non un terrorista come ha sostenuto Peppe Dell’Acqua ), l’impatto con l’ambiente può innescare condotte che sfociano molto frequentemente nell’omicidio o nella strage. Indipendentemente dalla rilevanza numerica di tali episodi , la valutazione della quale dipende dai criteri diagnostici adottati, le sopraddette patologie non possono essere ignorate. In un mio prossimo articolo dal titolo “Schizofrenia,imputabilità ed infermità mentale che uscirà nel prossimo numero di gennaio de “Il sogno della farfalla” (l’Asino d’oro) propongo una riflessione sul nesso fra malattia mentale ed acting out criminale oltre ad un approfondimento dei criteri diagnostici della schizofrenia. La teoria, l’indagine psicopatologica è importante.<<(…)la pericolosità sociale.scrive Peppe Dell’Acqua ne “Forum di salute mentale “- non merita neanche di essere criticata. È una chimera, un qualcosa che si presume, ma che di fatto manca. E la presenza della malattia mentale o di un suo disturbo surrogato non può affiancare quella persona alla pericolosità pubblica più di quanto non ne potrebbe essere affiancato ognuno di noi>>
- .Esiste i la pericolosità sociale degli psichiatri che negano la malattia mentale, negano che di essa si possano indagare i processi ed i meccanismi. Non si potrebbe andare oltre la fenomenologia. Oltre l’apparenza dei sintomi rimane l’idea di una noxa sconosciuta come sostenevano i grandi psicopatologi del passato.”Non so cosa sia la follia. Tutto forse niente” diceva Basaglia” Si ritiene pertanto che si possano liberare i malati dal manicomio (anche criminale) ma non dalla pazzia che viene confusa con la follia. . Ciò che si crede di sapere è che la malattia mentale sia parte ineliminabile dell’essere umano.
domenico fargnoli
- La pericolosità delle psichiatrie di ritorno: risposta ad Andreoli
29 dicembre 2013
di Silvia D’Autilia e Peppe Dell’Acqua.
“È la politica. È l’Italia”. Con queste affermazioni si chiude l’intervista rilasciata da Vittorino Andreoli a La Stampa del 21 Dicembre scorso, a proposito dei permessi d’uscita dal carcere a detenuti come Bartolomeo Gagliano.
Dopo il bombordamento mediatico immediatamente seguito, questa intervista è arrivata come a suggello dell’allarmismo sociale generato verso “pazzi pericolosi” che vengono fatti uscire dal carcere.
“Quella parola lì, ‘pericolosità’, è stata cancellata dal nostro vocabolario sociale”, dichiara Andreoli a premessa delle sue opinioni. Le cose, insomma, non vanno più come nel glorioso 1904, quando la legge del Regno d’Italia sui manicomi, “ispirata da Cesare Lombroso”, equiparava il malato di mente a colui che è pericoloso per sé e per gli altri e oggetto di pubblico scandalo.
Come a dire, gli anni d’oro sono finiti se nella Legge 180, “la parola pericolosità non è mai nominata”. E ancora: “la legge Basaglia dimentica che in alcune patologie psichiatriche uno dei sintomi principali è proprio la pericolosità”.
Cosa bisogna leggere in queste parole? L’auspicio di un ritorno alle origini, agli insegnamenti di Cesare Lombroso che sapeva guardare le persone, come oggi ancora molti psichiatri continuano a fare, per scovare cosa c’è dentro il cervello, per registrare e catalogare gli indizi del soggetto pericoloso?
Ma non si erano superati quei pregiudiziali e infondati saperi che facevano della semplice osservazione del “matto”, ictu ocoli, lo strumento di condanna a immutabili destini? Forse dobbiamo concludere che no, non si erano superati. Non si sono superati. Ma continuano. Ritornano con apparizioni più o meno durature. Con un oblio più o meno importante della filosofia che la 180 ha promulgato e non perché Basaglia fosse il detrattore numero uno della ‘pericolosità sociale’, ma perché semplicemente la pericolosità sociale non merita neanche di essere criticata. È una chimera, un qualcosa che si presume, ma che di fatto manca. E la presenza della malattia mentale o di un suo disturbo surrogato non può affiancare quella persona alla pericolosità pubblica più di quanto non ne potrebbe essere affiancato ognuno di noi.
Dice Piero Cipriano nel suo libro “La fabbrica della cura mentale”, a sostegno di tempi e pratiche che invece non possono essere dimenticate: rispetto alla malattia mentale “l’unico dato certo è la sua fenomenologia”. Non c’è altro. Si sa che c’è. Punto. Non si conosce né la causa scatenante, né il decorso.
E non basta dire che il problema, il nocciolo duro della questione è il fatto che le carceri italiane sono “ambienti osceni”, che “non rieducano nessuno”. La rieducazione, tanto desiderata e auspicata, come potrebbe mai trovare avvio in un sistema che innanzi tutto non metta tra parentesi la cartella clinica di questi soggetti e non sospenda il giudizio sulla presupposizione della loro pericolosità?
La finalità dell’istituzione carceraria, da Beccaria a noi, è la reintegrazione che la rieducazione dovrebbe produrre in modo consequenziale. Eppure quale miraggio di reintegrazione possiamo figurarci per queste persone, in un Paese che s’indigna se gli addetti ai lavori non riconoscono per tempo la potenziale pericolosità sociale, ma non considerano minimamente che la prima mossa rieducativa è proprio quella di mettere da parte quest’inferenza vuota e illogica per cui malato di mente o autore di reato siano archetipi rigidamente connessi al concetto di pericolosità sociale?
