Psichiatria

La schizofrenia è una malattia genetica? Considerazioni a margine di una lettera alla rivista Nature

La schizofrenia è una malattia genetica? Considerazioni a margine di una lettera alla rivista Nature

Francesco Fargnoli, Simone Belli, Valentina Zanobini, Paola Bisconti, Domenico Fargnoli[1]

Introduzione: schizofrenia in provetta?

Nell’aprile 2011 , su Repubblica.it, in un articolo di Giulia Belardelli dal titolo “I segreti della schizofrenia in provetta”[2], veniva rilanciato con grande enfasi  uno studio pubblicato su “Nature” intitolato Modelling schizophrenia using human induced pluripotent stem cell[3]. In questo lavoroun gruppo di ricercatori statunitensi riproponeva l’antica questione dell’eziologia della schizofrenia. E’ una malattia di origine genetica al pari di molte malattie neurologiche o è una malattia legata all’ambiente? Oppure è salomonicamente entrambe le cose? Gli Autori, appartenenti tra gli altri al laboratorio di genetica del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, California, sostengono che la schizofrenia sia un disturbo neurologico (“neurological disorder”) con una forte componente genetica la cui ereditarietà  sarebbe stimata attorno all’80-85%[4]. “Per molti anni  –  dice Fred H. Gage, co-autore dell’articolo e professore al Salk Institute  –  le malattie mentali sono state considerate come disturbi strettamente sociali o ambientali. Si tendeva a credere che una persona malata potesse guarire semplicemente affrontando i suoi problemi. Da tempo sappiamo che non è così. Ora stiamo mostrando nei neuroni disfunzioni biologiche reali che sono del tutto indipendenti dall’ambiente”[5].  Partendo da questo tipo di premesse, il razionale dello studio è stato quello di indagare i meccanismi neurofisiopatologici della malattia e di chiarirne i difetti cellulari e molecolari di base. Per far questo è stata utilizzata una tecnica di ingegneria genetica che ha consentito di riprogrammare dei fibroblasti provenienti da pazienti ritenuti “schizofrenici” per trasformarli in cellule staminali pluripotenti, da indirizzare poi verso la differenziazione in neuroni “naive”, liberi perciò dalle influenze ambientali che modificano le cellule adulte. I neuroni “disorder-specific” così ottenuti hanno mostrato, secondo gli Autori, una connettività ridotta associata ad un diminuito numero di prolungamenti cellulari e ad un’alterata espressione di recettori per il glutammato e di proteine-segnale rispetto a quelli ricavati dai controlli sani. Inoltre sarebbe stata individuata l’alterata espressione di circa 600 geni di cui il 25% già identificati in precedenza come possibile causa della schizofrenia[6].

Questo studio così come il successivo rilancio di Repubblica mette in luce come esiste una consistente corrente scientifica e culturale che sostiene l’origine genetica e biologica della schizofrenia. L’accettazione di questa impostazione ha notevoli conseguenze; sul piano clinico induce a una sorta di nichilismo terapeutico in quanto se sintomi e comportamento sono geneticamente determinati sono immodificabili e intrattabili. Si può arrivare a un “mantenimento” attraverso una terapia farmacologica ma risulta evidente come qualunque intento riabilitativo o di psicoterapia alla luce di questo modello abbia poco senso.

Nel nostro lavoro vogliamo mettere in evidenza come in realtà quelle che vengono date come acquisizioni scientifiche solide e sicure in realtà ad una revisione sistematica risultino carenti sia dal punto di vista metodologico che epistemologico.

Studi a sostegno dell’origine genetica della schizofrenia: studi sui gemelli e sulle adozioni

I primi lavori a sostegno della supposta ereditarietà della schizofrenia sono quelli sull’aggregazione familiare (clustering) della malattia. In questo tipo di studi, iniziati nei primi anni del ‘900[7], è stata confrontata la frequenza della schizofrenia nelle famiglie dei pazienti con quella presente nella popolazione generale.

I risultati di questi lavori sembrano indicare che effettivamente esisterebbe una maggiore frequenza della schizofrenia nelle famiglie dei malati (0-5,8%) rispetto a quella normalmente attesa nella popolazione (0,2-0,6%), e che i parenti di primo grado avrebbero un rischio più alto di sviluppare la malattia rispetto a quelli di secondo e terzo[8].

Gli studi sulle famiglie però, specie quelli più datati, peccano di gravi lacune metodologiche: le diagnosi non erano basate su criteri riproducibili (e includevano altre forme di patologia mentale oltre la schizofrenia), gli sperimentatori erano al corrente dello stato familiare di coloro che esaminavano, i metodi di selezione del campione non erano esplicitati e non esistevano gruppi di controllo[9].

Pur sorvolando su questi aspetti, certamente non marginali, il clustering familiare per la schizofrenia, da solo, non giustifica la teoria genetica della malattia. Quello che viene operato quando dall’aggregazione familiare si passa alla trasmissione genetica della patologia è un vero e proprio salto logico, se si pensa a come le famiglie condividano l’ambiente (per es. relazionale, culturale) almeno tanto quanto i geni. Se poi l’ereditarietà genetica fosse così importante, difficilmente si spiegherebbe come la maggior parte dei casi di schizofrenia osservati siano comunque sporadici (vale a dire che i pazienti non hanno familiari di primo grado affetti dalla malattia)[10].

Successivi agli studi familiari sono gli studi sui gemelli, che ancora oggi vengono considerati una delle più solide basi a sostegno della teoria genetica della schizofrenia. Questo tipo di studi è basato sul confronto dei tassi di concordanza della malattia tra gemelli monozigoti rispetto a quelli esistenti tra gemelli dizigoti dello stesso sesso cresciuti insieme, in modo da rilevare differenze indipendenti dai fattori ambientali. La maggiore concordanza di malattia trai gemelli monozigoti rispetto ai dizigoti che risulta da questi lavori dimostrerebbe l’origine genetica del disturbo.

Diversi Autori[11] hanno tuttavia fatto notare come gli studi sui gemelli siano basati su assunto semplicistico e tutto da dimostrare (quello della condivisione dello stesso ambiente tra mono e dizigoti), e che il loro disegno non sia abbastanza sofisticato da tener conto della complessa influenza dei fattori sociali e ambientali nello sviluppo della malattia. E’ dimostrato infatti che i gemelli monozigoti subiscono influenze ambientali peculiari e maggiormente condivise rispetto ai dizigoti, e questo, piuttosto che la comunanza del genoma, potrebbe efficacemente rendere conto del maggior tasso di concordanza registrato. Del resto, anche il fatto che il tasso di concordanza risulta più elevato nei gemelli dizigoti rispetto ai fratelli non gemelli può essere spiegato con argomenti simili[12].

Anche prendendo per buoni gli assunti che ne sono alla base, ad un esame attento gli studi sui gemelli mostrano molti dei problemi metodologici già presenti negli studi sulle famiglie, e i loro risultati sono soggetti a numerose critiche[13].

Comunemente viene operata una distinzione tra gli studi “classici”, effettuati prima del 1967, e quelli “contemporanei”, successivi a quella data. I primi studi mostrano dei tassi di concordanza generalmente più elevati rispetto a quelli più recenti. Questo innanzitutto perché gli studi moderni hanno utilizzato dei criteri diagnostici operazionali, maggiormente restrittivi. I vecchi studi, infatti, includevano, oltre alla diagnosi di schizofrenia, anche altri disturbi di diversa gravità appartenenti allo spettro schizofrenico[14], e ciò aumentava il tasso di concordanza. Anche riguardo allo stato di gemello mono o dizigote la diagnosi era determinata con metodi poco sicuri come l’esame visivo o con questionari di auto-valutazione. Inoltre, molti degli studi classici erano “non-blind” sia riguardo alle diagnosi sia allo stato di gemelli mono o dizigoti (vale a dire che i ricercatori erano a conoscenza dello stato dei probandi) con un inevitabile bias [15] di selezione del campione.

Patrick F. Sullivan, nel suo articolo[16] citato nella lettera a Nature a sostegno dell’eziologia genetica della schizofrenia, si pone il problema della scarsa correttezza metodologica di metà degli studi sui gemelli considerati per l’inclusione nella sua metanalisi (sette su quattordici). Ciò nonostante include ben cinque dei lavori criticati nella sua analisi. Questa scelta viene giustificata dall’autore con la motivazione di poter ottenere una numerosità campionaria tale da consentire calcoli per la metanalisi, nonché per evitare un ulteriore bias derivato dall’uso di soli studi moderni. Così facendo, però, nel lavoro di P. F. Sullivan sono inclusi anche gli studi che gonfiano i tassi di concordanza con artifici statistici (utilizzando la probandwise concordance, piuttosto che la pairwise comparison, per calcolarli)[17].

Neanche gli studi più recenti, esaminati singolarmente, sono del tutto immuni da questo tipo di critiche. Tuttavia, nel complesso, dal punto di vista metodologico sono meglio condotti. L’effetto di questa maggiore correttezza nel disegno degli studi è stato però quello di ridimensionarne pesantemente i risultati:

<<The pattern is clear: concordance rates in twin studies have clearly fallen since 1967>>[18].

Più raffinati e meno discutibili in quanto alle premesse rispetto agli studi sui gemelli sono quelli sui gemelli monozigoti cresciuti separati (reared aparts) e quelli sulle adozioni. Questo tipo di studi avrebbe il vantaggio di limitare ulteriormente l’influenza dei fattori ambientali confondenti nello sviluppo della malattia. Nel primo tipo di studi si vanno a calcolare i tassi di concordanza tra gemelli identici cresciuti in ambienti diversi fin dall’infanzia, nel secondo si confronta la frequenza della schizofrenia nei parenti biologici dei pazienti rispetto a quella presente nei parenti adottivi (ad esempio andando a esaminare i figli di madri schizofreniche adottati dopo la nascita)…

Se i parenti biologici del gruppo di persone che hanno sviluppato schizofrenia hanno una più alta incidenza di schizofrenia rispetto al gruppo di controllo ciò supporterebbe l’idea di trasmissione genetica. Gli studi mostrano un’incidenza significativamente più alta di schizofrenia fra i parenti biologici rispetto a quelli adottivi.

Questo tipo di risultati sembrerebbe indicare definitivamente una origine genetica della schizofrenia.

In realtà a uno sguardo più attento tali studi soffrono degli stessi difetti metodologici degli studi sui gemelli sia su quelli familiari[19]. Una sovrastima della diagnosi di schizofrenia fra i genitori naturali ottenuta includendo altre diagnosi  psichiatriche oltre a quella di schizofrenia, ha aumentato il tasso di incidenza della malattia. E’ stato ben documentato che non sono state trovate  differenze statistiche dell’incidenza di malattia fra i genitori biologici di pazienti con schizofrenia e i controlli[20]. Solo attraverso l’inclusione di stati di personalità inadeguati e incerti disturbi borderline si riesce ad arrivare a un risultato significativo.

Alla ricerca del gene mancante

Più di venti anni fa[21] Robin Sherrington ipotizzava che la suscettibilità alla schizofrenia fosse determinata da un singolo gene. Oggi questo tipo di determinismo è solo apparentemente superato da H. Gage (e più in generale dai  fautori dello “watershed model”[22] a cui l’autore fa riferimento), che, di fronte agli evidenti limiti di un’impostazione così semplicistica, chiamano in causa complesse interazioni di una molteplicità di geni a “piccolo effetto”. Secondo Timothy J. Crow entrambe le ipotesi, ad oggi, si sono rivelate fallimentari:

<<The field of psychosis genetics, as based on linkage studies, is thus at an impasse—there is no clear way ahead.>>[23]

Nella  letteratura infatti si enfatizzano i risultati della ricerca genetica mentre per esempio l’esame dettagliato di 20 fra i più citati lavori dal 2005 al 2007 afferenti all’ISI (Institute of Scientific Information) non giustifica affatto questo entusiasmo: risulterebbe che tutti i geni designati come candidati da studi di linkage e di associazione non svolgano ruolo alcuno nella patogenesi della schizofrenia.[24]

In un lavoro del 2008 pubblicato sull’American Journal of Psychiatry da Alan R. Sanders e colleghi[25], gli Autori arrivano a conclusioni analoghe. Prendendo in esame 648 varianti (polimorfismi di singolo nucleotide – SNPs[26]) dei 14 geni meglio supportati in letteratura come candidati per l’associazione con la schizofrenia, nessuno di questi ha retto alla prova dei fatti quando testato su popolazioni ampie.

Quello che invece è certo è che la schizofrenia risulta ad oggi una delle malattie di gran lunga meglio studiate negli studi di associazione, basti pensare che più di 1000 geni sono stati ripetutamente testati[27]. Nonostante questi sforzi, come riportano Pablo V. Gejman e collaboratori in recenti review[28],[29] i risultati non sono mai stati confermati:

<<However, as samples frequently lacked sufficient statistical power, the problem of nonreplication has been far from trivial>>

Neanche i più recenti studi di Genome Wide Association[30], che pure sono stati accolti con entusiasmo in quanto consentono di interrogare a tappeto tutto il genoma (diversamente dagli studi di linkage e associazione che partono da un gene candidato e lo vanno a testare[31]) hanno dato a ben vedere risultati convincenti. I GWAs ad oggi non hanno supportato la maggior parte delle associazioni “classiche” con la schizofrenia, mentre ad esempio l’associazione tra la malattia di Alzheimer e l’ApoE[32] è stata confermata da questo tipo di studi[33]. L’effetto di questi studi applicati alla schizofrenia è stato piuttosto quello di individuare una nuova serie di geni o regioni del genoma candidati senza tuttavia ottenere evidenze certe di associazione con la patologia.

A una lettura attenta della review di Pablo V. Gejman, infatti, salta agli occhi come, applicando i criteri di significatività proposti, la maggior parte degli studi riportati non sono statisticamente significativi e si basano su campioni relativamente troppo piccoli per ottenere risultati replicabili:

<<… but even the largest studies did not yield a genome-wide significant result in single samples>>

Solo combinando i dati da studi diversi (cosa comunque discutibile perché i campioni in questo modo non sono mai del tutto omogenei), si otterrebbe qualche risultato. Tuttavia anche con questo artificio si ottengono valori di Odd Ratio[34] bassi, sicuramente non predittivi (tra 1.15 e 1.23); gli stessi autori riportano come: <<… odd-ratios of 1.1-1.5 are too low to permit prediction…>>

Anche prescindendo dalle valutazioni statistiche, molti degli SNPs individuati come meglio associati negli studi di GWAs fanno parte di regioni del genoma che risultano intergeniche o introniche[35] e nella maggior parte dei casi non funzionali per le cosidette “missense mutations” dovute alla sostituzione di una base.

In misura minore alcuni degli SNPs individuati negli studi di GWAs appartengono a geni invece  che codificano per proteine implicate nella trasmissione sinaptica e nella sinatogenesi e le cui mutazioni potrebbero fornire il substrato micromolecolare di quella che è allo stato attuale una delle teorie più accreditate sulla eziopatogenesi della schizofrenia: l’ipotesi disconnettiva[36]. In particolar modo è stata studiata una proteina denominata Synapsina III[37]. Le  Synapsine sono una famiglia di proteine presenti a livello delle vescicole presinaptiche ed hanno un ruolo, in particolare la Syn III, nella crescita assonale, nella sinaptogenesi e nella modulazione della neurotrasmissione.  In linea teorica mutazioni genetiche determinanti isoforme aberranti di queste proteine determinando alterazioni della sinaptogenesi  potrebbero andare a confermare l’ipotesi che la schizofrenia sia una malattia del neuro sviluppo.   In realtà come accaduto per altri geni studiati  come la Neuroligin 1 e la Dysbindina anche in questo caso manca una relazione diretta fra il gene mutato e l’alterazione funzionale conseguente [38]. Uno dei  motivi di questa mancanza è sicuramente il fatto che stiamo parlando di proteine di cui esistono diverse isoforme  e la cui azione  è soggetta  a meccanismi regolatori estremamente complessi. Dagli studi in cui veniva cercata un’associazione fra polimorfismi  dovuti a mutazione missense[39] della Sin III e la schizofrenia è emerso che i polimorfismi studiati non sono  più frequenti  nei soggetti affetti rispetto ai controlli  sani e  che nei pochi pedigree in cui il gene mutato era presente non tutti i soggetti portatori della mutazione presentavano la malattia;   inoltre fra i soggetti affetti da schizofrenia non tutti erano portatori del gene mutato.  Gli autori di questo studio, in accordo con molta della letteratura al momento disponibile, concludono che il gene che codifica per la Syn III potrebbe determinare esclusivamente una suscettibilità genetica alla schizofrenia in associazione con altri geni , non essendo, evidentemente, da solo  in grado di generare la malattia [40]. Alterazioni a  carico di  geni  (es. Neuroligin) che   mediante  il controllo del  bilanciamento fra formazione di sinapsi  eccitatorie  e inibitorie influenzano  la sinaptogenesi  si sono dimostrate  infatti altamente aspecifiche in quanto riscontrabili in patologie definite del neuro-sviluppo  estremamente diverse   far loro come l’autismo, la sindrome dell’X fragile, la sindrome di Rett e l’epilessia [41].

 L’ipotesi disconnettiva

H. Gage partendo dai risultati del suo esperimento arriva a sostenere la tesi secondo la quale  l’anomalia genetica  presente come disturbo fondamentale nella schizofrenia si tradurrebbe in una diminuita connettività fra i neuroni. Si deve innanzitutto far notare come l’entusiasmo con cui Gage accoglie i risultati del suo studio appare forse eccessiva considerati gli evidenti limiti metodologici del lavoro. Gli stessi autori infatti ammettono come, vista l’esiguità e l’eterogeneità del campione (4 pazienti con diagnosi diverse e non sovrapponibili anche secondo la nosografia categoriale del DSM-IV[42]), i risultati possano non essere generalizzabili. Inoltre l’idea della diminuità connettività neuronale come difetto originale della schizofrenia non trova pieno riscontro neanche nella teoria della disconnettività proposta da Karl Friston, il quale, pur partendo da presupposti simili, giunge a conclusioni ben diverse mostrando un approccio alla tematica sicuramente più complesso.   La teoria di K. Friston ipotizza che la schizofrenia possa essere compresa sia  in termini cognitivi che in termini  patofisiologici come un disturbo esclusivamente funzionale nonostante si sia avvalsa, di modelli di lesioni anatomiche “estrinseche” coinvolgenti la sostanza bianca (es. leucodistrofia con manifestazioni psicotiche)  non dando però a quest’ultime, diversamente da Carl Wernicke un’interpretazione eziologica bensì utilizzandole esclusivamente a scopo esplicativo.  L’assenza di evidenze a favore di una alterazione della sostanza bianca nella schizofrenia  induce K. Friston a porsi il seguente quesito “quante delle anomalie neurochimiche e citoarchitettoniche che si ritrovano nella schizofrenia possono considerarsi come conseguenza  di una presunta alterazione della plasticità esperienza dipendente che è normalmente responsabile del modellamento infrastrutturale cellulare e sub cellulare  dei circuiti neuronali?[43]