Il vero problema allora è sempre uno: la barriera. Sociale e culturale. Tra chi è sano e chi non lo è. Tra chi è buono e chi è pericoloso. Come se per questi fratelli scomodi la massima forma di presa-in-cura sia una perizia che decida del loro ruolo nel mondo. Del loro destino. Della loro condanna.
Proprio come si sta scongiurando accada anche a proposito degli OPG: non serve cambiare nome a queste strutture o ridimensionarle, come lo stesso Andreoli riferisce di aver proposto al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, se non ci si prefigge come banale atto di giustizia la restituzione di responsabilità e la pienezza del diritto prima di ogni altra cosa.
Ma è la politica. È l’Italia.
- Forum di salute mentale
Trilogia
29 dicembre 2013
di Giorgio Bignami.
Dopo Cancrini e Fagioli mancava all’appello soltanto Vittorino Andreoli. Nell’intervista su La Stampa del 21/12/2013 (vedi l’articolo), di Michele Brambilla, Andreoli lamenta il fatto che i direttori di carcere propongono permessi a go go per sfoltire le celle; i periti non approfondiscono anche perché pagati troppo poco; secondo lui sulla pericolosità il perito dopo approfondita indagine “deve dare il parere positivo solo quando è assolutamente certo” [il che, mi pare, tradotto in italiano significa mai, o quasi]; quindi i magistrati di sorveglianza procedono alla cieca; e per chiudere, la ciliegina sulla torta degli OPG: il Dap non ha voluto ascoltare la mia proposta di istituire OPG regionali da 50 posti.
Non mi meravigliano affatto queste esternazioni di Andreoli, ma è un bel danno che senza alcun commento negativo appaiano su La Stampa nella doppia pagina dedicata all’arresto degli evasi e alla punizione del direttore del carcere di Genova.
Di nuovo auguri malgré tout.
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- La libertà è un’ illusione Ecco come Freud lo scoprì
- BIBLIOTECA DELLA MENTE
La libertà è un’ illusione Ecco come Freud lo scoprì
I meccanismi con cui l’ inconscio guasta i nostri progetti La responsabilità Il codice penale lega la responsabilità alla «capacità di intendere e/o di volere» Ha ancora senso?
Psicopatologia della vita quotidiana di Freud viene pubblicato nel 1901, un anno dopo L’ interpretazione dei sogni con cui si fa nascere la psicoanalisi. Pur avendo avuto aggiunte fino al 1924, è dunque una delle opere di base nella costruzione del pensiero e della tecnica psicoanalitica. Nonostante l’ «età» sono molti i punti utili alla modernità, e ciò che mi pare ancora rivoluzionario è quanto Freud ci dice sulla libertà. Come si pone il legame tra questa aspirazione e l’ inconscio? Rimane, nonostante le diverse modulazioni, la certezza di una parte inconscia dentro l’ Io, una componente della struttura di personalità di cui non abbiamo consapevolezza e che tuttavia agisce e condiziona il nostro comportamento. Se dunque è possibile scegliere un’ azione e fortemente volerla, ciò non impedisce all’ inconscio di entrare nei nostri progetti e desideri fino a renderne impossibile la realizzazione oppure a compierli in un modo diverso da come avremmo voluto: il divario tra essere e voler essere. Pertanto la libertà come possibilità di scelte qualsiasi è illusoria. E sul piano pratico si scontra sempre con limiti e blocchi che noi stessi inconsciamente poniamo alla realizzazione di quelle scelte. Verrebbe da dire che la libertà rimane un’ idealizzazione rispetto a condizioni esistenziali che invece ci tengono dentro un percorso che non è mai scelto, ma almeno in parte imposto. E la libertà rimane un’ illusione. Freud non elabora queste considerazioni sulla base di una teoria, di un sapere dunque astratto, ma le svela attraverso le piccole cose, quei fatti che riempiono la quotidianità: gli atti mancati, gli automatismi comportamentali, i lapsus, le amnesie. Sono certo di aver chiuso la porta, ma la controllo ancora tre volte. L’ inconscio insomma si intromette silenziosamente e misteriosamente per impedire di compiere gesti o azioni che potrebbero riportare ad esperienze traumatiche e dunque dolorose, oppure al contrario inserisce la propria forza e conduce ad azioni che sostituiscono quelle programmate. Forze che si legano ad una memoria inconsapevole che dunque agisce senza giungere alla coscienza. Il tema della libertà non ha ancora tenuto in debito conto questa dimensione del nostro Io e noi fingiamo di pensare ad un uomo libero che capisce e vuole e dunque sceglie razionalmente un comportamento (intelligere) e vi applica la volontà per realizzarlo. Un assunto assurdo alla luce della Psicopatologia della vita quotidiana che è però ancora stampato nel codice penale: si afferma che la responsabilità si lega alla «capacità di intendere e/o di volere». Ed è questo il quesito che il giudice chiede al perito psichiatra per poter decidere e stabilire la pena. Insomma dominano il capire e il volere. E l’ inconscio? Come si fa a parlare di libertà e di responsabilità, ignorandolo? Non è certo mia intenzione togliere la responsabilità nell’ agire, ma soltanto sostenere (come Freud 110 anni fa) che non si può capire e giudicare un’ azione e dunque un uomo senza considerare questa dimensione dell’ Io che alberga in ciascuno di noi. RIPRODUZIONE RISERVATA
Andreoli Vittorino
Pagina 35
(13 maggio 2011) – Corriere della Sera