Lo studio di Nature potrebbe essere valutato proprio alla luce di questa domanda. I ricercatori statunitensi  infatti sostengono di aver dimostrato come a livello delle sinapsi dei neuroni di pazienti schizofrenici esistano alterazioni microscopiche e molecolari geneticamente determinate che, indipendentemente dall’interazione con l’ambiente, potrebbero essere considerate alla base dello sviluppo della malattia. Aspetto non trascurabile di questo studio è il fatto che è stato condotto su neuroni ottenuti per riprogrammazione genetica a partenza da fibroblasti prelevati da pazienti (presunti) schizofrenici. Si tratta quindi di una popolazione cellulare numericamente ridotta  studiata non tenendo conto né dell’evoluzione temporale della sinaptogenesi,  né della metaplasticità sinaptica  né del ruolo di alcuni neurotrasmettitori (ruolo del gaba nel facilitare plasticità) Dall’articolo infatti non emerge che lo studio sia stato condotto riproducendo in coltura tali condizioni, posto che questo sia possibile.  Questo limite metodologico pone dei dubbi sull’attendibilità  delle conseguenze tratte dai risultati ottenuti in quanto l’efficacia della trasmissione sinaptica varia epigeneticamente durante tutta la vita dell’individuo ed è modulata dallo stato funzionale della membrana  sia pre  che  post sinaptica. Uno dei principali meccanismi responsabili della plasticità neuronale è la potenziazione neuronale  a breve o  a lungo termine, come altresì la depressione neuronale. La Long Term Potentiation (LTP) è quella più duratura e può essere associata a rimodellamento infrastrutturale delle spine dendritiche[44]. Si tratta di processi molecolari  che coinvolgono il glutammato e i suoi recettori  e sono in grado di determinare un incremento della responsività neuronale (dovremmo pertanto chiederci se queste anomalie genetiche siano tali da impedire alle sinapsi di incrementare la loro efficacia tramite questo tipo di potenziamento funzionale). Inoltre sono stati individuati come meccanismi responsabili del mantenimento e del rinforzamento delle sinapsi potenziate dalla LTP, il reclutamento di sinapsi silenti e la sinaptogenesi. Si vede bene dunque come le funzioni di singole molecole siano da valutarsi all’interno di un sistema in cui i meccanismi  fisiologici di compenso e adattativi sono altamente rappresentati.  L’efficacia della funzionalità sinaptica andrebbe perciò valutata nel tempo  e in virtù dei diversi stati funzionali  in cui possono trovarsi le sinapsi stesse: ci sono connessioni   infatti definite “silenziose sorde” che come appare chiaro dal nome si trovano in uno stato di non responsività assoluta. Il quadro si complica ulteriormente se prendiamo in considerazione oltre alla plasticità sinaptica anche la metaplasticità sinaptica dovuta alla cooperazione e alla competizione di sinapsi contigue per la ripartizioni dei diversi fattori locali, ad esempio neuromodualtori come l’acetilcolina o la dopamina che sono in grado di modificare lo stato funzionale delle sinapsi.  Per chiarire ulteriormente quanto possano essere trascurabili anomalie micromolecolari a livello sinaptico  dobbiamo prendere in considerazione la cinetica della sinaptogenesi. Nella corteccia cerebrale umana le prime sinapsi sono osservabili molto precocemente fin da quaranta giorni dopo il concepimento,  successivamente si assiste a diverse onde di sinaptogenesi che si succedono progressivamente fino alla pubertà  durante la quale il 40% delle sinapsi sparisce a causa di meccanismi non ancora identificati nonostante questa sia per la psiche dell’individuo una delle transizioni più difficili.  Le prime sinapsi che si formano durante lo sviluppo fetale sono sinapsi “silenziose che a partire dal settimo mese di vita gestazionale con la crescita delle reti neurosinaptiche diventano influenzabili da parte dei potenziali d’azione prodotti dai recettori sensoriali periferici (interazione con l’ambiente) e propriocettivi(rappresentazione del corpo). Questi segnali sono fondamentali per l’affinamento dei circuiti sinaptici e il loro funzionamento ottimale  tanto che alterazioni dell’ambiente possono perturbare e ritardare la maturazione di tali circuiti.  La plasticità neuronale, benché perduri per tutta la vita, presenta dei periodi critici in cui la crescita e l’organizzazione delle branche sia assonali che dendritiche diventano estremamente sensibili agli stimoli elettrici circolanti.  Quali siano i geni implicati nell’inizio della sinaptogenesi,   l’ipotesi che esistano gruppi di geni distinti per ciascuna onda di sinaptogenesi e  l’ipotesi  che si tratti di fenomeni puramente epigenetici è ancora oggetto di studio. Esaminando le cinetiche di sinaptogenesi nella corteccia cerebrale di diverse specie vediamo come queste siano estremamente variabili sia in relazione fra loro sia  in relazione alla durata della gestazione.  Paradossalmente l’uomo impiega almeno 200 volte il tempo che impiega il topo per generare la stessa densità di sinapsi in 1 mm3 di tessuto cerebrale corticale. (implicazioni relative  a questo dato, quantità sinapsi non è importante, discorso pubertà di cui sopra ecc.)

Come abbiamo visto nel cervello normale si realizzano sia in epoca prenatale che postnatale tutta una serie di meccanismi volti allo sviluppo di schemi connettivi funzionali adattativi. Questo tipo di connettività ha due determinanti. Il determinante epigenetico rappresenta l’interazione fra biologia molecolare dell’espressione genica,  migrazione cellulare e andamento spazio temporale della morfogenesi cerebrale. L’altro determinante è rappresentato dal rimodellamento degli schemi connettivi e della forza delle sinapsi che si realizza in modo attività dipendente cioè secondariamente all’interazione con l’ambiente.

Secondo K. Friston l’anomalia che si riscontra nei pazienti schizofrenici si trova  a livello della modulazione dell’efficacia delle sinapsi sia  essa a breve che a lungo termine purchè si verifichi in epoca post-natale. A differenza da quanto proposto dall’articolo di Nature la teoria disconnettiva, basandosi sul fatto che la sintomatologia schizofrenica si presenta in età adulta, stabilisce che si tratti di una modulazione anomala della plasticità sinaptica esperienza dipendente. Si fa dunque riferimento ad una tipo di plasticità specifico, derivato strettamente dall’interazione con l’ambiente  distinto dalla plasticità determinata epigeneticamente e ancor più distinto da quella determinata geneticamente.

Friston propone un passaggio ulteriore, considerando la natura ubiquitaria dei determinanti della plasticità sinaptica (LTP e STP) propone che questi meccanismi estremamente diffusi e conseguentemente aspecifici che interferiscono sulla modulazione dell’efficacia sinaptica  non possano essere responsabili di una sindrome come la schizofrenia che presenta invece un grado di specificità sia in termini funzionali che in termini di aree anatomiche interessate. Pertanto propone che non sia un’alterazione della plasticità di per sé ad essere responsabile del processo morboso ma piuttosto un suo alterato controllo esercitato da sistemi neurotrasmettitoriali ascendenti dotati appunto di maggior specificità neurochimica e  anatomica. Il ruolo di questi sistemi nella  modulazione della plasticità sinaptica  a lungo termine fondamentale per l’elaborazione  e il mantenimento di schemi connettivi adattativi è nota da tempo[45]. Per quanto non si possa essere d’accordo nel ridurre una sindrome estremamente complessa come la schizofrenia alla stregua di un’alterazione neurotrasmettitoriale, sicuramente questo tipo di ricerca ha il pregio di sottolineare l’importanza dell’interazione con l’ambiente e di superare l’idea che alla base di questa patologia ci siano alterazioni neurologiche focali come nel caso delle demenze post-infartuali. K. Friston   si oppone  infatti alla teoria che vorrebbe come meccanismo patogenetico della schizofrenia lesioni in uno o più sistemi neuronali specifici. Entrambe possono ovviamente convivere ma secondo K. Friston il primo evento patogeno si realizza a livello dell’interazione neuronale in particolare a livello dell’induzione e del mantenimento di corretti schemi connettivi.  Il fallimento nello stabilire questi schemi connettivi determina una anormalità  nella specializzazione funzionale. Quest’ultime  sono dunque secondarie. Patologie regionali specifiche come uno stroke o un tumore sono sufficienti  a spiegare deficit sensitivo-motori e particolari alterazioni cognitive, ma fatta eccezione per la “sindrome da povertà psicomotoria” le lesioni focali non sono utilizzabili per spiegare la schizofrenia. Molti dei sintomi o dei segni positivi  schizofrenici possono essere spiegati solo prendendo in considerazione l’interazione fra processi cognitivi diversi (ad es. l’allucinazione può essere considerata come un’errata attribuzione di “discorsi” interni ad un agente esterno). In altre parole segni e sintomi schizofrenici si esprimono quando due o più regioni cerebrali interagiscono, indipendentemente dalla presenza di lesioni focali, qualora infatti fossero presenti sono considerate come un epifenomeno di un problema maggiormente pervasivo.

Pierre Bourgeois sottopone a critica l’ipotesi che la schizofrenia sia una sindrome dovuta ad un alterato sviluppo del sistema nervoso dovuto a mutazioni che influiscono sulla sinaptogenesi e sulla connessione fra aree associative corticali. In primo luogo asserisce P. Bourgeois

<<(…) the casual chain between the mutates genes, the alteration of synaptic circuits, the symptoms, and the environments is not known.Wheter these syndromes result from a fault in normal early development of synaptic circuits or from a deficit  of synaptic plasticity involved in their late refinement remains an open question.>>[46]

Nell’ambito della complessità delle interazioni causali fra geni ed ambiente è ancora difficile  allo stadio attule delle nostre conoscenze stabilire il contributo di ciascun singolo parametro nel determinare un  eventuale deficit nella citoarchitettonica cerebrale.

In secondo luogo si sono sviluppati dei modelli esplicativi testati su animali per risolvere le questioni rimaste insolute, per individuare gli endofenotipi e le potenziali strategie terapeutiche.

Si chiede P. Bourgeois

<<However what is the validity of animal models for human psychiatric pathologies(…)?The human brain is not simply a big mouse brain and the list of its singular features is corrently increasing.>>[47]

In particolar modo il cervello umano, anche se volessimo prescindere dalle sue dimensioni e dal livello di attività metaboliche assolutamente unici, ha un repertorio di aree cerebrali non presenti in altri animali oltre al fatto che sono stai individuati geni specifici che ne controllano lo sviluppo e la funzionalità.

L’approccio “riduzionistico” della biologia molecolare  proprio rispetto alle patologie psichiatriche rivela tutti i suoi limiti.

Ridurre il riduzionismo

L’idea che la schizofrenia sia una malattia di origine genetica è un ipotesi “riduzionistica”. Sappiamo che una formulazione radicale del punto di vista riduzionistico appartiene  a Francis H. C. Crick che scrisse “un organismo non è altro che un insieme di molecole ed atomi (…) Il fine ultimo del movimento moderno in biologia è di fatto quello di spiegare tutta la biologia in termini fisica e di chimica.” [48]

Il gene, indipendentemente da come lo si voglia definire è parte di una struttura molecolare: una condizione di malattia così complessa come la schizofrenia che investe l’essere nella sua totalità,  viene “ridotta” nell’articolo di Gage  all’azione di un gene od un gruppo di geni in grado di predeterminare il comportamento ed i contenuti ideativi.

Bisogna ricordar che la fondazione della biologia molecolare, da parte di James D. Watson e F. Crick con la scoperta della natura proteica del materiale ereditario e della specificità della sua natura biochimica e strutturale è resa possibile da una metodologia sperimentale  e si accompagnava all’idea che:

<<(…) la caratterizzazione chimico-fisica di un sistema biologico è sufficiente a spiegarne le proprietà ed il comportamento, ovvero che i livelli di organizzazione al disopra di quello molecolare diventano irrilevanti o ridondandi>>[49]

A partire dagli venti del Novecento e lungo tutto il secolo la biologia è  stata impegnata nel risolvere la contraddizione fra riduzionismo ed il cosiddetto olismo (termine coniato da Jan Smuts nel 1926) e nel rispondere alla domanda se gli attributi degli esseri viventi, la loro morfologia, fisiologia  e comportamento possano essere considerati  indipendenti dalle  loro componenti fisico-chimiche.

In J. Smuts l’olismo si presenta come sviluppo genealogico delle filosofie di Aristotele, Gottfied Leibniz, Immanuel Kant e Friedrich Hegel che difesero strenuamente il principio dell”unità del tutto.[50]

La disputa fra riduzionismo ed olismo ripropone, alla luce di nuove conoscenze scientifiche, lo storico dibattito fra il meccanicismo di derivazione cartesiana ed il vitalismo settecentesco. Per il filosofo francese si sarebbe potuti giungere alla spiegazione di tutti i fenomeni naturali scomponendoli prima nei loro elementi costitutivi. Già Thomas Willis nel suo Cerebri Anatome del 1665[51] si era espresso contro i tentativi volti a localizzare alcune facoltà cognitive in specifiche aree cerebrali anticipando la reazione allo iatromeccanicismo cartesiano dei vitalisti  come Georg E. Stahl, Paul J. Barthez, Francois X. Bichat, John Brown appartenenti a vari orientamenti.

Le teorie vitalistiche presupponevano una netta distinzione fra gli esseri viventi e l’universo inanimato. Secondo il vitalismo:

<<(…) le proprietà strane degli esseri viventi, l’invarianza e la teleonomia [la presenza di finalismi],non violano probabilmente la fisica ma esse non sono spiegabili appieno in termini di forze fisiche  e di interazioni chimiche , rivelate dallo studio dei sistemi non viventi. E’ dunque indispensabile ammettere che alcuni principi – i quali si sommerebbero a quelli della fisica – operano nella materia vivente e non nei sistemi non viventi dove di conseguenza essi, come principi elettivamente vitali, non possono essere reperiti>>[52].

Francois Jacob, che insieme a Jacques Monod aveva condiviso il premio Nobel per gli studi sulla sintesi proteica dal canto suo ne La logica del vivente sottolineava  come il biologo integrista (od evoluzionista od olista che dir si voglia ) si rifiutasse di pensare  che tutte le proprietà di un essere vivente, il suo comportamento, le sue attività potessero essere spiegate in base alle strutture molecolari, in quanto il tutto non è semplicemente la somma delle parti.[53]

Si vede bene come l’olismo Novecentesco riaffiorano tematiche che erano appartenute alle correnti vitalistiche.

Nel corso dell’Ottocento si assiste al trionfo delle teorie  “riduzioniste”  di Franz J. Gall che localizzavano, contraddicendo così il punto di vista di T. Willis,   in specifiche  aree cerebrali le  diverse facoltà mentali .

Claude Bernard, intorno alla metà dell’Ottocento si inserirà nella reazione dei fisiologi al vitalismo imperante: insieme a F.J. Gall, Charles Bell e Rudolf Virchow si opporrà all’idea, propugnata da F. X. Bichat, della vita  come scontro fra forze vitali e forze fisico chimiche: la prevalenza di quest’ultime  avrebbe provocato secondo il medico francese, la morte.

Claude Bernard autore della celebre “Introduction a l’etude de la medicine experimentale[54] (1865) traccia una precisa metodologia: la medicina secondo il francese avrebbe dovuto fare  proprio il punto di vista  del determinismo causale  e dello sperimentalismo propri della fisica.

Agli inizi del ‘900 Karl Jaspers cercò di dare alla psichiatria uno statuto epistemologico autonomo creando di fatto una frattura fra scienze naturali e le cosidette “Scienze dello Spirito”. Scriveva:

<< Mentre nelle scienze naturali si può rimanere nell’ambito delle relazioni causali, in psicologia la conoscenza trova il suo soddisfacimento  anche nel cogliere tutta una serie diversa di relazioni.”Lo psichico” sorge dallo psichico in un modo per noi comprensibile. La persona aggredita si adira e compie azioni di difesa, l’individuo ingannato diventa diffidente. Questo provenire dello psichico dallo psichico lo comprendiamo geneticamente. Così comprendiamo reazioni ad avvenimentil ,o sviluppo di passioni, l’insorgere dell’errore, comprendiamo una personalità abnorme nelle sue peculiari connessioni intrinseche , comprendiamo il corso fatale di una vita, comprendiamo come il malato comprenda se stesso e come i modi di questa comprensione possano diventare un fattore dell’ulteriore sviluppo psichico.>>[55]

La fecondità di questa impostazione  non può essere messa in dubbio ed è testimoniata dallo sviluppo della psichiatria fenomenologica e della cosiddetta analitica esistenziale nel corso del Novecento: la psichiatria si occupa dell’essere umano nella sua totalità e le sue conoscenze, come affermava anche Ludwig Binswanger e Ferdinand Barison, non sono quantificabili come nell’ambito delle scienze naturali o riconducibili alle leggi della causalità fisica.

Anche per Wolfang M. Blakenburg non ha senso nella prospettiva della  fenomenologia e della daseinanalyse porsi il problema del “disturbo fondamentale”, [56] che sarebbe alla base della schizofrenia, in termini di eziologia organica  e di causalità.

Scrive lo psichiatra:

<< E’ sempre stata costante la tendenza a considerare il supposto disturbo fondamentale come un deficit puramente quantitativo ed in compenso la sintomatologia qualitativamente anormale che è in primo piano come il risultato di una elaborazione secondaria, o piuttosto come un tentativo di adattamento (Bleuler,) di autoguarigione (Kalesi) o di riorganizzazione (Kisker)(…)>>[57]

W. M. Blakenburg è d’accordo con K. Jaspers là dove egli afferma che nell’itinerario proprio dell’approccio psicologico, e quindi psichiatrico le cose vanno diversamente rispetto alle descrizioni proprie della scienza della natura: l’oggetto non si presenta ai nostri occhi in modo sensoriale, l’esperienza, di cui si cerca di cogliere l’essenza  non è che una rappresentazione.

E’ importante però sottolineare l’affermazione di K. Jaspers secondo cui possiamo comprendere la genesi dello psichico a partire dallo psichico. Ma qualora noi indagassimo l’origine dello psichico a partire dalla realtà biologica lo stesso metodo sarebbe ugualmente applicabile?

Nello psichico che genera lo psichico noi siamo di fronte a due o più esseri umani, considerati come totalità che interagiscono fra loro ma la sola comprensione psicologica  derivata dai rapporti umani mi consente di spiegare come nell’ambito dei fenomeni biologici “emerge” la vita psichica? Nella ricerca sulla realtà della nascita umana di fatto scienze umane e scienze della natura trovano un punto di convergenza. La storia della disputa fra Renè Descartes e William Harvey a proposito della circolazione sanguigna e del ruolo svolto in essa dalla contrattilità del cuore ci insegna che la fisiologia non la possiamo inventare in base a presupposti filosofici  come faceva R. Descartes, ma la dobbiamo inevitabilmente scoprire facendo ricorso al metodo sperimentale come W. Harvey. Quest’ultimo affermava di voler apprendere e insegnare l’anatomia non sulla scorta dei libri ma della dissezione, non delle vedute dei filosofi, ma in base alla “fabbrica della natura”.[58]

Bisogna ricordare la tesi freudiana secondo la quale il sonno sarebbe una riattivazione dello stato fetale: siamo di fronte ad una “credenza”  che aveva un’origine puramente psicologica. Essa è stata contraddetta dalle scoperte recenti della neonatologia  che dimostrano inequivocabilmente che nel feto non si può parlare nè di sonno nè di veglia nè tantomeno di sogno. Il sonno neonatale non è chiaramente una regressione intrauterina. Così come non avrebbe senso, alla luce delle conoscenze attuali dello  sviluppo della sensorialità fetale, riproporre il concetto di un “narcisismo fetale” introdotto da Philiis Greenacre[59] o l’idea sempre freudiana che le impressioni visive non giochino alcun ruolo alla nascita. Le conoscenze neurobiologiche hanno sovente, come si può facilmente constatare,  una ripercussione diretta sulla comprensione della nostra vita psichica.[60]

Il futuro della ricerca potrebbe apparire allora, alla luce delle considerazioni fin qui svolte  come quello di ambiti interdisciplinari, per esempio, quello della psichiatria e della neurobiologia, capaci di interagire in base ad una riflessione e ad una critica dei propri presupposti metodologici. Le possibiltà di quest’interazione sono chiaramente tutte da costruire.

Nell’ambito della biologia molecolare, si è fatto un tentativo di superare le forme del riduzionismo “grezzo”  e fuorviante presente nel lavoro di H. Gage da noi esaminato: l’autore sembra non essere  affatto consapevole della complessità del dibattito epistemologico in corso, degli sviluppi dell’epigenetica e della revisione radicale a cui è stato sottoposto il concetto stesso di “gene”.

Nella Standford Encyclopeda of Philosophy leggiamo sotto la voce “Gene”:

“There can be little doubt,” philosopher and biochemist Lenny Moss claimed in 2003, “that the idea of ‘the gene’ has been the central organizing theme of twentieth century biology” (…). And yet it is clear that the science of genetics never provided one generally accepted definition of the gene. More than a hundred years of genetic research have rather resulted in the proliferation of a variety of gene concepts, which sometimes complement, sometimes contradict each other>>[61]

L’affermazione quindi che la schizofrenia è una malattia genetica dovrebbe preliminarmente chiarire  non solo come si debba definire “il gene”  che sarebbe alla base della diminuita connettività fra i neuroni ma anche tutti i passaggi che dal genotipo portano alle manifestazioni fenotipiche cioè alle sequele sintomatologiche, alle esperienze allucinatorie e deliranti. Il gene od i geni della schizofrenia sono “frammentati” “sovrapposti” o “mobili” od altro ancora  per usare il linguaggio  della biologia molecolare?

Siamo però di fronte al fatto che la genetica molecolare non è  in grado di spiegare come si producano  i cosiddetti fenotipi complessi (e la schizofrenia va considerata  fuori da ogni ombra di dubbio un fenotipo complesso): la determinazione epigenetica implica una interazione dei geni tra loro e con i segnali provenienti dall’ambiente .

<< Benché la medicina molecolare  si ostini a considerare la determinazione monogenetica della malattia come un modello di riferimento questa riguarda non più del 2% delle malattie cosiddette ereditarie.  Il 98% del carico di malattie che l’uomo può manifestare sono multigeniche e dipendono da reti di interazioni comunicative fra geni, prodotti genici ed ambiente >>[62]

Secondo una classica formulazione di Francisco Ayala[63] noi possiamo distinguere tre forme di riduzionismo: il riduzionismo ontologico quello  epistemologico e quello metodologico. Per i riduzionisti ontologici gli esseri viventi sono costituiti da nient’altro che atomi e molecole: nessuno sembra più far riferimento all’esistenza di forze e principi non materiali come l’entelechia aristotelica riportata in vita un secolo fa  dal biologo e filosofo Hans Driesch o l’elan vital di Henri Louis Bergson. Il riduzionismo metodologico fa riferimento alla tradizione sperimentale dell’indagine analitica e della disaggregazione dei sistemi in parti elementari. Il riduzionismo epistemologico cerca invece di affermare che le proposizioni scientifiche valide in un certo ambito siano applicabili anche ad altri ambiti come per esempio accade alle leggi della fisico-chimica che sono applicabili alla biologia.

Secondo Gereon Wolters esisterebbe anche un riduzionismo genetico che sarebbe una forma specifica di riduzionismo epistemologico. Il problema che si pone all’interno del riduzionismo cosiddetto genetico riguarda la possibilità di mettere in relazione le leggi della genetica classica mendeliana con la genetica molecolare derivata dalla scoperta del Dna da parte di James Dewey Watson e Francis Crick nel 1953. I geni mendeliani sono allo stesso tempo unità di ricombinazione, di mutazione ed espressione fenotipica.  Però dal punto di vista molecolare, che è diverso da quello della genetica classica l’unità elementare di espressione ovvero:

<<(..) il numero minimo di nucleotidi in grado di codificare un fenotipo è costituito da qualcosa come novecento nucleotidi,. Il risultato è che la relazione che lega  geni molecolari e geni mendeliani (..) è una relazione del tipo di molti a molti. Questo significa che, da un lato uno stesso segmento di Dna può avere effetti su più di un tratto fenotipico (pleiotropia) e dall’altro lato che lo stesso tratto fenotipico è determinato da geni differenti.>>[64]

La genetica classica non è riducibile alla genetica molecolare  in quanto di fatto non ci sono fra i due settori, termini o concetti che siano equivalenti. Esiste quindi un’impossibilità non solo pratica ma anche di principio nello stabilire una corrispondenza uno ad uno tra un determinato percorso biologico e le manifestazioni fenotipiche descritte dalla genetica classica.

<<Questo comunque vuol dire che il modello neopositivistico della riduzione teorica non ha praticamente senso in biologia >>[65]

E’ evidente che noi non possiamo far risalire tutto al determinismo genetico che escluda completamente il ruolo dell’ambiente anche perchè la spiegazione molecolare  di molti fenomeni genetici è destinata inevitabilmente, nello stato attuale della ricerca, a rimanere incompleta.[66]

Studi come quello di H. Gage vorrebbero far credere che il comportamento è determinato in modo rigido dai geni quando invece tutta la biologia molecolare, dagli anni ‘60 in poi, ha dimostrato che l’ambiente ha un’influenza decisiva sull’espressione genica. Nella seconda metà del secolo scorso infatti ha preso le mosse lo studio dell’epigenetica, un ramo della biologia che ha modificato radicalmente le concezioni non solo dell’embriologia ma anche della nascita. Ciò nonostante, buona parte dei ricercatori nell’ambito delle neuroscienze, a partire da J.D. Watson, sembrano avere ignorato le implicazioni profonde di queste acquisizioni, avvallando un tipo di ricerche basate su di un presupposto riduzionistico ormai superato e anti-scientifico. Sulla base di questa premessa si è voluto spiegare il tutto partendo dallo studio di un particolare. Su questa falsa riga si è mosso anche Eric R. Kandel, che pure con le sue ricerche su Aplysia Californica (un placido gasteropode, una sorta di lumaca marina) ha effettuato  studi fondamentali sulla neurobiologia della memoria vincendo il premio Nobel per la medicina nel 2009. “Per ricercare le basi fisiche della memoria, io decisi di studiare il cervello di un animale semplice come l’Aplysia” diceva E.R. Kandel. L’Aplysia però possiede un piccolo sistema nervoso composto di soli 20mila neuroni suddivisi in gangli, a differenza  dell’uomo, che di neuroni ne possiede 120 miliardi. Nonostante l’indubbia importanza di molte di queste scoperte (basti pensare, per fare un altro esempio, a quelle effettuate dal neuroscienziato svedese Torsten Wiesel che, insieme a David Hubel, ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 1986 per gli studi sul funzionamento della corteccia visiva primaria), quindi, il problema si pone quando si passa dal particolare al generale, quando cioè si cerca di spiegare fenomeni profondamente complessi partendo dall’osservazione e dallo studio di sistemi semplici. La tematica della complessità rappresenta un punto critico nelle metodologie di indagine dell’attività mentale. Va tenuto presente, infatti, che il cervello umano ha 120 miliardi di neuroni e le connessioni sono 10/15 volte tanto. Pertanto, a questo livello, emergono delle proprietà sistemiche complesse che non sono derivabili dall’analisi e dalla sommatoria delle caratteristiche di singoli neuroni o gruppi di neuroni.  Partendo dall’analisi dell’articolo pubblicato su Nature e allargando un po’ l’orizzonte a quella che è l’attività della ricerca nel campo delle neuroscienze, appare quindi chiaro come, nonostante la vastità delle informazioni ottenute, nessuno riesce a tracciare un quadro di insieme, a trarre in modo corretto le conseguenze dall’accumulo di questi dati. Da qui la possibile e necessaria interazione fra neuroscienze e psichiatria, in quanto quest’ultima, partendo dalla conoscenza dei rapporti interumani e considerando l’uomo come totalità, consente un’interpretazione unitaria di questi risultati che ad oggi, invece, sembra molto carente. Ciò dipende dal fatto che la psichiatria dominante si è appiattita sulle posizioni di un organicismo positivistico antistorico ed antiscientifico. Nel DSM-IV inoltre siamo di fronte al prevalere di criteri diagnostici meramente descrittivi: la proliferazione delle entità nosografiche spesso è stata realizzata solo in funzione degli interessi delle case farmaceutiche .

Intre premi Nobel come E.R. Kandel o Gerald M. Edelman, quando cercano di estrapolare questi risultati sul piano di una teoria sulla realtà umana arrivano a delle conclusioni erronee. L’orientamento prevalente in ambito neuroscientifico potrebbe essere definito “coscienzialista”: coscienza ed attività psichica sono tout court considerate, dall maggior parte degli autori, come sinonimi. Un esempio per tutti:  la questione dei tempi della coscienza e dell’inconscio. Quando coscientemente pensiamo di compiere un movimento in realtà il nostro cervello, molto prima che noi ne siamo consapevoli, ha inviato l’impulso nervoso. Da questo discorso emerge che in realtà la coscienza è solo un settore dell’attività mentale, e che la globalità dell’attività psichica è molto più vasta e più profonda ed è quest’ultima ad influenzare la coscienza piuttosto che viceversa.

Scrive David H. Hingvar:

<<Libet found that the electocortical potential began about 550 millsec before an actual finger movements took place. During the initial 35o mmsec of this period the subjects were no consiously aware of having willed to carry out the movement. In other word Libet observations suggest that the initial event of a willed act may include information processing at an unconscious level in neuraonal brain structure>>[67]

Inoltre tutte le teorie organiciste basate sul’lipotesi di un defekt originario (piuttosto che residuale)  di un disturbo fondamentale di origine organica scotomizzano un’intero settore di ricerca teorica  che appartiene alla storia della psichiatria.

La schizofrenia non e’ una forma di demenza

A fine ‘800 Emil Kraepelin teorizzò la schizofrenia come una forma degenerativa, di demenza appunto (dementia paecox). Dai primi decenni del ‘900 con, Walter Morghenthaler, Hans Prinzhorn e K. Jaspers viene fuori un discorso diverso, vale a dire si comincia a teorizzare che nella schizofrenia ci sono sì processi di cosiddetta “dissoluzione psichica”, di frammentazione, ma in modo concomitante emergerebbero capacità produttive sui generis. Questo comporta uno slittamento teorico importante perché la schizofrenia non viene più considerata come un fenomeno deficitario o regressivo. Questa tematica è presente del resto anche in Ferdinando Barison, basti pensare al suo articolo Art et Schizofrénie pubblicato nel 1961 ne L’Évolution Psychiatrique di Henry Ey[68]. F. Barison, facendo riferimento al sentimento di schizofrenicità (praecoxgefûhl) che lo psichiatra avverte di fronte al paziente schizofrenico, propone un criterio soggettivo di interpretazione per cui il terapeuta avvertirebbe la schizofrenia come come uno stato d’animo che però è affine ad un sentimento estetico: l’intreccio fra psichiatria ed estetica in realtà è molto più profondo e antico di quanto  comunemente si potrebbe essere indotti a pensare. Senza andare troppo lontano può essere preso in considerazione anche il “manierismo” di Ludwig Binswanger, un concetto prestato alla psicopatologia ma che originariamente definiva un movimento dell’arte figurativa.

Partendo da queste premesse storiche, viene naturale proporre una riflessione sull’articolo di Peter e Paul Matussek[69] a proposito di Martin Heidegger e sull’ intervista di Annelore Homberg a Rudiger Safransky[70], che molto ha scritto sulla biografia del filosofo tedesco. Come si fa a dire che la schizofrenia o più in generale i disturbi psicotici sono un fenomeno deficitario, come si fa a sostenere che M. Heidegger avesse un deficit mentale? Esisterebbero delle forme di schizofrenia che sono perfettamente compatibili con un grande successo lavorativo e sociale e con la capacità di ottenere il consenso degli altri.

Scrivono i  Matussek:

<< (…) Heidegger usava vocaboli strani fin da quando era un giovane docente. ruinanza (Ruinanz), prestruzione (Prastruktion), larvanza (Larvanz), rilucenza (Releuzenz).(…) Certamente il manieristico gergo dell’autenticità non sarebbe stato realizzabile senza il talento eccezionale  di Heidegger che non sfugge neppure ai suoi avversari. Un talento particolare che gli assicura l’attenzione del pubblico la quale a sua volta gli impedisce di cadere nella psicosi.>>[71]

La ricerca dell’autenticità ,straordariamente produttiva sul piano filosofico, fu sterile per quanto riguardava l’identità interiore del filosofo: il linguaggio manierato era l’espressione dell’incapacità di provare vergogna ed ammettere la propria colpa dell’ adesione al nazismo.

I due studiosi tedeschi, sopra citati, ripropongono e rielaborano, con la tesi precedentemnte esposta,  un classico  orientamento   storico  della psicopatologia: secondo quest’ultimo non si può considerare il deficit, la dissociazione come la caratteristica fondamentale del processo schizofrenico, ma, piuttosto, in accordo anche con F. Barison, Massimo Fagioli, ecc., il manierismo schizofrenico andrebbe ritenuta  una forma peculiare  di “creatività”, (mettendo appunto creatività fra virgolette), di produttività psichica. M. Fagioli in particolare lega in modo originale  il manierismo all’anaffettività[72]  (vedi numero monogafico sul manierismo ne “Il sogno della farfalla”) mentre F. Barison, in Opinioni di uno psichiatra di derivazione heideggeriana sulla psicoterapia[73]del 1991 scrive:

 ”La schizofrenia si configura allora non come un insieme di deficit quantificabili, ma come modi di essere abnormi che possono essere colti nel “mit-sein“. Fin da giovane ho visto la schizofrenicità come un “plus”, un qualche cosa che dà a tutto il vivere del paziente un colorito che non è solo disordine, incomprensibilità su un piano cognitivo e sentimentale, dissociazione, atimia, vissuto autistico; ma qualche cosa di più e cioè il colore di una “novità”, che ha un senso che è un non senso; un qualche cosa che è coglibile col “praecoxgefûhl”, di cui è celebre la tautologica definizione. In ottica ermeneutica, una “verità” vivendo la quale l’operatore riesce a sentirsi “con” con questo uomo che ogni “con” rifiuta, e così anche l’operatore si sente “mutato”. Troppo facili le analogie con l’opera d’arte e con la fruizione della stessa. Ed è per questo che ho trovato nel secondo M.Heidegger un conforto a questo vivere la schizofrenicità non come una romantica creazione (a questo mi portava l’esistenzialismo di Sein und Zeit) ma come l’apertura al disvelarsi velandosi dell’essere, in una abnorme perché solipsistica apparsa della “radura”, la luce del bosco che si nasconde nell’ombra”.

F. Barison, peraltro eminente e stimato studioso, come del resto aveva fatto prima di lui Binswanger rimane intrappolato nel paradosso di voler utilizzare la filosofia  di uno schizofrenico, come riferimento metodologico per comprendere la schizofenia stessa. Ciò ricorda un famoso racconto di Edgar Allan Poe[74] in cui i malati di mente erano indistinguibili a prima vista  dai medici di cui avevano usurpato il posto in un manicomio.

Certo non è trascurabile la circostanza secondo la quale M. Heidegger nella sua conferenza L’essenza della verità del 1930, aveva formulato l’idea che la libertà dello spirito di fronte al mondo delle pulsioni, cioè il prescindere dall’analisi della propria personalità fosse il presupposto per trovare la verità.[75]

Anche il secondo Heidegger, quello della svolta filosofica verso l’apertura e l’abbandono realizzata dopo il soggiorno nella clinica di Von gebsattel , quello che dimostrò di interessarsi alla psichiatria ed alle questioni psicologiche non tradì il proprio orientamento fondamentale occuppandosi della psiche degli altri piuttosto che della propria, mettendo in imbarazzo gli altri piuttosto che trovarsi in imbarazzo lui stesso.

Heidegger tendeva a nascondere agli altri e da sè i contenuti più intimi e  più privati del suo pensiero: egli era la negazione vivente del significato della psichiatria e della psicoterapia come strumenti per giungere ad una veritò su stessi.

Secondo il nostro approccio, la schizofrenia è un disturbo troppo profondo per consentire una creatività vera e propria[76], intesa come espressione autentica e contatto con  gli aspetti più irrazionali della propria personalità.Si può dunque parlare nella schizofrenia più propriamente e specificamente di produttività, possibile in certi settori, dominio quasi esclusivo del pensiero razionale come ad esempio l’informatica o la matematica o la logica, o la filosofia. Diviene a questo punto necessario distinguere e capire che cosa si debba intendere con il termine creatività: una cosa è la produttività artistica od anche scientifica o filosofica, ottenuta con procedimenti razionali altra cosa è la creatività, che per come la si concepisce  nell’ambito della nostra ricerca , è legata appunto agli aspetti irrazionali del rapporto fra esseri umani[77].

Una  considerazione importante riguarda il fatto che negli anni ‘20  del secolo scorso il tema della schizofrenia da argomento specialistico diventa, attraverso l’estetica, questione culturale. La malattia mentale  era  ed è tuttora un problema di difficile definizione : ciò ha  consentito  il perpetuarsi della credenza secondo la quale la schizofrenia  possa essere una  fonte della  creatività in generale e più specificamente  di quella artistica. Tale idea, che ha permeato gran parte della cultura e delle poetiche del Novecento  viene riproposta a più riprese anche dallo stesso Barison nel momento in cui equipara “l’assurdo schizofrenico” con “l’assurdo artistico” dell’arte moderna. Scrive Barison  nell’articolo Una psichiatria ispirata ad Heidegger del 2001:

“Gli operatori psichiatrici possono vivere il “fascino” della schizofrenia; e quante volte l’ho provato! A proposito della praecoxgefûhl si può ribadire ciò che si è detto in riguardo all’arte e alla sensazione di andare oltre l’Erlebnis diltheyano: si tratta di un’esperienza che va al di là della “sensazione di schizofrenicità”. Nel groviglio autistico lo schizofrenico ci invia un messaggio analogo al linguaggio dell’artista: chiuso in una bottiglia, esso non sarà mai raccolto se non da coloro che sapranno rompere il vetro, attraverso un’attitudine di ascolto che sale ad un livello del tutto differente da quello di ciò che può definirsi “sensazione” (da un livello psicologico ad un livello ermeneutico)”.

Molti studi biologici, come quello di H. Gage, riproponendo solo apparentemente “ammodernato” il concetto di demenza, di fatto annullano completamente quella che è la storia  che dal secolo corso arriva fino a tempi recenti,  della psichiatria e della psicopatologia, che pur in mezzo a contraddizioni, e paradossi ed a quelle che oggi ci appaiono come ingenuità incredibili,  ha posto comunque  il problema della “malattia mentale” in termini per cui esso non può più essere circoscritto alle sole componenti  neurobiologiche od ad un deficit neurocognitivo od organico.

Recentemente  Annick Parnas in un articolo dal titolo emblematico Core of Schizophrenia: Estrangement, Dementia or Neurocognitive Disorder? è intervenuta sul tema del deficit sostenendo che:

<< (…)the empirical morphological and neuropathological evidence does not support any close analogy of schizophrenia with neurodegenerative dementia. Moreover, neurocognitive dysfunctions cannot be considered a core feature of schizophrenia if core is understood as ‘essential’, i.e. constitutive of a diagnosis, or as ‘generative’, i.e. symptom producing. In the phenomenological psychopathological tradition, schizophrenia is seen as a progressive condition marked by autism, which is a profound alteration in the structures (frameworks) of subjectivity (consciousness), manifest in self-relation (self-disorders) and in the relation to the world (lack of natural evidence) and to others (eccentricity, solipsism and isolation). Conclusion: It is suggested that the neurodevelopmental model [ quello a cui fanno riferimento gli studi genetici] should integrate interactions between emerging psychological structures and genetic and environmental factors.>>[78]

Sempre secondo A. Parnas bisogna recuperare il concetto, proprio della tradizione  fenomenologica dei ricercatori europei di un nucleo generatore della psicosi, di una specificità del schizofrenia, che non non può essere ricondotta ai soli sintomi positivi. Il nucleo generatore si manifesta come un “tutto”, una Gestalt   inscritta nella struttura complessiva della personalità  del paziente : essa traspare  attraverso la multiforme congerie  dei sintomi e dei segni patognomonicii senza identificarsi con deficit quantiitavi, o perdita di  normali funzioni cognitive.[79]

Il rinnovato riferimento alla tradizione fenomenologica, l’affinamento delle capacità diagnostiche oltre gli evidenti limiti del DSMIV[80], potrebbero  evitare  un clamoroso errore: cercare la causa genetica di una malattia, o di una sindrome  schizofrenica  che allo stato attuale della ricerca non è esattamente definita. Senza un criterio diagnostico universalmente condiviso, basato sul

riconoscimento del cosiddetto “nucleo generatore” qualunque indagine genetica, per quanto tecnicamente raffinata potrebbe essere  fallimentare in partenza.  Si ricerca la causa genetica di un  effetto fenotipico  non chiaramente individuato.

Inoltre, come sostiene Nancy .C Andreasen, il DSM nelle sue varie versioni ha avuto un effetto disumanizzante nella pratica della psichiatria, in quanto avrebbe scoraggiato I clinici a sviluppare una conoscenza approfondita dei pazienti come persone. Tramite il DSM:

<< (…)validity has been sacrificed to achieve reliability. DSM diagnoses have given researchers a common nomenclature—but probably the wrong one. Although creating standardized diagnoses that would facilitate research was a major goal, DSM diagnoses are not useful for research because of their lack of validity.>>[81]

Conclusioni

L’ipotesi dell’origine genetica della schizofrenia non trova conferme

definitive né negli studi epidemiologici condotti su popolazioni di gemelli e

figli adottivi, né negli studi di biologia molecolare. Anche dagli studi

di Genome wide association, a tutt’oggi  la metodica più promettente,  è

emerso  che benchè siano  numerosi i geni candidati a determinare una

suscettibilità genetica alla schizofrenia nessuno di questi  ha

mostrato fattori predittivi elevati e anche volendo trascurare questo dato

epidemiologico è emerso che la maggior parte dei genotipi mutati  non è in

grado di  fornire un contributo preponderante nella patogenesi della malattia.

Si tratta  infatti di geni cosìddetti “a piccolo effetto” codificanti cioè per

molecole il cui ruolo è sottoposto a meccanismi regolatori  estremamnete

complessi.  L’individuazione della relazione fra alterazione molecolare e

malattia risulta pertanto macchinosa e troppo spesso del tutto aspecifica

essendo tali mutazioni riscontrate anche nel contesto di malattie neurologiche. I punti deboli di tali ricerche riguardano non solo gli aspetti più strettamente metodologici delle indagini statistiche, ma soprattutto i criteri diagnostici in base ai quali le popolazioni indagate sono selezionate. La diagnosi di schizofrenia effettuata con i criteri diagnostici del DSM-IV è stata ripetutamente criticata perché ad essa manca un fondamento psicopatologico, un criterio che consenta di individuare il cosiddetto nucleo generatore della psicosi. Inoltre storicamente dal punto di vista clinico sono stati descritti casi di schizofrenia non riconducibili ad un minus o a un deficit cognitivo, ma addirittura caratterizzati, secondo il punto di vista  di K. Jaspers,  H. Prinzhorn, F. Barison, W. Matussek da un plus produttivo. Inoltre l’ipotesi di un’alterazione su base genetica del neurosviluppo che si traduca nella cosiddetta sindrome disconnettiva alla base secondo alcuni autori della schizofrenia, è contraddetta dalle conoscenze acquisite negli ultimi decenni  sulla sinaptogenesi, sull’epigenetica e sul ruolo degli stimoli ambientali nel rimodellare la connettività cerebrale.

I modelli esplicativi delle patologie psichiatriche testati con esperimenti sugli animali sono fuorvianti poiché come afferma P. Bourgeois:

<<The human brain is not simply a big mouse brain>>[82]

Abstract

Non solo nei mass media ma anche in prestigiose riviste specialistiche viene avallata e propagandata l’idea che la schizofrenia sia una malattia genetica: ciò è dovuto all’applicazione acritica alla psichiatria del metodo  riduzionistico che è una caratteristica alla base della fondazione stessa  della biologia molecolare. Se si analizza la letteratura sul tema della genetica della schizofrenia in realtà si constata che, tramontata la prospettiva di un’origine monogenetica, gli studi che riguardano la poligenia  cioè  l’interazione di numerosi geni cosidetti “a piccolo effetto” forniscono dati la cui interpretazione è oltremodo controversa. Inoltre da circa un secolo si è affermato tutto un settore della ricerca psichiatrica ad orientamento psicopatologico, che ha messo in discussione, in base all’osservazione ed all’esperienza clinica  il concetto che nella schizofernia sia presente un defekt dovuto ad un processo organico sconosciuto. Anche l’ipotesi che la supposta anomalia genetica causa della schizofrenia sia da mettere in relazione con un’alterata connettività a livello corticale , oltre ad essere generica, in quanto applicabile ad altre patologie come la sindrome di Rett o l’epilesia o l’autismo,  non è supportata dalle conoscenze che noi abbiamo relativamente ai processi della sinaptogenesi.

 

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[1] Si ringraziano per la collaborazione Maria Pia Albrizio, Elvira di Gianfrancesco, Maria Gabriella Gatti, Matteo Madrucci, Annalisa Mastropasqua. Silvia Sillari

[2]G. Belardelli, I segreti della schizofrenia in “provetta”. I neuroni malati comunicano di meno. Repubblica.it, 13 aprile 2011. Disponibile online all’indirizzo http://www.repubblica.it/salute/medicina/2011/04/13/news/staminali_ultima_frontiera_ricreata_mente_schizofrenica-14898649/.

[3] K. J. Brennand, et al. Modelling schizophrenia using human induced pluripotent stem cell. Nature, 2011 May 12; 473(7346):221-5. Epub 2011 Apr 13.

[4]P. F. Sullivan, K. S. Kendler, & M. C.  Neale, Schizophrenia as a complex trait: evidence from a meta-analysis of twin studies. “Archives of General  Psychiatry”, 2003, 60, pp.1187–1192.

[5] G. Belardelli, I segreti della schizofrenia in “provetta”. I neuroni malati comunicano di meno. Op. cit.

[6] K.J. Brennand, et al. Modelling schizophrenia using human induced pluripotent stem cell. Op. cit.

[7] “Pioniere” in questo settore è stato lo psichiatra e genetista svizzero Ernst Rüdin, allievo di Emil Kraepelin nonchè tra i principali ispiratori delle politiche di rassenhygiene del nazismo, che nel 1916 pubblica il primo studio familiare sistematico sulla schizofrenia (E. Rüdin, Zur Vererbung und Neuenstehung der Dementia Praecox, Springer,Berlino 1916.).

A questo proposito vedi anche Roelcke V., Programm und Praxis der psychiatrischen Genetik an der Deutschen Forschungsanstalt für Psychiatrie unter Ernst Rüdin: Zum Verhältnis von Wissenschaft, Politik und Rasse-Begriff vor und nach 1933. “Medizinhistorisches Journal” 2002, 37, pp.21-55.

[8] M.P. Fleming, C. R. Martin, Genes and Schizophrenia: a pseudoscientific disenfranchisement of the individual, “Journal of psychiatric and mental health nursing”, 2011, 18, pp. 469-478

[9] Vedi di seguito la parte degli studi sui gemelli per un approfondimento dei problemi metodologici.

[10] La spiegazione che viene data è che questo risultato sarebbe la norma nel caso di malattie poligeniche “complesse” in famiglie poco numerose… vedi  J. Yang ,PM. Visscher, NR Wray, Sporadic cases are the norm for complex disease, European Journal HumanGenetics, 18, pp.1039–43

[11]J. Joseph,The Missing Gene: Psychiatry, Heredity, and the Fruitless Search for Genes, Algora Publishing,New York, 2006.

[12] S. Rose, L.T. Kamin & R.T. Lewontin, Schizophrenia: the clash of determinisms, in Not in Our Genes, Penguin, London, 1984, pp. 197–232.

[13] M.P. Fleming, C. R. Martin, Genes and Schizophrenia: a pseudoscientific disenfranchisement of the individual, Op. cit.

[14] Come ad esempio la psicosi maniacale, i disturbi schizoaffettivo e schizofreniforme, e il disturbo schizotipico di personalità.

[15] Bias è un termine utilizzato per indicare un errore metodologico sistematico. In statistica indica l’utilizzo di un campione distorto che non rappresenta cioè in modo reale la popolazione di riferimento.

[16] Sullivan, P. F., Kendler, K. S. & Neale, M. C. Schizophrenia as a complex trait: evidence from a meta-analysis of twin studies. Op. cit.

[17] La pairwise comparison è calcolata utilizzando la formula C/(C+D), dove C indica il numero di coppie concordanti e D quelle discordanti. Per esempio in un gruppo di 100 gemelli, se 40 coppie condividono una malattia e le restanti 60 no, il tasso di concordanza calcolato mediante la pairwise comparison sarà del 40% (40/(40+60)).

La probandwise concordance è il calcolo della proporzione dei gemelli malati che hanno un gemello malato rispetto a coloro che non lo hanno e utilizza la formula 2C/(2C+D). Sempre nel solito campione di 100 gemelli in cui 40 coppie condividono la malattia e le restanti 60 no la concordanza probandwise sarà del 57% (80/(80+60)).

Appare dunque evidente come l’utilizzo di un metodo di calcolo piuttosto dell’altro aumenti notevolmente il tasso di concordanza.

Molti autori giustificano la scelta del secondo metodo perché fornirebbe risultati meglio comparabili tra i diversi studi e con i tassi della malattia nella popolazione generale. Per dare risultati affidabili però la probandwise concordance dovrebbe basarsi su una rigorosa verifica delle diagnosi e dello stato di gemello mono o dizigote, cosa che spesso non avviene, specie negli studi più datati.

[18] M.P. Fleming, C. R. Martin, Genes and Schizophrenia: a pseudoscientific disenfranchisement of the individual, Op. Cit. p. 472.

[19] Lj. Kamin, AS. Goldberger, Twin studies in behavioral research: a skeptical view. Theoretical Population Biolog, 61, pp. 83–95 vedi studio MISTRA sui reared aparts; J. Joseph, The gene illusion: genetic research in psychiatry and psicology under the microscope, Algora Publishing, New York, 2004.

[20] [20] M.P. Fleming, C. R. Martin, Genes and Schizophrenia: a pseudoscientific disenfranchisement of the individual, Op. Cit. p.474

[21] R. Sherrington ,J. Brynjolffson, H. Petursson, M .Potter, K. Dudleston, B . Barraclough, J. Wasmuth, M. Dobbs, H. Gurling, Localization of a susceptibility locus for schizophrenia on chromosome 5, “Nature”, 1988, 336, pp.164–167

[22] T.D. Cannon and M.C Keller, Endophenotypes in the Genetic Analyses of Mental Disorders, “Annual Review of Clinical Psychology”, Vol. 2, April 2006.

[23] T.J. Crow, How and why Genetic linkage has not solved the problem of psychosis: review and hypothesis, “American Journal of Psychiatry”, 2007, 164, p. 15.

[24] T.J. Crow, The emperors of the schizophrenia polygene have no clothes, in Psychological Medicine Cambridge University Press., Cambridge, 2008, pp.1-5

[25] A.R. Sanders et al., No significant association of 14 candidate genes with schizophrenia in a large European ancestry sample: implications for psychiatric genetics, “American Journal of Psychiatry, 2008,165(4), pp. 497-506.

[26] Il polimorfismo a singolo nucleotide (SNPs) è una variazione a carico di un nucleotide ovvero le basi del DNA da cui sono formati i geni. Ad esempio se le sequenze nucleotidiche che formano una gene in due persone una malata e l’altra no sono AAGGCTAA e ATGGCTAA, il polimorfismo è dovuto al cambiamento del nucleotide da A in T. Si parla di polimorfismo se la variazione è presente nella popolazione in misura superiore all’1%. Se al di sotto si parla di mutazione. Per maggiori informazioni vedi il sito http://www.ornl.gov/sci/techresources/Human_Genome/faq/snps.shtml

[27] vedi anche il sito http://www.szgene.org

[28] P.V. Gejman, A.R. Sanders, and , K.S.  Kendler, Genetics of Schizophrenia: New Findings and Challenges,Annual Review of Genomics and Human Genetics“, 2011-12. Review in Advance first posted online on June 2, 2011.

[29] P. V. Gejman, A. R. Sanders, and D. Jubao,The role of genetics in the etiology of schizophrenia, Psychiatric Clinics of North American, 33, 2010, pp. 35-66.

[30] I genome-wide association study (GWAS) è una tecnica utilizzata in genetica per esaminare il genoma di diferenti popolazioni di individui per vedere quanti geni variano da individuo a individuo. Ad esempio possono essere comparati due gruppi di soggetti: i portatori di malattia e coloro che non ne sono affetti. Se vi sono variazioni genetiche più frequenti nel gruppo dei malati questi geni sono considerati “associati” alla malattia. Per un approfondimento vedi anche il sito http://www.genome.gov/gwastudies

[31] Nota: in psichiatria, dove molta della neurofisiopatologia associata alle malattie è ancora da chiarire, gli studi GWA dovrebbero avere il vantaggio di essere indipendenti da un’ipotesi a priori, e per questo consentire di individuare associazioni “nascoste”. Proprio il fatto di essere “non hypotesis driven” però espone al rischio di trovare associazioni casuali e attribuirgli un significato a posteriori. Molti critici dei GWAs infatti li additano come un cattivo esempio di “factory science” e fanno notare come l’enorme numero di analisi statistiche porti necessariamente ad un elevato numero di falsi positivi. A questo proposito si veda: TA. Pearson, TA. Manolio, How to interpret a genome-wide association study,Journal of American Medical Association”, 2008,  299 (11), pp.1335–44.

[32] L’ApoE è una lipoproteina plasmatica coinvolta nel trasporto del colesterolo e che si lega alla proteina amiloide

[33] P.V. Gejman, A.R. Sanders, and K.S. Kendler, Genetics of Schizophrenia: New Findings and Challenges. Op. cit.

[34] L’Odd Ratio (OR) è un indice statistico utilizzato sopratutto negli studi caso-controllo per calcolare se un fattore di rischio (in questo caso dei geni) può essere causa di insorgenza di malattia. Se il valore di OR è 1 il fattore di rischio non influisce sulla malattia. Se è maggiore di 1 può essere implicato nell’insorgenza della malattia. Se è minore di 1 può essere considerato un fattore protettivo.

[35] le sequenze intergeniche e introniche sono quelle sequenze di DNA che si trovano fra i geni (intergeniche) o all’interno dei geni (introniche) che non vengono trascritte e che quindi non sono funzionali.

[36] per una discussione più dettagliata su questa teoria vedi più avanti

[37] JA. Badner, ES.  Gershon, Meta-analysis of whole-genome linkage scans of bipolar disorder and schizophrenia, Molecular Psychiatry, 7(4), pp.405-411; CM Lewis et al., Genome scan meta-analysis of schizophrenia and bipolar disorder, part II: Schizophrenia,America Journal of Human Genetics”, 2003, 73(1), pp.34-48

[38]  Q. Chen,  C. Ronglang,  X. Wang, F.A. O’Neil, D. Walsh, W. Tang, Y. Shi, L.He, K.S. Kendler, X. Chen,  Association and expresson study of synapsin III and schizophrenia,  “Schizophrenia Resources”, 2008, 106 (2-3), pp. 200-207

[39] Sono mutazioni per cui si ha uno scambio di tripletta di basi nella sequenza del DNA: ciò comporta che in un certo punto della catena proteica un aminoacido è sostituito da un altro. Questa sostituzione non fa rimuovere la proteina ma può determinare una più o meno grave alterazione funzionale, in dipendenza dal punto della catena e dal tipo di aminoacido che è stato sostituito

[40] B.Porton, A. Ferreira, L. De Lisi, H.T. Kao, A Rare Polymorphism Affects a Mitogen-Activated Protein Kinase Site in Synapsin III: Possible Relationship to Schizophrenia, “Biol Psychiatry”, 2004, 55,  pp. 118-125

[41] C.L. Gatto, K. Broadie, Genetic controls balancing excitatory and inhibitory synaptogenesis in neurodevelopmental disorder models, “Frontiers in Synaptic Neuroscience”,  2010, 2, pp. 1-19.

[42]Il campione dei 4 pazienti “schizofrenici” dello studio di Nature è così composto:  il primo, morto suicida a 22 anni, sarebbe stato diagnosticato come schizofrenico a 6 anni; si tratterebbe quindi di una forma infantile, certamente non tipica, di schizofrenia. Il secondo, maschio di 26 anni, manifestava “episodi di agitazione e delirio di persecuzione”, in assenza di una diagnosi più chiara; sua sorella, di 27 anni, con diagnosi di disturbo schizo-affettivo e abuso di sostanze è il terzo paziente. Il quarto paziente, di 23 anni, è stato diagnosticato come schizofrenico all’età di 15 anni. E’ interessante notare anche come la sorella di questo ultimo paziente, con diagnosi di anoressia nervosa e disturbo schizoide di personalità, non sia stata inclusa, viene da dire in modo arbitrario vista la scarsa omogeneità del campione. K.J. Brennand, et al. Modelling schizophrenia using human induced pluripotent stem cell. Op. cit.

[43] K.J. Friston, The disconnection hypothesis, “Schizophrenia Research”,1998, 30, pp.115-125.

[44] H. Be’eri,F. Reichert, A. Saada ,S. Rotshenker, The cytokine network of wallerian degeneration: IL-10 and GM-CSF, “European Journal Neuroscience”, 1998,10(8), pp. 2707-13.

[45] M.M Mesulam, Large-scale neurocognitive networks and distributed processing for attention, language, and memory, “Annual Neurology”, 1990, 28, pp.597-613.

[46] P.Bourgeois, The neonatal synaptic big-bang, in H. Lagercrantz, M.A Hanson, LR.D.M.Peebles ( a cura di), “The newborn brain” Cambridge University Press , Cambridge, 2010, p. 80.

[47] ibidem

[48] F. Crick, Molecole e d uomini. E’ morto il vitalismo?, Zanichelli, Bologna, 1970, pp. 10-11

[49] G. Corbellini, Le grammatiche del vivente,  Laterza, Bari, 1999, p.188

[50] M .Stanzione, Olismo e riduzionismo in biologia medicina e scienze sociali, in G . Corbellini (a cura di), La parte e il tutto, Casamassima, Udine, 1992,  p. 135

[51] Enciclopedia Britannica edizione online reperibile al sito http://www.britannica.com/EBchecked/topic/644503/Thomas-Willis

[52] J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, p. 34

[53] F. Jacob, La logica del vivente, Einaudi, Torino, 1971.

[55] K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1988, p. 328.

[56] Per H. Gage “il disturbo fondamentale” sarebbe un’alterazione genetica a cui fa seguito un deficit di connettività.

[57] W. Blankeburg, La perdita dell’evidenza naturale,  Cortina, Milano,1998, p. 8

[58] Vedi F.Voltaggio, La medicina come scienza filosofica , Laterza, Bari, 1998, p. 115

[59] P. Greenacre, Trauma crescita e personalità, Cortina, Milano, 1986, p.15

[60] S. Freud, Osf, Vol. X, Boringhieri, Torino, 1978, p. 285.

[61] Standford Encyclopedia of Philosophy (edizione on line http://plato.stanford.edu/), First published Tue Oct 26, 2004, substantive revision Tue Mar 10, 2009

[62] G. Corbellini op. cit., p. 208.

[63] F.G. Ayala, T.Dobzhansky (a cura di),  Studies  on the philosophy of biology, University of California Press, Berkeley, 1974, pp. VII-XVI

[64] G. Wolters, Ridurre il riduzionismo genetico, Humana.Mente – numero 6 – Luglio 2008 (versione on line), http://www.humanamente.eu/PDF/Wolters%20-%20Sesto%20Numero.pdf

[65] G.Corbellini, op.cit., p.193.

[66] ibidem, p. 194.

[67] H.D. Hingvar, On Volition: a neurophysiologically oriented essay, in B. Libet, A.Freemann, K . Sutherland ( a cura di), On volition in The volitional brain: Towards a neuroscience of free will, Imprint Accademic, Exeter, 1999, p. 3; vedi anche  B. Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will on voluntary action, “Behavior brain science”, 89, pp. 576-615.

[68] F. Barison, Art et Schizophrénie, “Evolution Psychiatrique”,1961, 1, pp. 69-92.

[69]  P.Matussek, P.Matussek. Martin Heidegger Il sogno della farfalla 3, 2009. pp75-100 e   Il sogno della farfalla  1.2010 p 64-76

Il saggio dei Matussek non è esente da una certa ambiguità. I due studiosi mentre cercano di avallare la tesi che il pensiero di Heidegger ha delle caratteristiche schizofreniche se esaminato alla luce delle categorie binswangeriane (manierismo, esaltazione fissata e stramaberia) dall’altra sembrano spaventati dalle loro stesse affermazioni. Proprio all’inizio del loro saggio scrivono:

<<Analizzando la personalità problematica di Martin Heidegger il nostro intento non è patologizzare la sua opera. Ci chiediamo invece come abbiamo fatto per C.G. Jung quale perso abbia avuto la struttura della sua personalità nella sua opera filosofica. Le creazioni geniali di entrambi, infatti , non possono spiegarsi senza il coinvolgimento di fattori biografici>>

Come si vede la “genialità” secondo i due studiosi tedeschi può tranquillamente convivere con la schizofrenia.

[70] A.Homberg , T.Spielman, Intervista a Rudiger Safransky, “Il sogno della farfalla”, 1, 2010, pp. 76-86

[71] P.Matussek, P Matussek, op. cit p  66

[72] vedi numero monogafico sul manierismo ne “Il sogno della farfalla” N.E.R., 3, 1997. La “Teoria della nascita” di M. Fagioli è estremamente complessa e articolata e la sua esposizione non rientra negi obiettivi di questo lavoro

[73] F.Barison, Opinioni di uno psichiatra di ispirazione heideggeriana sulla psicoterapia,  in Psichiatria e Territorio, 1991, Vol. VII, Num. 3.

[74] E. A. Poe, The System of Doctor Tarr and Professor Fether, in Racconti Straordinari – Genesi di un poema – Racconti grotteschi e seri, Edizioni per Il Club del Libro, Milano, 1958.

[75] P.Matussek,P.Matussek op.cit. p 71

[76] Vedi l’articolo “Psichiatria ed Arte”  di Paola Bisconti e Francesco Fargnoli pubblicato nel “Il sogno della farfalla”,N.E.R., 2007,2 pp. 55-78

[77] ibidem

[78] A. Parnas, E. L. Mortensen, J. Parnas,Core of Schizophrenia: Estrangement, Dementia or Neurocognitive Disorder?, “Psychopathology”, 2010, 43, pp. 300-311 p. 1

[79] J. Parnas, A Disappearing Heritage: The Clinical Core of Schizophrenia,

“Schizophrenia Bulletin”, 2011, (in corso di pubblicazione, reperibile online su

http://schizophreniabulletin.oxfordjournals.org/content/early/2011/07/19/schbul.sbr081.full.pdf+html.)

[80] <<The DSM-IV-TR11 defines schizophrenia in the following way:

“The essential features of schizophrenia are a mixture of characteristic ( … ) positive and negative [symptoms] that have been present for a significant portion of time ( … ), associated with marked social and occupational dysfunction. The disturbance is not better accounted for by (…)”Maj criticized this definition for not offering any general account of what schizophrenia is but rather of what it is not (nonorganic, nonaffective, etc.). The definition does not consider negative or positive symptoms (or their combinations) as specific to schizophrenia. Moreover, Maj claimed that operational criteria are only useful to a clinician who is already familiar with what schizophrenia is.>> ibidem p. 3

[81] N. C. Andreasen, DSM and the death of phenomenology in america: an example of unintended consequences, “Schizophrenia Bulletin”, 2007, 33(1), p. 111.

[82] P.Bourgeois, The neonatal synaptic big-bang, op. cit. p. 80

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